"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Gli dei dell'uguaglianza e della differenza

Esiste un cattolicesimo pagano? Scommettiamo che questa domanda formulata in modo così brusco susciterà, nella peggiore delle ipotesi, l'ira dei bigotti di stretta osservanza o, nella migliore, un'indifferenza educata ma altezzosa da parte di altri devoti che ci taccerebbero - in aggiunta ad affibbiarci l'epiteto di relativista - di non conoscere nulla delle Sacre Scritture come della Verità neotestamentaria del messaggio cristico. Replicheremo a loro - così come ai pagani che rischierebbero di intentarci, ma in senso opposto, un processo simile nel tentativo di reclutare divinità immanenti sotto il solo stendardo del Dio unico - che le loro rigide attitudini li condannano a non afferrare il vero spirito dei politeismi che irrigano, nolens volens, la Rivelazione monoteista.

Giove nel "Ratto di Europa"
di Gustave Moreau, 1868

Li incoraggeremo a immergersi con profitto nel piccolo libro di Jean-François Gautier, firma ben conosciuta della rivista di idee Elements. Vedranno che se c'è davvero un solo Dio nella sua Parola universale, nel suo Logos eterno, c'è anche una diversità di uomini il cui invariabile compito, durante la loro furtiva presenza sulla terra, è sempre consistito nel prendere in prestito i percorsi dei miti per raggiungere le soluzioni degli enigmi che si sono posti perpetuamente dall'alba dei tempi.

Prima di accedere al Cielo, è necessario innanzitutto vivere, vale a dire correre il rischio della propria fragile condizione umana nella piena accettazione della propria finitudine. Ciò equivale, secondo una nota metafora, a fare i funamboli su un filo teso sopra un vulcano.

La copertina del libro di Gautier

Il ricorso allo spirito dei politeismi - potente sottotitolo evocativo dell'opera - non si presenta affatto sotto gli aspetti New Age delle numerose spiritualità che irrigano le società umane. Gli dei antichi che davano smalto al mondo mediterraneo non offrivano alcuna salvezza. Appena appena, ed era già molto, aiutavano gli uomini ad accordarsi con loro stessi e con la Città. Questi percepivano ineffabilmente che l'ordine del mondo passava invariabilmente attraverso questa armonia tra loro, la Città e queste divinità "senza calcoli".

I paganismi di allora non avevano alcuna pretesa all'universale e all'unico. La loro ambizione, più modesta, era di ricordare all'uomo, al cittadino, al patrizio, al soldato il proprio giusto posto. In quanto tale, l'unica uguaglianza concepibile era quella dell'uomo di fronte alla legge collettiva e non questa distruttiva passione isonomica dei nostri moderni che deificano, fino all'hybris, l'Uguaglianza in maiuscolo di tutti gli uomini tra loro.

Si potrebbe dire che il paganesimo si sia radicato, non nel senso attribuibile oggi al termine, ma perché, territorializzato, implicava necessariamente il senso dei limiti. Molto più che una spiritualità, il paganesimo era un'etica. La bella vita non dovrebbe tendere a conciliare gli opposti, ma a mantenere una uguale distanza da essi, in un giusto mezzzo che Aristotele ha impostato come virtù cardinale.

Perché l'uomo è immerso in uno sconosciuto tanto originale quanto teleologico ed escatologico, perché non si può sostituire agli dei e ai loro oracoli, perché deve innanzitutto appoggiarsi alle proprie esperienze e alle lezioni del passato, perché non può sfuggire alle sue furiose esplosioni dionisiache come alla sua propensione apollinea per il (falsamente) rassicurante, perché aspira tanto, come Ermes, ad allargare i limiti delle sue terre familiari quanto a limitare quelli della sua casa, perché è incostante quanto preoccupato per la stabilità, quest'uomo non può che essere Greco per eccellenza, vale a dire pagano. In un'altra parola che lo rende singolare nella sua pluralità, Europeo.

Bella lezione sull'autentica diversità degli uomini e degli dei, quella di sempre e non quest'ingiunzione fittizia e totalitaria dell'indifferenziazione meticcia voluta dalle arpie postmoderne.

(Aristide Leucate, Livre: "À propos des dieux. L’esprit des polythéismes", de Jean-François Gautier, Boulevard Voltaire)

Oggi a Gerusalemme

[Oggi] 30 luglio [è] in data ebraica il 9 di Av: per 26 ore, dal tramonto del sole di mercoledì fino alla comparsa delle prime tre stelle di giovedì, gli ebrei digiuneranno, non berranno né mangeranno nulla, non indosseranno calzature in cuoio, non avranno rapporti coniugali, siederanno in terra, applicando gran parte delle regole previste per Yom Kippur, il giorno del digiuno di espiazione.

Francesco Hayez, Distruzione del tempio di Gerusalemme

Secondo la tradizione il 9 di Av è avvenuta la distruzione dei due templi di Gerusalemme nel 586 a.e.v. ad opera dei Babilonesi e nel 70 per mano dei romani guidati da Tito. Altri eventi tragici sono ricordati in questa giornata: la caduta della città di Beitar, dopo una strenua lotta contro le truppe romane, episodio che, di fatto, sancì la fine della resistenza ebraica nel II secolo e infine la cacciata degli ebrei dalla Spagna. C’è poi un episodio biblico che viene ricordato: il divieto all’ingresso in terra d'Israele della generazione uscita dall’Egitto a causa della sfiducia nell’aiuto divino e nella bontà della terra promessa, una sfiducia dimostrata fidandosi delle spie inviate a esplorare la terra di Canaan e tornate terrorizzate “come insetti” di fronte ai “giganti” che la abitavano.

Il lutto è quindi per la perdita della patria, che è il luogo assegnato da Dio al popolo ebraico, e per il proprio culto. Il digiuno del 9 di Av non è dunque semplicemente una testimonianza del legame storico fra il popolo ebraico e Gerusalemme. Come molti altri aspetti dell’ebraismo, ad esempio la preghiera detta tre volte ogni giorno e dopo ogni pasto per la ricostruzione di Gerusalemme, l’invocazione alla fine della celebrazione pasquale, numerosi salmi, esso dice che senza Gerusalemme, e il suo completo e pacifico possesso, l’ebraismo è incompleto, carente, incapace di seguire la sua legge.

Nella giornata del 9 di Av passato e presente s’identificano totalmente. L’ebraismo di oggi e Israele non possono e non devono prescindere dalla tradizione a noi tramandata dalla Torà, dall’intera storia ebraica in tutta la sua plurimillenaria esistenza e dalla situazione mediorientale attuale. La perennità di questa tradizione, testimoniata anche dal legame di nuovi lutti successivamente attribuiti alla stessa data, parla alla coscienza ebraica di una continuità storica del proprio destino e, innanzitutto, dell’imprescindibile legame con Gerusalemme. L’ebraismo non distingue tra ricordo storico nazionale e ricorrenza religiosa, perché la divinità viene incontrata collettivamente dal popolo e nella storia, che si tratti di un dono di libertà che salva o della punizione terribile che Dio commina. Chi pensa di staccare il popolo ebraico dalla sua tradizione religiosa, dalla Torà, come purtroppo e troppo spesso avviene di questi tempi, ma anche chi cerca di staccare le tradizioni religiose dal destino del popolo, come avviene tristemente per alcune frange ultraortodosse di charedim, non solo mette a rischio la sopravvivenza di entrambi ma dimostra di non aver capito nulla neppure di quello che, fra questi due principi, dice di amare. Gerusalemme è una e indivisibile, con il suo tempio distrutto, con il suo ricordo, con la sua indiscussa volontà di ritornarvi, Gerusalemme ha unito e unisce il popolo ebraico di ogni generazione proprio perché nelle Bibbia è definita come “donata”.

Nicolas Poussin, Distruzione e sacco del tempio di Gerusalemme

Anche da un punto di vista totalmente laico, questa memoria ha un significato profondo. È come se ad Atene si celebrasse una giornata di lutto per le Termopili o a Roma per l’assedio di Roma di Porsenna: cose che si studiano a scuola o si vedono nei film, ma che non sono oggetto di memoria viva e di passione reale. Invece in queste ore entrando nei luoghi in cui l’ebraismo è vivo si comprende che il lutto è reale, condiviso, ancora bruciante. Ciò testimonia, naturalmente, dell’attaccamento del popolo ebraico alla Terra d’Israele e a Gerusalemme, un attaccamento personale, emotivo, conservato per millenni, che né le oppressioni romane, né quelle Babilonesi, né quelle musulmane e cristiane sono riuscite a eliminare. Gerusalemme ha un suo cuore pulsante straordinario, un’anima concreta, un’identità indistruttibile. Chiunque pensi al labirinto politico mediorientale deve tener conto di questo fatto. E l’odio di sé di alcuni, la faziosità e il disprezzo per il popolo che motivano le loro azioni, sono certamente una buona ragione per mantenere viva questa ricorrenza e cercare di ricordarla per riflettere sull’oggi.

(Claudia De Benedetti, Il significato del 9 di AvInformazione Corretta)

Una voce nella notte

Se ne sono andati, a pochi giorni di distanza, tutti. Si è tenuto oggi, al cimitero di Giubiano (Varese), l'ultimo saluto a Silvia, moglie di Gualtiero Gualtieri: malata da tempo, è tuttavia mancata poco dopo il coniuge e la figlia. Per questo vogliamo una volta di più, anche qui, ricordare la figura del noto conduttore radiofonico e scrittore.


Le ferite della vita, alla fine, hanno sconfitto anche la sua prolungata determinazione alla resistenza. Troppo grande il peso, il cuore non ce l’ha fatta a proseguire. Gualtiero Gualtieri, 74 anni, se n’è andato in silenzio, come molta parte della sua esistenza era rimasta avvolta – volutamente – nel silenzio. E dire che la parola è stata tutto nei suoi giorni, specialmente nelle lunghe stagioni e nelle innumerevoli notti condivise con migliaia e migliaia di ascoltatori alla Radio svizzera di lingua italiana a Besso.

Millevoci nella notte era il titolo della sua trasmissione: difficile trovare un programma dove il filo rosso si identificasse con il suo conduttore. Erano una cosa sola. E gli ascoltatori lo sapevano bene, lo percepivano: anch’essi si affezionavano a quella voce calda, che poteva parere monocorde a tratti, ma che era intensa, quasi vellutata. Gualtiero teneva compagnia al popolo della notte, dalle città ai paesi, oltre San Gottardo e oltre confine, in Italia, soprattutto a chi nella notte avverte spesso i morsi della solitudine.

Si coglieva in lui una malinconia velata, che teneva per sé e spartiva con pochi, perché – con la sua signorilità d’animo – non voleva gravare sugli altri né farsi compatire. Quella era la sua croce e quella portava sulle spalle, insieme con la moglie: la figlia Gea, 31 anni, era nata cieca e con molte altre sofferenze. Pativano insieme, sempre in silenzio, con premure, delicatezze, un amore senza misura. Il numero ristretto di amici che sapevano della sua condizione si stupivano di come sapesse reggere un carico così oneroso. La sua attività professionale, peraltro, non ne risentiva: anzi usciva avvalorata dalla salita – senza fine – sull’erto calle, passo dopo passo.

A questo cruccio, si è aggiunta un’ulteriore ferita: la grave malattia della moglie e Gualtiero si è ritrovato smarrito, ma si è fatto ulteriormente forza, moltiplicandosi e dividendosi per due. Trovava un po’ di sollievo nella scrittura, racconti di vita, ricordi di un passato sereno, speranze presto appassite per un destino sempre più impietoso. I suoi libri sono dei preziosi gioielli, intriganti e fini già dai titoli: Suonavamo l’allegria, Cantar di blu, Era come vestire l’acqua, L’uvamericana, con le Edizioni Ulivo di Alda Bernasconi, una donna-editore che ha saputo cogliere e valorizzare il non comune talento di Gualtiero, sottile osservatore, ironico (di frequente, con amarezza), arguto, sarcastico, sempre profondo.

Ho avuto una qualche complicità in quest’esperienza di Gualtiero come scrittore: lo convinsi a dare alla stampa – con il Giornale del Popolo – il Lunario imperfetto. Il riscontro ottenuto lo indusse a continuare ed è una fortuna poter rileggere la sua nitida, avvincente prosa.

Come non bastasse la gravosità complessiva del suo vivere, si è annunciata cupa e fosca la sofferenza anche per lui, che trascinava il traballante carretto dei giorni di famiglia. Non ce l’ha più fatta: Gualtiero ha deciso di partire portando con sé la sua Gea: inseparabili nella vita, uniti anche nello sciogliere le vele. Con l’angoscia che si può immaginare, domenica 19 luglio è partito dalla sua abitazione a Varese, dicendo di portare la figlia a un concerto di musica classica, di cui era appassionata. Ha fatto rotta su una casa di famiglia a Saltrio, sul confine; entrambi si sono sedati ed entrambi si sono congedati dal mondo sulle note di musica classica, seduti in auto, uno accanto all’altra, nel concerto d’addio. Lì i carabinieri li hanno trovati, allertati dai familiari per il mancato rientro.

Leggeri come piume, si sono involati liberi verso il cielo, che spesso Gualtiero vedeva stellato quando finiva le sue Millevoci, dopo mezzanotte a Besso.

Gli avevo scritto gli ultimi auguri per Natale, una lunga lettera per esprimergli vicinanza piena e per fargli coraggio, aggiungendo anche il rimpianto per non aver capito di più e meglio la missione che svolgeva, ha svolto e continuava a donare con la sua Parola.

Aveva risposto confessando la sua “immensa nostalgia dei tempi di Lugano, della radio, delle voci nella notte… Cose ormai lontanissime dal mio mondo di oggi. I gravi problemi che da molto tempo travagliano la mia famiglia, si son fatti negli ultimi tempi ancora più gravi. Io ormai passo le giornate a cercare di aiutare chi soffre più di me, chi è più malato di me, anche se io stesso sento che forze, energia e spirito di sopravvivenza se ne vanno un po’ per giorno. Gli anni non sono tantissimi. Ma hanno molto stancato. Resta il conforto dell’amicizia come la tua, che anche da lontano sa essere vicina e preziosa e rassicurante… Perché è la prova di non essere vissuto inutilmente”.

Per tutti quelli che hanno conosciuto e hanno voluto bene a Gualtiero Gualtieri, quello di oggi è un giorno che si chiude con uno squarcio al cuore! Addio Gualtiero, mancherai a molti!

(Giuseppe Zois, Addio a Gualtiero Gualtieri, la voce notturna che aiutava a superare le solitudini, L'Osservatore)

Hegel l'eretico

Il 27 agosto si ricordano i 250 anni dalla nascita del filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Per non farci trovare impreparati, rileggiamo questo acuto articolo-saggio di Massimo Borghesi.

Jakob Schlesinger, ritratto di Hegel, 1831

Due note appaiono caratterizzare il pensiero cattolico nel corso degli ultimi trent'anni. La prima, dominata dall'esigenza di superare il "ghetto" cattolico e una sorta di complesso di inferiorità dei cristiani nei confronti del moderno, conclude, rovesciando il giudizio neoscolastico di tipo ottocentesco, nella compiuta identificazione tra cristianesimo e modernità. Il moderno non costituirebbe un periodo di ostilità verso la fede quanto piuttosto un processo di purificazione della medesima dalle scorie derivanti da altre culture, da quella ellenica in particolare, presenti ancora nella cristianità antica e medievale. La storia del pensiero moderno diviene storia dell'attuazione compiuta dell'idea "cristiana" di Dio. La seconda nota, connessa alla prima, deriva dalla persuasione di vivere una stagione ecclesiale che non ha precedenti nella storia, una vera e propria "età dello Spirito" in cui tutti i precedenti modi e categorie di intendere e praticare la fede, legati a un'immagine troppo "sensibile" del divino, decadono a figure passate della storia cristiana. Ambedue queste caratteristiche costituiscono, di fatto, i punti qualificanti che Hegel offre del rapporto tra cristianesimo e modernità nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia. In tal modo, impercettibilmente, una parte rilevante della sensibilità ecclesiale e del pensiero teologico contemporaneo si è ritrovata nell'orbita di colui che Sören Kierkegaard considerava come il massimo responsabile dello svuotamento idealistico della fede cristiana nel corso dell'Ottocento. Per essa il periodo conciliare ha assunto, nell'immaginario teologico - come De Lubac aveva posto in luce nel suo La posterité spirituelle de Joachim de Flore -, i lineamenti di quell'epoca dello Spirito che, lungo la direttrice Hegel-Lessing-Gioacchino da Fiore, costituisce il pléroma del cristianesimo storico, il superamento del cristianesimo "storico", "carnale", della mera lettera, in direzione di un Evangelo spirituale, "eterno", cui viene meno ogni differenza tra divino ed umano, soprannaturale e naturale, cristianesimo e mondo. Ha assunto cioè i caratteri di quella "seconda Riforma" che Hegel presumeva di poter trarre dal processo di secolarizzazione della forma protestante. Sue conseguenze sono, da un lato, una concezione "interioristica" della fede che, rifiutando ogni responsabilità esterna, si risolve nella mera conferma religiosa dell'eticità dello Stato. Dall'altro, una concezione del divenire storico che, rifiutando ogni possibile contaminazione tra le forme particolari e l'interiorità spirituale, termina in un escatologismo per il quale il cristianesimo non può assumere realtà e manifestarsi come evento storico. Come già nell'Illuminismo tedesco si riattualizzano qui «le due principali correnti di pensiero antagonistiche del protocristianesimo, entrambe curiosamente richiamantesi al nome dell'apostolo Giovanni e condensantisi rispettivamente nell'Apocalisse e nel quarto Vangelo: la tendenza chiliastico-apocalittica (di cui appunto nel pensiero moderno si accoglie l'accentuazione del divenire e la tensione verso il futuro, ma non il postulato del "nuovo cielo" e della "nuova terra", né la prevalenza quasi esclusiva attribuita all'operare di Dio e del Cristo e del loro ministri angelici, né la valutazione prevalentemente negativa della storia profana e dell'impegno umano nella storia) e la tendenza mistico-interiorizzante» (G. Cunico, Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Genova 1992, p. 56).

L'incontro tra queste due linee - interiorismo gnostico ed escatologismo radicale - non costituisce di per sé una peculiarità del panorama odierno. Già nel 1931 Erich Przywara, di fronte alla situazione del cristianesimo tedesco protestante a lui contemporaneo, osservava come «il contrasto tra gnosticismo fanatico e un radicalismo escatologico è in modo eminente la situazione di oggi» (E. Przywara, Der Hegelianisrnus in Deutschland, in Rivista di Filosofia Neoscolastica, supplemento speciale al vol. XXIII, dicembre 1931, tr. it., Lo hegelianismo in Germania, p. 328). Secondo Przywara, sotto la duplice influenza del filosofi russi dell'emigrazione da un lato (Chestov, Bulgakoff, Berdiaev) e della teologia trinitaria di Karl Barth dall'altro, si era «formata una filosofia e religiosità "pneumatologica" che ha la sua punta particolare in ciò, che "la libertà del pensare e vivere nello Spirito Santo" è contrapposta all'"esteriorità legale" della Chiesa. Questo è quasi letteralmente lo stesso di ciò che dice Hegel contro il cattolicesimo nella Filosofia della storia» (Ivi). Questo risultato, come già nella scuola hegeliana, vede il sorgere di una dialettica tra una "destra" idealistica e una "sinistra" realistica. «Contro il cristianesimo dello "Pneuma" si solleva un cristianesimo della "realtà", il quale esige che la Chiesa si incanali pienamente nel ritmo dei movimenti sociali ed economici che via via si presentano, sicché la versatilità dell'accordarsi col movimento oscillatorio della vita del mondo vale infine come il regno della Grazia» (Op. cit., p.332). È quanto accadeva nella "religiosità della realtà" di Friedrich Gogarten o nel socialismo come religione di Paul Tillich. In tal modo, a giudizio di Przywara, «la situazione della Riforma è giunta oggi al culmine, in ciò, che nel contrasto tra gnosticismo pneumatico e realismo socialistico gli elementi fondamentali di ciò che è Riforma sono disgiunti tra di loro: misticismo sfrenato e rivoluzione sociale. Se già Lutero si trovò impotente di fronte a queste due forze, oggi la situazione è definitivamente disperata. Sètte o socialismo sono gli eredi delle chiese territoriali. In ciò l'ombra di Hegel sta misteriosamente grande dietro a tutti» (Op. cit., p.333). A questo processo disgregatore si opponeva, secondo Przywara, «solo il cattolicesimo se il cattolicesimo tedesco non si lascia abbagliare dal nuovo hegelianismo» (Ivi).

Ora rispetto alla situazione degli anni Trenta si può osservare come, al di là dell'auspicio di Przywara, il fascino di Hegel si sia imposto non solo nell'ambito protestante ma anche in quello cattolico. Lo spirito del tempo, a partire dall'ottimismo planetario degli anni Sessanta e dall'utopismo rivoluzionario del post-Sessantotto, ha senz'altro favorito, nell'identificazione della storia con il "divenire di Dio", l'assimilazione del quadro hegeliano. Il dualismo tra il cristianesimo dello "Pneuma" e il cristianesimo delle "realtà terrestri" identificate con il Regno di Dio ha così attraversato e segnato la storia del cattolicesimo negli ultimi decenni. Così come, in parallelo, il dualismo tra Spirito e istituzione, Chiesa "costantiniana" e Chiesa "carismatica", ecc. In questa contrapposizione, dominata dalla persuasione di vivere un'epoca nuova, senza precedenti, non solo la Chiesa "antica" appare come premessa della "nuova Chiesa" ma lo stesso Cristo diviene il "Messia dello Spirito". Come in Gioacchino da Fiore e, poi, nella sua versione secolarizzata in Hegel, il tempo neotestamentario viene a suddividersi in due ère: il tempo di Cristo e quello dello Spirito. Il primo legato alla figura sensibile e storica di Cristo, costituisce l'introduzione al secondo. Il cristianesimo in quanto fede storica diviene il vestibolo, la premessa del cristianesimo eterno, metafisico, il cui tempio è l'interiorità dello spirito. Dal punto di vista teologico questa riduzione è stata favorita tanto dalla "cristologia trascendentale" di derivazione kantiana (Joseph Maréchal, Karl Rahner), quanto, in sede esegetica, dall'uso irriflesso del metodo storico-critico lungo la traiettoria Reimarus-Hegel-Strauss-Bultmann. Per la prima posizione ciò che è determinante, nella fede, non è il Cristo storico, reale, bensì la sua idea che, eterna, e presente nel nostro animo al di là delle sue esemplificazioni storiche. Come già scriveva Kant: «Nella manifestazione fenomenica dell'uomo-Dio il vero e proprio oggetto della fede santificante non è ciò che di esso risulta ai nostri sensi o che può essere conosciuto mediante l'esperienza, bensì il modello ideale insito nella nostra ragione e che noi poniamo a base di tale manifestazione fenomenica» (I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., in I. Kant, Scritti morali, Torino 1970, p. 446). L'Idea Christi è eterna, non è legata a esemplificazioni storiche. «Come idea il Cristo deve essere cercato non fuori di noi, ma dentro di noi e la sua figura storica ne è l'illustrazione che deve servirci da esempio» (G. Riconda, Presentazione, in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Milano 1989, p. 20). Per Kant «anche se fosse possibile ed effettivamente si desse un "Cristo storico", la sua funzione non potrebbe quindi che essere ricondotta a occasione per risvegliare in noi quella sua figura ideale da sempre presente nella nostra ragione e a cui soltanto noi dobbiamo rifarci in modo decisivo» (G. Ferretti, Immanuel Kant. Dal Cristo "ideale" della perfetta moralità al ritorno del Cristo della fede ai "confini" della ragione, in S. Zucal (a cura di), La figura di Cristo nella filosofia contemporanea, Cinisello Balsamo 1993, p. 59). Coerentemente a questa prospettiva l'idealista Fichte potrà scrivere: «Soltanto ciò che è metafisico e non la dimensione storica rende beato; la seconda arreca soltanto erudizione. Se qualcuno si è realmente unito a Dio ed è entrato in lui, è del tutto indifferente per quale via vi sia giunto» (J. G. Fichte, L'iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina della religione, tr. it., in J. G. Fichte, La dottrina della religione, Napoli 1989, p. 320). In ciò seguito da Hegel, per il quale «alla fede non importa l'accadere sensibile ma ciò che accade eternamente» (G.W.F. Hegel, Propedeutica filosofica, tr. it., Firenze 1977, p. 242). Conclusione questa che, nel negare ogni rilevanza alla fattualità e ai segni sensibili mediante cui il cristianesimo diviene evento, occasione di incontro, trova il suo epilogo nella teoria del "cristianesimo anonimo" di Karl Rahner che sanziona, di fatto, l'irrilevanza della Chiesa ai fini della salvezza.

Per quanto riguarda il metodo storico-critico, anch'esso, nella misura in cui non è consapevole della sua genesi e delle sue premesse filosofiche maturate nel contesto dell'Aufklärung, rischia, paradossalmente, di dissolvere proprio quel "Cristo storico" che pure dovrebbe garantire. Nel postulato, acriticamente accolto, per cui il vero Cristo storico sta "al di là" del Cristo della fede, la fede, separata dal suo oggetto, diviene, idealisticamente, il luogo della produzione del suo contenuto: l'Uomo-Dio. In tal modo non la realtà del Cristo storico, nella sua vicenda di vita-morte-risurrezione e nei segni e miracoli che l'accompagnano, è condizione genetica della fede, della credenza in Lui, bensì, all'inverso, è per la fede che Gesù di Nazareth "appare" come il Dio dei cristiani. In questa inversione, per cui la fede invece di essere fondata sull'oggetto, sulla tradizione ecclesiale che dipende dai testimoni oculari, fonda essa stessa l'oggetto, il cristianesimo entra inevitabilmente nell'orbita hegeliana. È nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia che, seguendo Reimarus e Lessing, Hegel vuol mostrare il processo di idealizzazione dell'Uomo-Dio ad opera della Chiesa primitiva. Qui, come osserva Xavier Tilliette, «la divinità dell'uomo Gesù Cristo rischia di risultare da un husteron proteron; la comunità lo ha dichiarato Dio, e non Lui ha fondato, istruito e illuminato la Chiesa» (X. Tilliette, Sulla filosofia idealista, in Filosofia e teologia, 1989, p. 3). Il Gesù storico non coincide con il Cristo della fede. È solo la fede, la coscienza "religiosa" che a posteriori crea questa coincidenza. «Il Cristo» scrive Tilliette «considerato nella sua comunità, è oggetto di fede, e tale fede porta all'identità del Figlio di Dio con l'individuo storico Gesù di Nazareth. Noi non conosciamo più il Cristo secondo la carne: questa potrebbe essere l'insegna della cristologia hegeliana. In effetti la fede della comunità trasfigura, trasforma, quest'individuo singolare. La Chiesa decreta che egli è il Figlio di Dio» (X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, tr. it., Brescia 1989, p. 163). Lo può fare perché, nella concezione hegeliana, non la fede "esteriore" è determinante, la fede nel Cristo "storico", bensì la fede interiore la quale dipende dalla coscienza del "Dio" in noi, dell'Assoluto immanente al nostro spirito. Il Cristo Storico non è che l'occasione onde possa emergere nell'animo l'idea del divino, del Cristo ideale, eterno, da sempre presente in forma latente nella nostra mente. In questo senso «la fede esteriore deve dunque essere considerata solo come un mezzo per giungere alla vera fede; in quanto esteriore e sottomessa alla contingenza e lo spirito raggiunge la sua verità non secondo la contingenza, ma secondo la libera testimonianza» (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll., Bologna 1973, vol. I, p. 283). La fede interiore supera così la fede esteriore. «Questa prima conferma è un modo esteriore, accidentale, della fede. La fede vera e propria è spirituale, è nello spirito; essa ha per suo fondamento la verità dell'idea» (Op. cit., vol. II, pp. 388-389). Per Hegel, quindi, «la fede non riposa sull'autorità, su ciò che è stato visto, inteso, bensì sulla natura dello spirito eterno e sostanziale, la quale è giunta a coscienza» (Op. cit., p. 398).  Ciò implica, coerentemente, la negazione del valore ostensivo dei segni, dei miracoli, dacché «la fede riposa sulla testimonianza dello spirito non sui miracoli, bensì sulla verità assoluta, sull'idea eterna» (Op. cit., p. 388). I segni "esteriori" appartengono all'"età del Figlio", al cattolicesimo medievale. Essi perdono di importanza nel cristianesimo moderno, post-riformato, nell'età dello Spirito, dove ormai, al di là dell'unico mediatore, «ognuno ha da compiere in se stesso l'opera della riconciliazione» (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it., 4 voll., Firenze 1941-1967, vol. IV, p. 150). 

Nell'interpretazione idealistica del cristianesimo la realtà del contenuto cristiano, la sua presenza sensibile nell'ambito spazio-temporale, il suo essere un avvenimento che si manifesta eminentemente tramite il volto concreto della Chiesa, viene così negata e risolta nell'universale religioso. La conseguenza è che «la figura di Cristo interessa unicamente come figura, come struttura significante ultimamente intellegibile. Non il quis ma il quid di Cristo viene considerato in questa cristologia; il suo essere personale, storico, irrisolvibile, se non è negato, non è neanche decisivo» (P. Henrici, Panlogismo o pancristismo?, in (Autori vari) Il Cristo dei filosofi, Brescia 1976, p. 118). In questa obliterazione viene meno tanto il cristianesimo come evento quanto, corrispondentemente, la possibilità di "sperimentare" a partire dalle esigenze oggettive dell'umana natura, la verità di tale fatto.

Ciò che rimane è una sorta di sublimazione religiosa dell'io che risolve, gnosticamente e simbolicamente, il contenuto concreto della fede quale cifra della propria autoesperienza interna sia essa mistica o sentimentale. In questo vuoto, per cui viene meno l'elemento proprio del cattolicesimo - il suo manifestare la presenza sensibile e attuale del Mistero divino - prende corpo la dialettica tra cristianesimo "pneumatico", gnostico, e radicalismo escatologico. Se così è merita di essere evidenziata in tutta la sua rilevanza l'annotazione di Peter Henrici secondo cui, in Hegel e nel pensiero idealistico, «tale svuotamento dell'essere storico a favore di una mera struttura significante sembra più temibile - perché più congeniale al discorso filosofico - che non l'altra eresia, forse più propriamente teologica, che nega alla Persona di Gesù la natura divina» (Op. cit., p. 113).

(Massimo Borghesi, tratto dal mensile 30Giorni, n. 1, gennaio 1996, pp. 44-47, ma pubblicato pure in Autori Vari, Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, SEI, Roma 1997. Impaginazione nostra)

Il figlio dell'uomo delle tasse

Una leggenda considerata ancora più tarda, la cui fonte più antica dovrebbe essere la Massékhet Kallàh, ed è citata in vari testi medievali. Vi si racconta di Rabbì ‘Aqivà che incontra un uomo schiacciato da un carico di fascine, e gliene chiede il perché. L’uomo gli risponde che è la legna del rogo nel quale viene bruciato ogni giorno all’inferno, ad espiazione dei peccati commessi in vita; era preposto alla riscossione delle tasse, e rispettava solo i ricchi, mentre uccideva i poveri. ‘Aqivà gli chiede se conosce un modo per mettere fine alle sue sofferenze; l’uomo gli risponde che ha sentito che se avesse un figlio che in pubblico dicesse Jitgadàl, e ottenesse la risposta (Jehé shemé...) dalla comunità, sarebbe subito liberato. L’uomo ha lasciato in vita la moglie incinta, ma non sa cosa è poi successo. ‘Aqivà si reca quindi dalla vedova; per cercarla chiede notizie ai suoi concittadini, che maledicono il ricordo del morto e della sua famiglia e confessano di non avere neppure pensato a circonciderne il figlio. ‘Aqivà prende il bambino con sé, lo fa circoncidere e lo mette nella sua scuola. Ma il bambino è refrattario a qualsiasi insegnamento. ‘Aqivà allora digiuna per quaranta giorni, finché una voce lo informa che finalmente i suoi sforzi avranno successo. Il bambino inizia a studiare, impara a recitare il Qaddìsh, e si reca in Sinagoga a leggerlo; il pubblico gli risponde, e in quel momento cessano le sofferenze del padre morto.

George Chinnery, Uomo che porta fascine, ca 1799

Questa leggenda è molto importante per valutare il senso preciso del rito; c’è solo da aggiungere, per la comprensione completa dei dati, un altro principio rabbinico, non collegato con il Qaddìsh, per il quale la pietà del figlio ha influenza sulla sorte dei genitori defunti (già in Talmùd Babilonese, Sanhed. 104 a).

La sostanza del discorso è questa. La tradizione ebraica si preoccupa di creare e conservare nel tempo una società ordinata che segua un modello di comportamento ideale. Chi si discosta da questo modello turba un equilibrio sociale e culturale; ma la sua colpa è considerata tanto più grave quando si perpetua nel tempo e nella società; nel nostro caso particolare, se il cattivo esempio dei genitori si trasmette ai figli, e non c’è una limitazione nel tempo delle implicazioni negative delle azioni illecite, i reati commessi sono giudicati con la massima severità. Diverso è il caso, se i figli rifiutano l’esempio negativo ricevuto e con le loro azioni cercano di sanare e limitarne le conseguenze. D’altra parte, può succedere che la società che sente le conseguenze e i pericoli di un comportamento scorretto crei dei sistemi difensivi esagerati, ed emargini non solo il colpevole, ma anche il suo ambiente e la sua famiglia. Così quello che è in origine un meccanismo di legittima difesa sociale diventa un sistema perverso di conservazione del male, visto che non si concede più la possibilità, anche agli innocenti, di ricostruire una esistenza positiva.

La leggenda di Rabbì ‘Aqivà mostra l’opinione ebraica in merito e spiega il senso reale del concetto di ‘espiazione per i morti’ attribuito al Qaddìsh. ‘Aqivà non è qui il mago che vuole insegnare la formula magica al bambino, per liberare il padre; è il maestro che tenta di limitare nel tempo e nello spazio i danni di una vita perversa, e le reazioni ugualmente negative di una società che per difendersi irrazionalmente propaga il male. Il digiuno di ‘Aqivà rappresenta gli sforzi che ognuno, persino i maestri più preparati, devono fare, per superare le diffidenze e le prevenzioni. Il bambino che impara e recita il Qaddìsh diventa chiaramente il segno di una riparazione, di una ripresa di vita normale, di una ricomposizione dell’ordine ideale, rappresentato dal regno divino sulla terra. C’è un solo modo per la società di ‘espiare’ cose già avvenute, che evidentemente non possono ritornare come erano: impedire che si verifichino di nuovo. Anche in questo senso i morti continuano a vivere: vive il loro esempio, il prodotto delle loro azioni; ed è certo che richieda espiazione. A questa azione è chiamato in primo luogo, perché coinvolto biologicamente, il figlio del defunto; ma anche la comunità è coinvolta in questo disegno; è questo il significato della necessità di una recitazione pubblica del Qaddi’sh dell’orfano, e della risposta imposta al pubblico all’invito a benedire fatto dall’orfano. Sono tutti coinvolti nel processo di riparazione, e questo inizia nell’accettare nella comunità che prega il figlio del defunto, e continua nel rispondere alle sue parole.

Da tutto questo è ben chiaro che il senso della recitazione del Qaddìsh dell’orfano è profondamente religioso. La spiegazione proposta è la più semplice e ‘razionale’, ma ne sono possibili ulteriori approfondimenti, nell’ambito delle dottrine sulla prosecuzione della vita dopo la morte, su cui qui non ci si può dilungare. È ovvio che in questo contesto è estremamente facile scivolare verso l’automatismo dell’azione, il semplicismo dei meccanismi coinvolti, in una parola verso il magico: recita un Qaddìsh e salvi i genitori dall’inferno. È un rischio che si corre con ogni preghiera e che, nel caso particolare, svuota tutto il senso dell’azione. Dunque, il Qaddìsh va letto con particolare attenzione e comprensione dei suoi significati. Già nel dodicesimo secolo Rabbi Avrahaàm bar Chijà haNassi di Barcellona avvertiva che non aveva alcun senso sperare nell’automatica remissione dei peccati per virtù delle preghiere dei figli, e Avraham Horwitz (XVI secolo) sottolineava che era meglio comunque l’adempimento di un precetto particolare piuttosto che la recitazione del Qaddìsh fatta allo scopo di far uscire i genitori dall’inferno. Sono segni di una vigilanza costante della tradizione contro i rischi di una degenerazione, vista con molta diffidenza.

(Rav Riccardo Di SegniQaddìsh. Una preghiera antica accompagna il cammino dell'Ebreo nella storia, Archivio-Torah.it, pagg. 14-17)

Avanti e dopo che?

Nell'abc dellle abbreviazioni, in particolare a.C. e d.C., la scuola repubblicana universale è lieta di annunciare la nascita della sua ultima, B.P. La piccola B.P. inizia a rimpiazzare il vecchio e obsoleto a.C. Nell'ultima versione di un opuscolo di compiti per casa della prima elementare, nel capitolo che tratta gli inizi dell'umanità, non si menziona infatti più G.-C., ormai fuori moda, ma compare B.P., che sta per before present ("avanti il presente").


Già, a.C. e d.C. (o A.D., Anno Domini, l'anno di Nostro Signore) sono abbreviazioni che si riferiscono a un evento particolare che ha cambiato il corso dell'umanità: la nascita di Cristo. Entrambe utilizzate in tutto il mondo come punto di partenza per identificare un punto in alto e, presso di noi, la repubblica, sinonimo del punto finale, da quando la rivoluzione laica ha decapitato il suo luogotenente, l'alfa e l'omega non sono più in odore di santità. Sarebbero quindi una grave minaccia ai principi immacolati della laicità, del vivere insieme e del multiculturalismo, questa trinità repubblicana dalla quale si apprende la riuscita concreta a discrezione di fatti vari e altre incivilità che alimentano questo sentimento di insicurezza così favorevole al facile amalgama? Ma passiamo oltre a queste elucubrazioni nauseabonde...

B.P. al posto di G.-C.

Le lingue empie sosterranno che la nostra educazione multinazionale lo vedrebbe come un attentato al dolce vivere insieme scolastico. Niente paura, è soltanto una questione di veridicità storica, l'educazione diversificata ansiosa di migliorare il livello di istruzione al fine di ottenere un tasso del 100% di maturi nelle generazioni future. Ancora niente paura, perché la rieducazione nazionale è, con tutta evidenza, ugualmente puntigliosa sulle questioni della laicità anche per quanto riguarda, senza possibilità, i menu halal, o ancora veridicità storica quando certe materie non vengono più insegnate, o addirittura "adattate al contesto sociale" per non urtare le anime sensibili di alcune popolazioni che ci arricchiscono con la loro dolce diversità.

Questo lento e sicuro occultamento di qualsiasi riferimento relativo al cristianesimo fa parte di un'evidente politica di decristianizzazione dell'inconscio collettivo portata avanti da lunga data, per esempio (e ne tralascio anche di migliori) dai nostri servizi di propaganda catodica nel presentare i santi cattolici all'interno delle celebri effemeridi mentre, nello stesso tempo, ci inondano con le notti del Ramadan. La scuola repubblicana si sta trasformando in una macchina di inculturazione che conduce una campagna costante per oscurare la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri figli. "Ogni anno, sempre meno parole e il campo della coscienza sempre più limitato", ha detto George Orwell nel suo profetico e quanto attuale 1984.

Certo è lontano il calendario repubblicano adottato il giorno successivo alla proclamazione dell'abolizione della monarchia e alla nascita della repubblica, quando fu dichiarato il primo giorno della "era dei Francesi". Il rischio è che a questo ritmo, in un futuro non lontano, entro qualche generazione, un vuoto di civiltà dovrà necessariamente essere colmato, in una repubblica diversificata si rischia di non parlare altro che del calendario dell'Egira.

(Pierre Mylestin, Datation des événements historiques: avant Jésus-Christ ou avant le présent?, Boulevard Voltaire. Nostra traduzione)

Saggezza o idealismo?

I Sette Savi erano ventidue e precisamente: Talete, Pittaco, Biante, Solone, Cleobulo, Chilone, Periandro, Misone, Aristodemo, Epimenide, Leofanto, Pitagora, Anacarsi, Epicarmo, Acusilao, Orfeo, Pisistrato, Ferecide, Ermioneo, Laso, Panfilo e Anassagora.

La cosa non ci deve tanto meravigliare: i Savi riportati dai testi sacri sono così numerosi per colpa degli storici della filosofia che non riuscirono mai a mettersi d’accordo sui nomi, o, per meglio dire, lo furono solo per i primi quattro, e cioè per Talete, Pittaco, Biante e Solone (che per questo motivo dovrebbero essere considerati i titolari della nazionale dei filosofi) mentre per le altre tre «maglie» sceglievano da una «panchina» di ben diciotto riserve. Tra l’altro c’era sempre chi, nello scrivere questi elenchi, coglieva la palla al balzo e ci metteva dentro un amico, se non addirittura il personaggio politico più in vista del momento, come se io adesso, dovendo fare un elenco dei Sette Savi, c’infilassi in mezzo per adulazione l’onorevole Craxi.

Pittaco di Mitilene

Scherzi a parte, io un Saggio credo di averlo veramente conosciuto. Si chiamava Alfonso, anzi donn’Alfonso, ed era il gestore di una sala biliardo a Fuorigrotta. Innanzitutto era un uomo che possedeva il fisico del ruolo: l’età avanzata, la barba, i capelli bianchi e la silenziosità. Non parlava mai e quando lo faceva era di pochissime parole: freddo, conciso e inappellabile. Ogni qual volta i giocatori lo chiamavano per stabilire di chi fosse il punto, lui si avvicinava al biliardo, guardava le palle giocate come se le avesse già viste in quella stessa posizione altre volte, e diceva «bianco» o «rosso», così semplicemente senza aggiungere altro. Dici: ma tu come fai a dire che era un Saggio se non lo hai mai sentito parlare? Lo so, o per meglio dire lo sento. Donn’Alfonso aveva negli occhi una vita vissuta, una vita dove, credo, doveva essergli capitato di tutto. Sono sicuro che in caso di bisogno, se fossi andato da lui, avrei trovato conforto. Magari, come per le boccette, sarebbe rimasto in silenzio per qualche secondo, poi con una sola parola mi avrebbe illuminato.

Anche i Savi erano gente di poche parole: laconici, come si suol dire. «Sapendo taci» (Solone), «Odia il parlare svelto» (Biante), «Essere avido di ascoltare e non di parlare» (Cleobulo), «La tua lingua non corra davanti al pensiero» (Chilone) ci danno un’idea di come a quei tempi la saggezza andasse di pari passo con la parsimonia nel parlare. Per questa capacità di sintesi i Savi possono essere considerati gl’inventori dei proverbi. Alcune delle loro massime sono ancora in circolazione: il «Prendi moglie fra i tuoi pari» di Cleobulo corrisponde al nostro «moglie e buoi dei paesi tuoi» e il «Tratta con le persone convenienti» è l’equivalente del proverbio napoletano «Fattelle cu chi è cchiù meglio ’e te e fanne ’e spese».

Grazie alle massime, cioè ai proverbi, la fama dei Sette Savi corse di città in città al punto che, malgrado l’assenza dei mass-media, non c’era nessuno nel mondo greco che non conoscesse vita morte e miracoli di Talete e compagni. Le loro parole servivano ai padri per l’educazione dei figli ed erano largamente utilizzate dagli oratori sia in politica sia nei tribunali; le loro canzoni facevano il giro dei conviti e, al contrario di quelle di Sanremo, erano ricche di principi morali. In particolare, ne ricordo una di Chilone il cui ritornello diceva: «È sulla pietra che si prova l’oro, ma è sull’oro che si prova l’uomo» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I 71].

Di tutti e ventidue il più simpatico, a mio avviso, è Pittaco di Mitilene. Diogene Laerzio racconta che, oltre a essere un saggio, fu anche un abile stratega e che i suoi concittadini, allorquando andò in pensione, per ringraziarlo di tutto quello che aveva fatto per la patria, gli regalarono un vasto territorio, battezzato per l’occasione Pittacia. Ciò nonostante, Pittaco non volle diventare un latifondista e accettò solo quel tanto che considerava sufficiente a soddisfare i propri bisogni. Si giustificò dicendo che «il poco era più grande del tutto» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I 75].

Tra le massime più suggestive di Pittaco di Mitilene cito le seguenti [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I 76-78]: «Ciò che stai per fare non dirlo», «È difficile essere buoni», «Degna di fiducia è la terra, infido il mare» e soprattutto «Sopporta di essere danneggiato un poco dal tuo vicino». Quest’ultima frase può essere considerata l’undicesimo comandamento del popolo napoletano, se non altro perché ne esalta la principale virtù: la tolleranza. Solo grazie alla tolleranza, infatti, è possibile accettare il principio contrario, ovvero il «Disturba un poco il tuo vicino» che, nella fattispecie, non è tanto una massima quanto un serio inconveniente per chi è costretto a vivere dalle nostre parti.

Sui Sette Savi si racconta un aneddoto che è troppo istruttivo e divertente per aver voglia di andarne a controllare l’autenticità: sembra che un giorno i sette leader della sapienza, volendo fare una scampagnata, si siano dati appuntamento a Delfi, presso l’oracolo di Apollo, e che, una volta giunti sul posto, siano stati ricevuti con tutti gli onori dal più anziano dei sacerdoti. Costui, vedendo raccolto intorno a sé il meglio della saggezza greca, ne approfittò subito per chiedere a ciascuno di loro di scolpire una massima sulle mura del tempio. Il primo ad accettare l’invito fu Chilone di Sparta [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I 40-42] che, fattosi dare una scala, scrisse, proprio sul frontone d’ingresso, il famoso detto «Conosci te stesso» [secondo alcuni, la massima «conosci te stesso» sarebbe di Talete]. A uno a uno, tutti gli altri lo imitarono. Cleobulo e Periandro, il primo a destra, il secondo a sinistra del portale, scolpirono i loro celebri motti: «Ottima è la misura» e «La cosa più bella del mondo è la tranquillità». Solone, in segno di modestia, scelse un angolino semibuio del prostilo e scrisse «Impara a ubbidire e imparerai a comandare». Talete lasciò la sua testimonianza sulle mura esterne del tempio, in modo che tutti i pellegrini provenienti dalla Via Sacra, non appena svoltato l’angolo dell’altare dei Chioti, potessero avere di fronte la scritta «Ricordati degli amici!». Pittaco, eccentrico come sempre, s’inginocchiò ai piedi del tripode della Pizia e scolpì sul pavimento un incomprensibile «Restituisci il deposito». Buon ultimo rimase Biante da Priene, il quale, con gran meraviglia di tutti i presenti, cominciò a dire che, in verità, lui quel giorno non se la sentiva, che... insomma... non sapeva che scrivere. Tutti gli altri allora gli furono intorno e ciascuno cercò di suggerirgli una frase a effetto; sennonché, malgrado l’incitamento dei colleghi, Biante sembrava irremovibile. Più quelli dicevano: «Orsù Biante, figlio di Teutamo, tu che di tutti noi sei il più saggio, lascia ai futuri visitatori di questo tempio una traccia della tua luce!» e più lui si schermiva dicendo: «Amici miei, statemi a sentire: qua è meglio per tutti se non scrivo niente». Tira e molla, a un certo punto le insistenze furono tante che il povero saggio non poté più esimersi dallo scrivere qualcosa: fu allora che, con mano tremante, prese uno scalpellino e scrisse: «La maggioranza degli uomini è cattiva» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I 87].

A leggerla in fretta, sembrerebbe una frasettina da niente, eppure, signori miei, questa massima di Biante costituisce il verdetto più drammatico espresso dalla filosofia greca. «La maggioranza degli uomini è cattiva» è una bomba capace di distruggere qualsiasi ideologia. È come entrare in un supermercato e prendere da un’enorme piramide di barattoli di marmellata uno dei barattoli della base: casca tutto. Casca il principio della democrazia, il suffragio universale, il marxismo, il cristianesimo e ogni altra dottrina basata sull’amore verso il prossimo. Perde la partita Gian Giacomo Rousseau, assertore della teoria dell’uomo «buono per natura» e vince Tommaso Hobbes con il suo slogan homo homini lupus.

Io lo so che il nostro nobile cuore si rifiuta di accettare il pessimismo di Biante, anche se poi, sotto sotto, qualcosa ci dice che forse il vecchio pazzo aveva ragione. Chiunque sia finito in uno stadio, durante una partita di calcio, sa che cosa sia il vero volto della folla. Non a caso, nell’antica Roma, il gladiatore sconfitto sperava solo nella grazia dell’imperatore e mai in quella del pubblico, per il quale il «pollice verso» era un verdetto scontato: il cives romanus andava al Colosseo, insieme alla famiglia, col preciso scopo di vedere ammazzare quanta più gente possibile e questo, fatte le debite proporzioni, è vero anche oggi. Sul fatto che l’uomo sia l’animale più crudele del creato, non credo che esistano dubbi. L’unica speranza ce la porge Bergson quando dice che l’umanità, lentamente ma inesorabilmente, diventa sempre più buona. Accettiamo di buon grado l’auspicio e confidiamo tutti nel 3000.

Un’altra interpretazione della massima di Biante potrebbe essere questa: la maggioranza degli uomini è cattiva solo in quanto maggioranza. In altre parole gl’individui, presi singolarmente, sarebbero tutti delle brave persone, salvo poi a trasformarsi in belve feroci non appena diventano massa. Ora non so voi, miei cari lettori, ma io ho sempre avuto la tendenza a ficcarmi nelle minoranze, e pertanto mi chiedo: ho evitato le masse per non farmi corrompere dalla cattiveria collettiva, o, viceversa, per esercitare meglio la mia quota di malvagità anche nei confronti del popolo? È stato puro snobismo il mio? Paura di finire intruppato nel gregge? Razzismo antidemocratico di chi crede di appartenere a un gruppo di «pochi ma buoni»? Ho paura delle eventuali risposte.

Nel quinto secolo avanti Cristo un anonimo ateniese, probabilmente un fuoriuscito, scrisse un libello [l’opuscolo è stato rinvenuto tra le opere di Senofonte, amico dei Trenta Tiranni e quindi avversario della democrazia ateniese], oggi pubblicato dall’editore Sellerio, con il titolo La democrazia come violenza. Si tratta di un lungo colloquio tra due cittadini che commentano, senza peli sulla lingua, il nuovo regime democratico instauratosi ad Atene. Dice uno dei due: «... nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e d’ingiustizia, e il massimo d’inclinazione al bene; mentre nel popolo c’è il massimo d’ignoranza, di disordine e di cattiveria, in quanto la povertà li spinge all’ignominia, e così la mancanza di educazione e la rozzezza che in alcuni casi nasce dall’indigenza...» [Anonimo Ateniese, La democrazia come violenza].

Questo brano probabilmente costituisce la più antica critica del modello democratico ed è sintomatico constatare come il suo autore, pur essendo un reazionario della più bell’acqua, non se la prende tanto con il popolo che, dice, «cerca di giovare a se stesso», quanto con coloro che «pur non avendo origini popolari, scelgono di operare in una città governata dal popolo piuttosto che dai migliori, perché consapevoli di poter meglio mascherare la propria ribalderia in un ambiente democratico che non in uno oligarchico» [Anonimo Ateniese, op. cit.].

Ritornando ai Sette Savi, quello che ho capito è che bisogna essere un tantino sospettosi nei confronti della saggezza: questa infatti si trova spesso e volentieri in antitesi con l’idealismo. La saggezza altro non è che il buon senso, ovvero l’esatta conoscenza delle cose della vita, laddove l’idealismo rappresenta l’irresistibile voglia di credere in un futuro migliore. La saggezza parla degli uomini come veramente sono, l’idealismo invece preferisce immaginarli come vorrebbe che fossero. A voi la scelta tra questi due modi d’intendere la vita.

(Luciano De Crescenzo, Storia della filosofia greca, medioevale, moderna, cap. I, I Sette Savi)

Cose turche

Dunque oggi, dopo 86 anni, riapre al culto islamico Santa Sofia a Istanbul.

Veramente è un "grande sogno" di Erdogan che diventa realtà. Soprattutto è un ritorno - considerata anche la volgare, offensiva ricopertura dei preziosi artistici simboli cristiani presenti nell'antica basilica - a un'islamizzazione politico-culturale della Turchia che risponde picche e intende fare a pugni con chi, specialmente dal versante cattolico, cerca invece il dialogo, il confronto, la riconciliazione, lo scambio, l'intesa. Il Vaticano - con un Papa che è stato provocatoriamente invitato alla cerimonia di riconversione cultuale e magari, perché no, anche a scegliere la religione del Profeta - forse non l'ha capito in pieno, forse preferisce diplomaticamente soprassedere e tacere, forse teme, forse altro, chissà. Certo il «sono molto addolorato» di Francesco è apparso a molti, a troppi, reazione decisamente deboluccia, scarsa, perfino ingenua.

Questa islamizzazione politico-culturale della Turchia risponde picche e intende fare a pugni - l'hanno sottolineato, del resto, molti altri illustri ed esperti commentatori - anche con l'ambizione, la linea di demarcazione, il progetto di laicizzazione dello Stato, l'eredità di quella fondamentale figura storica che risponde al nome di Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938). Per il fondatore della Repubblica turca e della Turchia moderna, Kemal Atatürk, l’islam rappresentava la causa principale del crollo dell’Impero Ottomano e l’ostacolo principale all’introduzione di innovazioni politico-sociali, civilizzatrici e tecniche. D’altronde l’epoca delle Tanzimat, delle grandi riforme ottomane, aveva assistito all’opposizione da parte dell’elemento religioso conservatore alla modernizzazione. Anche in campo politico Atatürk individuò nell’islam, rappresentato dalle istituzioni del sultanato e del califfato, il motivo principale dell’arretratezza dell’impero rispetto all’Europa (ci permettiamo di riprendere con qualche aggiunta, in questa parte, un'efficace sintesi storica proposta nel 2014 da La Nuova Bussola Quotidiana).

"Abbiamo perso nostro padre". La prima pagina
del quotiano turco TAN dell'11 novembre 1938
con la notizia della morte di Mustafa Kemal Atatürk

Ebbene dopo la guerra di liberazione (1919-1922), Atatürk avviò una graduale quanto inesorabile laicizzazione della Turchia: il 29 ottobre 1923 con la proclamazione della repubblica fu abolito il sultanato; il 3 marzo 1924 la grande assemblea nazionale ad Ankara decise di abolire anche il califfato. L’ultimo sultano 'Abdulmajid venne espulso dal paese. Anche il sistema educativo fu gradualmente laicizzato: il primo atto fu la chiusura delle 479 scuole superiori di teologia islamica (madrase) poiché il sistema scolastico doveva essere “moderno, scientifico e nazionalista”; nell’autunno 1924, all’inizio dell’anno scolastico, l’insegnamento della religione nei ginnasi fu abolito; all’inizio dell’anno scolastico 1929 scomparve anche dalle scuole secondarie; nel 1930 dalle scuole pubbliche nei centri urbani; nel 1938 anche dalle scuole dei villaggi.

Contemporaneamente Atatürk si premurò di eliminare anche l’”islam popolare”: il sufismo, istituzionalizzato, soprattutto nell’ordine dei giannizzeri, nel corso di tutta la storia ottomana aveva svolto un ruolo significativo nella vita religiosa della popolazione. Poiché da questi ambienti era auspicabile un’opposizione alle misure di laicizzazione adottate, nel 1925 le confraternite furono messe al bando e i loro conventi sequestrati.

Nonostante l’art. 2 della Costituzione del 1924 affermasse che “La religione dello Stato turco è l’islam”, nel 1926 il codice civile basato sul diritto sciariatico fu sostituito da un codice ispirato a quello svizzero che vietava ogni forma di poligamia (mentre in campo criminale si guardò al codice penale italiano).

Nel 1928, il movimento kemalista si sentì sufficientemente sicuro da potere eliminare dalla costituzione l’islam quale religione di Stato. Ma solo nel 1937 fu introdotto il principio della laicità: “Lo Stato turco è repubblicano, nazionalista, popolare, statalista, laico e rivoluzionario”.

Nel frattempo erano stati eliminati anche i segni esteriori della islamicità: nel 1925 il calendario islamico lasciò il posto al calendario europeo; nel 1928 fu introdotto l’alfabeto latino modificato al posto di quello arabo, legato alla religione islamica; dal 1932 l’appello alla preghiera venne consentito solo in turco anziché in arabo; un altro adattamento alla cultura cristiano-occidentale fu l’introduzione nel 1935 della domenica come giorno di riposo; nello stesso anno fu vietato di indossare in pubblico simboli religiosi e ai turchi fu chiesto di cambiare il cognome secondo il modello europeo.

Vennero adottate norme anche sull'abbigliamento: proibiti veli e turbanti, a dettare legge (è proprio il caso di dirlo) fu la moda europea. Lo stesso Atatürk si adeguò sfoggiando abiti continentali. Anche le donne ottennero diritto di voto.

Il cambio di passo, di direzione e di indirizzo è, a un secolo di distanza, ormai più che evidente. Sarà bene che le autorità e le fonti della diplomazia ne prendano atto.

Tra inculturazione e incarnazione

Ci ha lasciati il grande filosofo Basile-Juléat Fouda. Un filosofo negro-africano e cristiano che era autorevole tra i suoi coetanei e che forse il grande pubblico scoprirà con il tempo... L'uomo dell'ermeneutica delle tradizioni orali africane e dell'Incarnazione ha raggiunto questa vita divina che aveva definito come un'auto-affezione che uno non può cogliere che ristabilendo al suo interno lo sguardo della nostra intelligenza.

Questa vita divina, aveva detto, la riceviamo dal Padre attraverso il Cristo, "Arci-Figlio" che ci rende uomini rendendoci figli di Dio. Invisibile agli occhi del mondo, questa Vita ne condiziona comunque la manifestazione poiché, senza di essa, nulla potrebbe mai apparire. Questa vita, Basile-Juléat Fouda l'ha talmente tanto proclamata che è difficile ammettere che si sia estinta. Basile-Juléat Fouda non è morto, è entrato nella vita che tutta la sua esistenza allieta e canta.

 

Che opera ci lascia? Una fatica allo stesso tempo varia e monolitica, ricca e solida. Un'intuizione maggiore declinata in tutte le modalità, come per dirla meglio indefinitamente e rivelare una fecondità mai esaurita. Il pensiero di Basile-Juléat Fouda possedeva dunque forza abbastanza per poter affrontare una moltitudine di temi e di generi senza perdere la sua unità: ha prodotto innanzitutto un approfondimento dell'ermeneutica delle tradizioni orali africane, in seguito la co-costruzione dell'etica all'interno della filosofia in Africa con "il pancalismo ontologico africano" che non è altro che il culto umano dell'essere esistente colto in tutta la sua bellezza.

Basile-Juléat Fouda, poiché è stato ordinato diacono a nome della diocesi di Yaoundé, è rimasto fedele a questa religione ed è stato un filosofo cristiano che ha partecipato all'inculturazione del cristianesimo in Camerun scrivendo numerosi inni. Il suo stile poteva essere preciso e tecnico ma anche lirico e romanzesco: ha scritto parecchi testi, ne abbiamo contati 817 che vanno dalla letteratura alla poesia, dal canto al racconto e ovviamente molte opere.

Il suo pensiero non si lascia dunque riassumere agevolmente. Diciamo almeno che la sua intuizione fondamentale conduce un'antropologia costruita in modo fenomenologico a pensare all'uomo come un'alternativa al razionalismo e al materialismo scientifico: l'uomo di Basile-Juléat Fouda non è né una macchina da ragionamento, né una meccanica biochimica; non è né un corpo né una specie di supercomputer. Ma nel mezzo, che fornisce senso all'uno come all'altro, appare a beneficio dell'attenzione fenomenologica il vivere umano autentico che, irriducibile a qualsiasi forma di processo meccanico o logico, sperimenta se stesso come vita (concetto principale sviluppato nel cogito esperienziale dell'anima) e come carne (concetto determinante nella filosofia teandrica dell'esistenza) in un'interiorità che ci è comunicata originariamente da Dio-Padre nel Figlio. Basile-Juléat Fouda in ciascuno dei suoi scritti plurali ha radicato l'Africa nel mondo, motivo per cui ha visto la filosofia africana come un ramo autonomo della filosofia plurale.

Vedere nel regno scientista che caratterizza la nostra epoca una negazione di questa interiorità, una meccanizzazione della vita umana, costituisce senza dubbio la critica più rilevante della nostra modernità. Ed era già il proposito di Basile-Juléat Fouda nel 1966 nel suo messaggio al Premier Festival des Arts Nègres di Dakar quando dice: Non sarebbe vano, in effetti, cercare di far sopravvivere valori etici fuori dal suolo su quale si verificano? Perché il mondo moderno non estende più nulla alla morale se non perché ha messo in esilio l'uomo dalla sua interiorità?

È sfortunatamente troppo tardi per scoprire l'uomo Basile-Juléat Fouda, l'autore della meraviglia, il compositore del kiri mbeng! Colui che vedeva tutti i giorni dalla sua finestra sorgere il sole dell'ottimismo e della gioia. Lui che si è addormentato mentre riprendeva Nti emen anë ma nnoani - il Signore è il mio pastore (Salmo 22) composto e musicato con l'amico, il compianto abate Sylvain Atangana. Quindi, sì, ci restano da ricavare dalla sua opera le intuizioni belle e feconde che potranno nutrire le generazioni di domani.

(Fonte: Camer.be. Nostra traduzione)

Foglie di fico

Preferite andare al lavoro su una carrozza trainata da cavalli o su una Ford Model T? Né uno né l'altro? Come, avete già visto un elicottero e non vi stupite che gli attori parlino nel film? Era questa la situazione esattamente cent'anni fa, nel 1920. Oggi, naturalmente, siamo ancora più avanti per molti aspetti. Dunque permettetemi un'ultima, forse stupida domanda: perché sopportate un ​​giornalismo da Anni Venti?

Una Ford Model T del 1920

Non è da ieri soltanto che dibattiamo di politicamente corretto e di politiche identitarie, questioni di libertà. Al centro c'è la privatizzazione dello spazio di dibattito da parte di alcuni a servizio di un'autoproclamata Morale superiore - ovverosia "la parte giusta". La catena di esempi è lunga e non ha fine: il manuale sulle inquadrature dell'emittente del servizio pubblico tedesco ARD, il Disastro-Relotius allo Spiegel, adesso le dimissioni dell'editorialista del New York Times Bari Weiss, che aveva anche la finalità di richiamare strati di lettori non liberal di sinistra, ma è stata vittima di bullismo e alla fine ha gettato la spugna esasperata.

Boia e traditore

Partigianeria e unilateralità: è questa l'accusa principale contro il giornalismo odierno di alcuni media mainstream. Ed è esattamente quello che Walter Lippmann, il giornalista più letto del XX secolo, vincitore del Premio Pulitzer e creatore di presidenti, scrisse sul libro di famiglia del giornalismo cent'anni fa nel volumetto Liberty and the News del 1920, che oggi si legge in modo così terribilmente attuale, tanto che ci si chiede frustrati come sia possibile che in sostanza sia cambiato così poco. La prima legge del giornalismo è per lui lapidaria: «Speak the truth and shame the devil». Oggi che ci si mette nel tè degli studenti di giornalismo?

Ci sono giornalisti che ritengono ancora di essere intellettualmente avanti chilometri rispetto ai loro lettori e che questi stanno solo aspettando di venire istruiti da loro. Con che diritto? Il giornalista dello Spiegel Philipp Oehmke ha perfino invocato la fine della neutralità nel giornalismo. Ma il Campionato della Virtù è come il gioco delle sedie. Più va avanti, più eliminati restano senza posto. Le regole del gioco potrebbero essere prese in prestito per analogia direttamente dal manuale della polizia segreta stalinista Ceka; chiunque può potenzialmente essere boia e traditore. Risultato: più si procede brutali, meno si è sospettati. Questo è il distruttivo sistema di incentivi di qualsiasi ideologia mentale. Alla fine, però, un tale sistema si cannibalizza da solo. Stiamo probabilmente sperimentando l'apice di questo processo, come mostra una lettera aperta di 150 intellettuali, tra gli altri JK Rowling, Malcolm Gladwell o Noam Chomsky.

Problema sistemico

Contro il cattivo giornalismo, soltanto quello buono aiuta, se non si vuole lasciare il campo ai demagoghi, alle ugole strillanti e ai pifferai magici. Ecco perché è adesso necessario un nuovo impegno specifico del settore al minimo standard. Poiché «giornalista» non è un termine protetto, la base comune può essere soltanto: una metodologia basata sui fatti e riconosciuta. Il giornalismo partigiano è una forma di corruzione, una truffa al lettore, un cattivo servizio alla propria professione e un peccato contro la verità.

E come dimostra il caso dell'editorialista del NYT Weiss, è un problema sistemico. La diversità e la divergenza di opinione sono un numero da pr, una foglia di fico. Se alla fine sono i mediocri, i fichi e i corretti a dare la tonalità, allora i giornali non servono più.

(Milosz Matuschek, Der brutale Kannibalismus der Gutmenschen – hysterische Political Correctness kann jeden treffen, NZZ. Nostra traduzione)

Il vangelo della libertà finanziaria

Interessante preambolo al "catechismo sul denaro" di padre Coughlin.

Padre Charles Coughlin (1891-1979)

Ne L’anticapitalismo di destra (Oaks editrice, 2019), Charles E. Coughlin occupa solo il paio di pagine finali di Luca Gallesi. Ma la sua collocazione in quella corrente culturale è di tale rilievo, che motiva la pubblicazione di questo volume. Che questo combattivo cristiano-cattolico si collochi a destra, è comprovato dalle accuse, che gli sono state rivolte, di essere un ammiratore di Hitler, di Mussolini, dei militaristi giapponesi, di avere addirittura rapporti col Ku Klux Klan e, peggio di tutto, di essere antisemita. In Il denaro! Domande e risposte non c’è assolutamente nulla di tutto questo (del resto Padre Coughlin ha sempre smentito di essere antisemita), mentre l’appello “Al popolo oppresso d’America” si colloca nella tradizione patriottica del populismo nordamericano. Il suo sostegno politico a Roosevelt sino al 1934, la sua ostilità successiva al New Deal, l’appoggio al governatore della Louisiana, Huey Long (assassinato nel 1935), la sua opposizione all’entrata in guerra degli Stati Uniti (temi sui quali si tornerà), si collocano nel quadro di quella tradizione. Su tale base, e con la efficace forma, quasi catechistica, di domande e risposte, vengono documentati i mali di un sistema creditizio che è diventato una colossale truffa, con la creazione dal nulla, da parte di banchieri privati, di denaro destinato non a finanziare l’economia produttiva, ma usato solo a fini speculativi.

Il libro esce in un 1936 ricco di eventi: in marzo Hitler ha rimilitarizzato la Renania e poi annuncia la prime leggi razziali; in maggio Mussolini fonda il nuovo impero di Roma, mentre il Giappone minaccia la Cina (che invaderà l’anno dopo); in agosto iniziano a Mosca i processi coi quali Stalin sterminerà la vecchia guardia leninista, lo stesso mese che vede a Berlino le Olimpiadi che sanzionano il rinnovato prestigio della Germania; Coughlin non si occupa di tutto questo. Nel “Commiato”, a nome dell’Unione Nazionale per la Giustizia Sociale, da lui fondata, esorta i suoi concittadini: “Dovete agire come gli apostoli che hanno scoperto la verità. Dovete diffondere il vangelo della libertà finanziaria anche a costo della vostra stessa vita. Guardate il piede dell’oppressore in Russia che calpesta la libertà! Visualizzate i milioni di persone irreggimentate in Germania e in Italia!” (pag. 177). Ci si deve abituare al suo linguaggio, quando chiama “internazionalisti” i banchieri apolidi internazionali oppure quando, spiegando la sua opposizione a Roosevelt dopo il 1934, lo paragona, infondatamente, a Lenin, e si pone la domanda: “Il cosiddetto New Deal, attraverso il Golden Bill del 1934 e il Banking Act del 1935, ci porta verso la giustizia sociale o verso il Leninismo?”, per rispondere: “Con la completa privatizzazione centralizzata della coniatura e la regolamentazione del denaro nelle mani dei banchieri internazionali, e creando debiti inutili per il mantenimento di questi banchieri, ci ha condotto verso il Leninismo”, al quale contrappone “la dottrina della democrazia, la dottrina dell’americanismo” (pag. 134); è questa una distinzione basata su quella fondamentale tra capitale onesto e capitale moderno: “Ci sono due tipi di capitalismo, vale a dire il capitalismo onesto e il capitalismo moderno. Il capitalismo onesto usa la proprietà allo scopo di produrre ricchezza per i suoi proprietari e per il benessere della società. Il capitalismo moderno non solo usa la proprietà di altri per produrre ricchezza, ma concentra la ricchezza nelle mani di pochi e permette prestiti fittizi di denaro a fini distruttivi” (pag. 111), tanto da giustificare la domanda: “Qual è oggi la principale attività criminale dei creatori di moneta privati?”, con la risposta: “Oggi la principale attività criminale dei creatori di moneta privati è l’alterazione della totalità della moneta in circolazione in modo da modificare i livelli dei prezzi e quindi manipolare il potere della moneta di ripagare i debiti” (pag. 167). A proposito dell’ipotizzato antisemitismo di Coughlin, va detto che in tutto questo libro i banchieri “internazionalisti” non vengono mai identificati come ebrei o con una prevalenza giudaica; i Rothschild sono citati solo due volte, per le loro opinioni di banchieri e senza giudizi su di loro; e, per capire quanto siano importanti in quanto banchieri, il lettore che voglia documentarsi può leggere di Egon Cesar Conti Il secolo dei Rothschild, l’Ottocento (ed. Iduna, 2019). La cruciale distinzione tra il capitalismo “onesto” e quello “moderno”, si può ridurre a quella tra capitale prima e dopo la finanziarizzazione e questo suggerisce un confronto tra Coughlin e Marx, che conferma l’utilità e l’attualità della pubblicazione di questo libro all’epoca del capitalismo globalizzato delle multinazionali, al quale ho dedicato le mie ultime pubblicazioni. Il giudizio del pensatore cristiano-cattolico è chiaro: “Karl Marx ha mai attaccato i privilegi della creazione di denaro privato e i banchieri internazionali? No, il suo intero sistema non propone l’abolizione del potere illecito di creare e distruggere il denaro privato, bensì il suo consolidamento sotto un sistema di completo dominio economico, politico e religioso sul mondo intero da parte di pochi internazionalisti” (pag. 105). Per esaminare il percorso intellettuale di Marx, va detto che egli poteva studiare solo il capitalismo produttivo (“onesto”, cioè prima della involuzione finanziaria), e che, poiché ne vedeva l’epicentro spostarsi negli Stati Uniti, stanco di attendere invano la rivoluzione socialista in Europa, pensò di spostarvi la sua Prima Internazionale. Ma fu dal suo “intero sistema” che derivò la prima analisi del processo di finanziarizzazione, Il capitale finanziario (terza edizione italiana, Feltrinelli, 1976), di Rudolf Hilferding (geniale come teorico, mediocre come ministro dell’economia di Weimar). Ma l’Internazionale fu sciolta e negli Stati Uniti il marxismo non attecchì, forse vi è più vivo oggi, a livello accademico, se non politico: si veda come esemplare Per un nuovo socialismo e una reale democrazia – Come essere anticapitalisti nel XXI secolo (ed. italiana Punto Rosso, 1918) di Elik Olin Wright, presidente dell’Associazione Sociologica Americana.

Ma se si svilupperà negli Stati Uniti un “anticapitalismo nel XXI secolo”, in grado di fronteggiare e condizionare le multinazionali (la maggior parte e le più forti forti delle quali vi risiedono, a partire da quelle creditizie e dell’informatica, strettamente intrecciate), sarà un anticapitalismo di destra, ispirato anche da Charles E. Coughlin, piuttosto, che di sinistra, alla Erik Olin Wright, di orientamento marxista. Tuttavia ritengo che l’anticapitalismo di destra, con “la dottrina della democrazia, la dottrina dell’americanismo”, non sarà abbastanza forte da fronteggiare e condizionare le circa quattrocento multinazionali che attualmente decidono i destini del pianeta. Da qui l’opportunità di prendere in considerazione, a livello planetario, l’opportunità di una ripresa dell’anticapitalismo di sinistra, di ispirazione marxista. Da questo possibile futuro, si può tornare all’ultimo Coughlin. Il riformismo moderato del New Deal aveva esaurito il rilancio dell’economia americana nel 1937. Il secondo mandato di Roosevelt si impernia quindi sul riarmo, sulla trasformazione degli Stati Uniti in quello che egli definiva “arsenale della democrazia”, nella preparazione alla guerra. Coughlin la prevede, forse spera in Long, protettore dei “bianchi poveri” del Sud post-schiavista; per impedire l’intervento, il padre è tra i fondatori, con Charles Lindbergh e il senatore Wheeler, dei comitati “America First” (slogan che sarebbe stato ripreso con successo, oltre mezzo secolo dopo, da Donald Trump, che da presidente, per la sua condiscendenza ai banchieri, avrebbe certamente deluso il nostro autore, come lo aveva deluso Roosevelt). Si assiste, nel 1941, al paradosso di un Paese che entra in guerra per difendere democrazia e libertà di parola nel mondo intero e, intanto, la mutila in casa propria, vietando a Coughlin di parlare alla radio, mentre lo ascoltavano milioni di persone, ottanta mila delle quali gli scrivevano ogni settimana. Altro paradosso: il sacerdote cattolico cercava di permeare l’anticapitalismo di destra di valori cristiani. Si chiedeva: “Queste fasi del processo di liquidazione delle Banche della Federal Reserve sono in armonia con la dottrina cristiana?” e rispondeva: “Sì, seguono l’esempio di Cristo che rovescia i banchi dei cambiavalute e li scaccia dal Tempio. La giustizia sociale cristiana esige che a questi cambiavalute venga restituito solo quello che hanno elargito” (pag. 153). Ma il nostro aveva avvertito sin dall’inizio: “Se, da un lato, tutti gli uomini hanno diritto a pari opportunità, dall’altro non tutti hanno il diritto allo stesso compenso e alla stessa ricchezza personale, poiché alcuni lavorano più duramente e in modo più intelligente di altri. Alcuni sono pigri e propensi a spendere senza misura” (pag. 29). Il fatto è che scrivendo Il denaro! Domande e risposte, il filosofo cristiano non ha tenuto conto del fatto che chi lavora più e meglio degli altri, spesso lo ritiene motivo sufficiente per spingersi ad “attività criminali” nei confronti di questi “altri”. E il Vaticano darà loro ragione, censurando nel 1939 il filosofo e costringendolo, come ricorda Gallesi, a “ritirarsi in una parrocchia isolata e a esercitarvi il suo sacerdozio sino alla morte”. Ma il libro “Dedicato al popolo oppresso d’America” gli sopravvive; e la sua odierna pubblicazione ne conferma l’utilità e l’attualità mentre quel riferimento al “popolo oppresso” richiama il populismo che tanto preoccupa, nel primo quarto del XXI secolo, i gestori di “attività criminali” che, per avidità, mettono a rischio la vita dell’umanità sulla Terra.

(Giorgio Galli, Padre Coughlin e l'anticapitalismo di destra, Prefazione a Il denaro! Domande e risposte di Padre Charles E. Coughlin)

Nei giorni del pensiero unico

Ieri, in prima serata, il canale televisivo Rai Storia ha riproposto il film "I dialoghi delle Carmelitane". La pellicola del 1960 con Alida Valli, Pierre Brasseur e Jeanne Moreau è tratta dal libro "L'ultima al patibolo" di Gertrud von Le Fort e dal seguente testo per il teatro "I dialoghi delle Carmelitane" di Georges Bernanos. La visione si è rivelata di una certa utilità per comprendere a quali derive può spingersi la dittatura del pensiero unico omologato, del politicamente corretto, del neo-dogmatismo laicista in tempi dove "i padroni del discorso" vogliono imporre cosa bisogna dire, addirittura cosa bisogna pensare, perfino cosa è lecito pregare. Per questo - per tenere la mente aperta, per riflettere, per comprendere quanto la storia corra a volte il rischio di drammatiche reiterazioni - sugli ultimi giorni delle Carmelitane di Compiègne vi proponiamo un esauriente articolo tratto dal sito 1P5.

Una scena del film "I dialoghi delle Carmelitane"

Il 13 febbraio 1790, la Francia, la figlia maggiore della Chiesa, proibì di emettere voti religiosi.

Poco più di due anni dopo, nel settembre del 1792, un convento carmelitano a circa 50 miglia a nord di Parigi fu espropriato. Le suore furono costrette a vivere separatamente e ad abbandonare l'abito.

Nel suo libro To Quell the Terror, William Bush ci dice che i rivoluzionari consideravano gli abiti "offensivi agli occhi repubblicani", un'eco dei riformatori Protestanti di circa 300 anni prima: "I riformatori si concentrarono soprattutto sulle vesti religiose, strappandole a brandelli o bruciandole, ordinando alle suore di adottare indumenti secolari" (Elizabeth Kuhns, The Habit: A History of the Clothing of Catholic Nuns).

Mentre le suore si disperdevano per la città continuarono a pregare comunitariamente, per quanto possibile. Due anni dopo vennero denunciate e il 22 giugno 1794 le 16 suore furono arrestate.

Il 12 luglio, le suore furono trasferite nella prigione della Conciergerie a Parigi. Il 16 luglio, festa della Madonna del Monte Carmelo, appresero che il giorno successivo avrebbero affrontato il processo. Poiché i martiri sono celebri per aver cantato sul patibolo, loro pure cantarono in cella. Oltre all'Ufficio Divino, intonarono una parodia della Marsigliese, scritta da una delle suore. William Bush fornisce una traduzione di parte della parodia:

Che i nostri cuori si diano alla gioia
È giunto il giorno della gloria!
Al bando tutta la nostra debolezza,
Possiamo vedere che la croce ora è vicina!
Prepariamoci per la vittoria!
Procediamo ciascuna come fa un conquistatore!
Sotto la croce, il grande stendardo di Dio,
Corriamo tutte, voliamo tutte verso la gloria!
Che il nostro ardore s'infiammi!
Doniamo i nostri corpi nel suo Nome!
Saliamo, saliamo sull'alto patibolo!
Daremo a Dio la vittoria!

Il loro processo si svolse la mattina del 17 luglio nel Palais di Giustizia e la sentenza fu emessa quel pomeriggio. La sottopriora, Madre San Luigi, barattò il suo manicotto di pelliccia con una tazza di cioccolata calda per ciascuna suora, per aiutarle a sopportare il duro viaggio che le aspettava e come una commovente considerazione sulla possibile fragilità umana nelle ore finali. Le suore furono caricate su un carro e trasportate per circa due miglia fino alla ghigliottina in Place du Trone-Renverse, o Piazza del Trono Rovesciato.

Le sante donne potrebbero non essere state completamente sole durante il tragitto. Bush riferisce: “Per tutto il Terrore, preti sotto mentite spoglie avrebbero scortato i prigionieri della Conciergerie o si sarebbero posizionati lungo il percorso... Dunque, anche all'apice del Grande Terrore a Parigi, un occhio attento avrebbe potuto scorgere da qualche parte, lungo la strada per Place du Trone, se non proprio sul patibolo, la mano leggermente sollevata del prete travestito da feroce sans-culotte, che benediceva e dava l'assoluzione”.

Tutti i documenti e i testimoni oculari sono unanimi sul fatto che le suore indossassero parti dei loro abiti all'esecuzione. Non portavano il velo, perché il collo doveva restare scoperto, ma avevano almeno tuniche marroni e un piccolo copricapo. Ci sono prove che la priora Madre Teresa di Sant'Agostino avesse approntato in anticipo tagli di capelli e copricapi per le sue figlie, per impedire alle donne di essere toccate fino all'ultimo momento assoluto.

La durata del viaggio potrebbe essere stata anche di un paio d'ore e testimoni oculari riferiscono di averle sentite cantare per tutto il tempo. Non abbiamo la certezza completa di tutto quello che hanno cantato, ma si ritiene comunemente che abbiano cantato l'Ufficio dei defunti, il Salmo 51 (Miserere), la Salve Regina, forse Vespri e Compieta.

Miserere mei, Deus:
secundum magnam misericordiam tuam.
Et secundum multitudinem miserationum tuarum,
dele iniquitatem meam...

Pietà di me, o Dio,
secondo la tua misericordia;.
nel tuo grande amore
cancella il mio peccato...
(Miserere)

La folla lungo la strada per la ghigliottina era notoriamente rumorosa, rauca e offensiva. Il canto delle suore fu accolto con silenzio: "Il silenzio generale che salutava la processione è stato attestato da tutti i testimoni" (Bush).

Intorno alle 20, il carro delle vittime raggiunse la ghigliottina. Il boia era Charles-Henri Sanson, di una famiglia con sei generazioni di carnefici. Nel 1793 Charles-Henri giustiziò re Luigi XIV, mentre il figlio di Charles-Henri giustiziò la regina Maria Antonietta.

Ai piedi del patibolo, di fronte alla folla accalcata, scoli di sangue sulle strade, odori intensi, ghigliottina, le suore cantarono il Te Deum:

Te Deum laudamus: te Dominum confitemur.
Te aeternum Patrem, omnis terra veneratur.

Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, tutta la terra ti adora.

Prima di salire sul patibolo, ogni suora rinnovò i suoi voti e ricevette un'ultima benedizione, mani nelle mani della sua priora:

Permesso di morire?
Vai, figlia mia!

Cantarono Veni, Creator Spiritus mentre ogni suora s'incamminava alla morte.

Veni Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia,
quae tu creasti, pectora.

Vieni, o Spirito creatore,
visita le nostre menti,
riempi della tua grazia
i cuori che hai creato

Suor Costanza, la più giovane e la prima a morire, secondo quanto riferito cantò il Salmo 117, Laudate Dominum omnes gentes salendo gli scalini.

Laudate Dominum, omnes gentes;
laudate eum, omnes populi.
Quoniam confirmata est super nos misericordia ejus,
et veritas Domini manet in aeternum.

Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte nazioni dategli gloria,
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno.

Madre Teresa di Sant'Agostino, dopo aver benedetto ogni suora e guardato ogni martirio, fu l'ultima a morire. Salendo da sola sul patibolo, la donna quarantunenne si unì pochi istanti dopo alla festa nuziale dell'Agnello.

Altre 24 vittime sarebbero state ghigliottinate quella notte. I 40 corpi furono spogliati, inventariati e ricoperti di calce viva nelle fosse comuni di Picpus (a sua volta un ex convento sequestrato dai rivoluzionari).

Dieci giorni dopo - una settimana secondo i calcoli degli atei rivoluzionari - sarebbe stato ghigliottinato Robespierre, segnando la fine del Regno del Terrore.

Le suore furono rese venerabili da Papa Leone XIII nel 1904 e beatificate da Papa Pio nel 1906.

Molte religiose furono giustiziate allo stesso modo durante la Rivoluzione, ma le Carmelitane sono collegate unicamente a un gruppo di monache Benedettine. A un certo punto, le Carmelitane furono incarcerate con le Benedettine, che erano fuggite dall'Inghilterra soltanto per ritrovarsi intrappolate nelle rivoluzioni di Francia. (Dopo il regno di Enrico VIII, Inghilterra e Francia fecero commercio di persecuzioni e martiri. Esiste un archivio sull'argomento delle suore inglesi in esilio, si chiama Who Were the Nuns?).

Alle Benedettine fu risparmiato il martirio e vennero rispedite in Inghilterra nel maggio 1795. Alla fine si stabilirono nell'Abbazia di Stanbrook e scrissero una cronaca del loro periodo con le Carmelitane: "Le nostre Madri di Cambrai sono state compagne di prigionia delle Martiri di Compiègne. Dalle finestre della loro prigione hanno rivolto loro un amorevole addio e sono state testimoni della loro gioia mentre andavano al martirio" (dagli Archivi carmelitani di Baltimora).

Le Benedettine dell'Abbazia di Stanbrook sono state l'ispirazione del romanzo di Rumer Godden, In this House of Brede. In quello che è un omaggio, intenzionale o meno, alle Carmelitane e alle molte religiose spogliate dei loro diritti nel corso della storia, Godden scrive:

"Non mi piace vedere queste", disse Frate John, toccando le grate
del parlatorio. "Attendo con impazienza il giorno nel quale le sbarre cadranno
e ci si potrà mescolare liberamente con gli ospiti - forse anche indossare abiti secolari come i loro".

"Proprio come abbiamo fatto un centinaio di anni fa", disse
la giovane consigliera, la dama Catherine Ismay.

Questo lo colse di sorpresa.

"Non lo sapevi?" domandò la dama Beatrice, dolcemente. "Quando siamo giunte
per la prima volta a Brede è in questo modo che abbiamo dovuto vivere.
Non potevamo indossare i nostri abiti e non ci è stata consentita la clausura fino al 1880.
Abbiamo dovuto combattere per ottenere le nostre grate".

[...]

"Abbiamo mandato avanti una scuola in quei giorni.
Ora, grazie a Dio, non è più necessario", disse la dama Agnes.

"Perché grazie a Dio?", lui era irritato.

"Perché ci ha allontanato dalla nostra giusta occupazione".

(Sharon Kabel, The Final Days of the Carmelites of Compiegne, OnePeterFive. Nostra traduzione)