"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

L'eterna crisi dell'editoria

È stucchevole questo continuo, insistente parlare di crisi dell'informazione e di gente che legge poco. Al momento è un'esplosione digitale, per dire, e chi "sfoglia" gli articoli dei giornali (o dei blog) lo fa grazie a internet. Però ci si allarma e si parla di anno nero per i prodotti editoriali in edicola: i ricavi dalla vendita di quotidiani e periodici dovrebbero assestarsi a poco più di 1,9 miliardi, il 10% in meno rispetto al 2018 ed il dato peggiore degli ultimi 5 anni.


A lanciare l'allarme è Fenagi, l’associazione delle edicole ed imprese di rivendita di quotidiani periodici Confesercenti, sulla base di proprie elaborazioni condotte sui dati resi pubblici dagli Uffici studi delle associazioni della filiera della carta. In particolare, si stima che i ricavi da quotidiani si fermeranno a 855 milioni di euro, il 7,5% in meno sull'anno passato. Per le riviste e le altre pubblicazioni periodiche, invece, si prevedono vendite per 1.076 milioni di euro, per un calo vicino al 12%. Una riduzione marcata, con conseguenze su tutta la filiera dell’informazione, dalle redazioni alla rete di vendita, ormai in una situazione di crisi strutturale. I conti economici parlano chiaro: rispetto al 2013, il reddito medio delle imprese del commercio al dettaglio di giornali, riviste e periodici è sceso di circa un terzo, e ormai 6 edicole su 10 realizzano utili – ante imposte! – di 10mila euro l'anno o meno. Uno scenario sempre meno sostenibile per gli operatori, come confermano i dati di chiusura dei punti vendita. Dal 2013 le rivendite sono passate da 18.077 a 14.730. Un dato che include, oltre i classici chioschi, anche i negozi e i pubblici esercizi che aggiungono all'attività prevalente la vendita di giornali. Le edicole vere e proprie, specializzate nella sola vendita di quotidiani e periodici, sono secondo le nostre stime ormai appena 5mila: una rete che ormai è a rischio di chiusura irreversibile.

Questa la situazione. Così a volte diventa necessario e opportuno fare memoria. «Nel 1861, al momento della proclamazione del Regno d'Italia, fu fatto il primo censimento generale della popolazione: il 74,7 per cento dei cittadini non sapeva né leggere né scrivere. Dieci anni dopo la percentuale era calata al 68,8 per cento ma le speranze per un giornale di avere un elevato numero di lettori restavano ugualmente poco rosee. Tuttavia, contrariamente a ciò che si potrebbe supporre, i giornali erano numerosissimi» scrive Mario Pacelli in un curioso libretto intitolato Cattivi esempi. Dunque, «accanto a giornali di larga diffusione erano pubblicati una miriade di giornali di provincia, in generale legati a notabili locali che in vista di futuri vantaggi, quali potevano essere l'elezione a deputato, o più modestamente, la nomina a sindaco della città, si accollavano le spese necessarie per la stampa dei giornali. Quello dei quattrini era per qualunque giornale il problema dei problemi: risolverlo era privilegio di pochi. Un giornale, per ben fatto che fosse, era infatti in quegli anni una impresa disastrosa sotto il profilo economico. Le edicole non esistevano: il giornale veniva venduto per abbonamento o presso il tipografo, il prezzo massimo era di venti centesimi ed i lettori erano molto pochi. Mille copie erano già una buona tiratura: nel decennio 1861-1871 la tiratura complessiva di tutti i giornali del Regno si aggirava sulle 400.000 copie, centomila in meno degli elettori in base alle leggi del tempo. Nemmeno tutti coloro che avevano diritto al voto si preoccupavano di tenersi al corrente degli avvenimenti». Tuttavia non risulta che si alimentasse la cultura odierna della lamentela, della lagna, del piagnisteo, del de profundis, né che circolassero tutti quei musi lunghi che si scorgono attualmente nelle redazioni.

Chi lavorava nel settore, per dire, si rimboccava le maniche e si dava da fare nel ricercare soluzioni. «Attilio Manzoni, un commerciante di medicinali, ebbe un'idea che negli anni successivi rivoluzionò completamente il finanziamento dei giornali: prese l'appalto per la pubblicità dei prodotti farmaceutici su giornali di medicina e poi, una volta constatato che il sistema assicurava lauti guadagni, estese l'appalto alle quarte pagine di molti quotidiani per la pubblicità di qualsiasi prodotto. Il colpo di genio furono le necrologie: Manzoni stabilì tariffe precise per il dolore e diventò ricco con il rimpianto di parenti e amici».

Siccome - l'avrete capito - tutto questo parlare di mancanza di opportunità e di crisi comincia a starci un po' sui nervi, e siccome siamo quasi a fine d'anno cioè in tempo di bilanci, incolliamo qui sotto anche l'incipit di Un anno terribile dello scrittore John Fante. E chissà che a qualcuno, guardando indietro, non venga finalmente voglia di guardare avanti.

«Era duro, l’inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c’erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi.

«Dominic Molise, mi dissi, aspetta un attimo. Sta andando tutto secondo i tuoi piani? Esamina attentamente la tua condizione, considera obiettivamente il tuo stato. Che succede, Dom?

«Vivevo a Roper, Colorado, e invecchiavo di momento in momento. Avrei compiuto diciotto anni di lì a sei mesi, e avrei preso la maturità. Ero alto un metro e sessantadue, e negli ultimi tre anni non ero cresciuto di un solo centimetro. Avevo le gambe arcuate, i piedi a papera, e le orecchie a sventola come quelle di Pinocchio. I miei denti erano storti e la faccia lentigginosa come un uovo di uccello.

«Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l'esame.

«Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente che parlava con franchezza con il suo Dio: Signore, che sta succedendo? È questo quello che vuoi? È per questo che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere. Non c'entravo per niente, salvo che ora sono qui e ti sto facendo domande oneste, ti chiedo i motivi, per cui dimmi, mandami un segno: è questo il premio per cercare di essere un buon cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino? Ho mai messo in dubbio la Transustanziazione, la Trinità o la Resurrezione? Quante messe ho perso la domenica e le feste comandate? Le puoi contare sulle dita, Signore.

«Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano? Hai perso il controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto con me, perché sono sempre preoccupato. Dammi un segno. Vale la pena di vivere? Le cose si aggiusteranno o no?».