L’articolo di Bruno Costi sull’egemonia e la malafede della cultura di sinistra merita una chiosa, o meglio una testimonianza personale che più di mille denunce può spiegare ai giovani la pervicacia dell’intolleranza «progressista» nei confronti del Diverso.
Sergio Quinzio e Guido Ceronetti |
Fra il 1970 e il 1972 cominciarono a uscire i primi libri della Rusconi Libri, che ero stato chiamato a dirigere un anno prima. Ne citerò alcuni a titolo di esempio: II Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali, un dibattito fra Augusto del Noce e Ugo Spirito, il Manifesto dei conservatori di Giuseppe Prezzolini, alcune autobiografie di pellirosse, Il flauto e il tappeto di Cristina Campo, Difesa della luna di Guido Ceronetti, La mela di Adamo e la mela di Newton di Giuseppe Sermonti, La morte della luce di Hans Sedlmayr, Le serate di Pietroburgo di Joseph de Maistre, una testimonianza di Marcenko sui campi di concentramento sovietici, e saggi di René Guénon, Simone Weil, Alce Nero, Eliade. Era una casa editrice alternativa, aperta anche ad autori della sinistra: senza censure.
Opposta fu la reazione; dapprima si cercò di tacere, di non recensire, di ignorare. Ma i libri si vendevano a decine di migliaia di copie, sicché diventava sempre più difficile ignorarli. Si passò allora alla denigrazione sistematica della casa editrice e del suo direttore editoriale. Nel novembre del 1970 Umberto Eco pubblicò sull’«Espresso» un articolo minaccioso nei confronti di scrittori come Quinzio e Ceronetti che avevano avallato la Rusconi, col titolo ironico: «La parabola del buon reazionario»; nel luglio del 1971 Valerio Riva scrisse sulla stessa rivista un altro articolo col titolo terroristicamente allusivo: «Libro e boschetto» perché la casa editrice pubblicava anche saggi sulla salvaguardia della natura, fra cui Manuale di ecologia di Alfredo Todisco. Il 16 dicembre 1971 Walter Pedullà sulle colonne di «Rinascita» ammoniva: «Quanto bisognava dire contro la Biennale cinematografica di Venezia (la dirigeva allora Rondi), contro la concentrazione di testate di giornali e contro De Feo è stato scritto, così come contro l’editoria i cui piani sono più provocatoriamente reazionari, ad esempio, onore al merito, quelli di Rusconi, che ha fatto presto a farsi riconoscere per l’alfiere di un’operazione di destra».
Poi nel 1972, approfittando dell’adesione di un nostro autore, Armando Plebe, al Msi, quasi che uno scrittore rappresentasse politicamente la casa editrice, la canea aumentò d’intensità, intervenne naturalmente anche Moravia, si cominciò a parlare del pericolo di una «restaurazione della cultura». Ceronetti, reo di collaborazionismo, venne allontanato dall’«Espresso», nei maggiori premi letterari le opere della Rusconi venivano sistematicamente ignorate o, se non era possibile, tenute a prudente distanza dalla vittoria, anche quando i loro autori non erano etichettabili «a destra», come ad esempio Luigi Compagnone, Mario Pomilio, Carlo Coccioli o Giorgio Saviane. Quanto a Giuseppe Berto, diventato «reazionario», riuscì a vincere il Bancarella con Oh, Serafina! grazie ai librai pontremolesi che non obbedivano alle parole d’ordine vigenti.
Continuai impassibile sulla mia strada, pubblicando i maggiori esponenti della cultura sapienziale del Novecento, da Coomaraswamy a Marius Schneider, da Abraham J. Heschel a Eliade, fino a quando nel 1975 la casa editrice venne affidata a un nuovo direttore generale, Ugo Braga, che aveva il compito di eliminare tutte le collane che avevano suscitato riserve nella sinistra, prima fra tutte «Tradizione» dove avevo stampato, oltre a De Maistre e Donoso Cortes, Pavel Florenskji, il filosofo e matematico russo morto nei campi di concentramento stalinisti, di cui l’Adelphi avrebbe pubblicato qualche anno dopo Le porte regali, il saggio sul simbolismo delle icone.
L’arrivo del nuovo direttore generale che aveva rilasciato alla stampa dichiarazioni gradite alla sinistra, produsse un effetto positivo sulle pagine letterarie dei quotidiani che cominciarono a considerare benevolmente i nuovi titoli incolori. Alla fine cercai lavoro altrove: tutte le porte mi vennero chiuse come a un maldestro principiante. Fui salvato dal «Settimanale» che allora apparteneva a una cordata di imprenditori liberali: da editore mi trasformai nel 1979, a quarantadue anni, in giornalista professionista. Quando nel 1981 si concluse traumaticamente quell’esperienza, cercai un altro giornale, ma riuscii a ottenere soltanto qualche vaga promessa da Gianni Letta, allora direttore de «Il Tempo», sul quale collaboravo grazie a Fausto Gianfranceschi.
Fortunatamente Corrado Guerzoni mi aprì, come collaboratore, i microfoni di Radiodue, non ancora controllata settariamente dalla sinistra, come succede adesso: l’insperata collaborazione mi permise letteralmente di sopravvivere. Fu allora che cominciai a scrivere quei libri di simbolismo, di storia delle religioni e di tradizioni popolari. I lettori li apprezzarono, la maggior parte dei giornali li ignoravano o quasi. Si diceva: «Quel Cattabiani è uno scrittore fine, ma purtroppo è di destra!». Come a dire: «È un infame!».
Nell’estate del 1986 un saggio di iconologia che avevo scritto con Marina Cepeda Fuentes, Bestiario di Roma, edito dalla Newton Compton, concorreva al premio Tevere. Nella riunione finale, quando la stragrande maggioranza della giuria era orientata a premiarlo, si alzò Walter Pedullà dicendo pressappoco così: «Forse non sapete che state per premiare uno dei responsabili della tensione culturale degli anni 70». Fortunatamente gli altri giudici non accettarono il ricatto ideologico.
E ora ecco uno degli ultimi recenti episodi di censura: l’anno scorso usciva un mio libro, Santi d’Italia (Rizzoli), giunto ora alla quarta edizione. Si trattava di lanciarlo adeguatamente e la Rizzoli lo consigliò anche a Corrado Augias per la sua rubrica televisiva «Babele», perché toccava temi popolari. Silenzio per settimane e settimane. La capo ufficio stampa della Rizzoli mi confessò: «Non sono riuscita a ottenere nulla. Sa, Augias è di sinistra...». «Ma il mio è un libro di agiografia senza alcuna implicazione politica!», obiettai. «Che vuole? Le cose stanno così».
(Alfredo Cattabiani, Il Tempo, 26 agosto 1994. Via Centro Studi La Runa. Neretti nostri)