"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

I barbari e noi

Estrapoliamo da Il Ribelle dalla A alla Z di Massimo Fini la voce Relativismo culturale.


La nozione di relativismo culturale, che viene spesso confusa con quella di relativismo morale, con la quale si apparenta ma non coincide, si fa risalire all’antropologia culturale e in particolare alla speculazione di Claude Lévi-Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, linguista, strutturalista, attivo dagli anni Quaranta fin quasi ai nostri giorni. Ma in realtà, oltre ad avere dei precursori, sia pur occasionali e non sistematici, in alcuni autori del XVI, XVII e XVIII secolo, da Montaigne a Voltaire, le sue fondamenta più direttamente filosofiche si trovano in Nietzsche quando il pensatore tedesco, agli albori di quella che viene chiamata «la cultura della crisi» (crisi del positivismo ottocentesco, del pensiero occidentale e delle sue certezze), avverte, poi seguito dall’empiriocriticismo di Mach e Avenarius, che non esiste la realtà ma solo le sue interpretazioni. Tesi confermata di recente anche da una scienza «esatta» come la fisica che ha dovuto ammettere che non ci sono certezze assolute né verità oggettive, ma che la conoscenza di ogni fenomeno dipende dal punto di vista dell’osservatore. Oswald Spengler, che forse troppo sbrigativamente Thomas Mann ha liquidato come «la scimmia astuta di Nietzsche», è stato il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico affermando che tutti i principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell’ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e professati.

L’apporto di Lévi-Strauss sta nell’aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti e strettamente collegati fra loro per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può estrapolare o cancellare dalle culture «altre» gli aspetti che non ci piacciono – che è la pretesa omologante che domina oggi in Occidente – senza modificare profondamente tutto il sistema e, quasi sempre, farne crollare l’intera impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intrusione occidentale nelle società del Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e «primitive», anche la più onestamente filantropica, per non parlare delle altre, ha portato sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e distrutto, di fatto, quelle società, quelle culture e quelle civiltà.

Ma Lévi-Strauss, e con lui tutta l’antropologia moderna, a partire dai fondamentali studi di Franz Boas, rifiuta anche quella forma dello storicismo che è l’evoluzionismo, secondo il quale le società, partendo dal semplice (o dall’apparentemente semplice) e andando verso il sempre più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c’è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi.

A parte il fatto che all’osservazione antropologica le civiltà cosiddette «primitive» dimostrano una straordinaria raffinatezza psicologica, una notevole complessità nell’organizzazione sociale (per esempio in tutto il complicato sistema dei rapporti di parentela e di scambio esogamico), ricchezza culturale (l’elaborazione dei miti, delle leggende e di cosmogonie che non hanno nulla da invidiare, anzi, a quelle di religioni ritenute più evolute) e, soprattutto, una capacità di comprensione intuitiva, immediata, diretta della realtà, scomparsa nel nostro mondo, la questione di fondo è tuttavia un’altra: è assurdo fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un’altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle cosiddette tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l’equilibrio e l’armonia a scapito dell’efficienza economica e tecnologica. Invece le «società calde», come le definisce Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono l’efficienza e lo sviluppo economico a danno però dell’equilibrio, dato che «producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali… i primitivi si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo».

Non esistono quindi «culture inferiori» e «culture superiori». Ci vuole una bella dose di egocentrismo e di ingenuità, scrive Lévi-Strauss, per credere che il proprio modo di vivere e di pensare sia il solo «umano» e che tutto ciò che ne sta al di fuori sia «barbarie». E aggiunge: «Il barbaro è innanzitutto l’uomo che crede nella barbarie».

La società occidentale non è barbara o più barbara di altre – a meno di non voler fare del razzismo al contrario e dell’evoluzionismo negativo – ma oggi è piena zeppa di «barbari», di uomini e donne che fan parte di quella vastissima e cupa compagnia cantante la superiorità della nostra cultura e del nostro modello di sviluppo, gente con la verità in tasca che crede seriamente e fermamente che il proprio punto di vista sia l’unico possibile, valido e accettabile e non è in grado di comprendere e nemmeno di concepire tutto ciò che è «altro da sé».

Eppure non dovrebbe essere poi così difficile da capire se, prima di Nietzsche, prima di Mach, prima di Avenarius, prima di Boas, prima di Lévi-Strauss e prima della fisica moderna, già Montaigne (1533-1592), all’epoca delle grandi esplorazioni transoceaniche e della scoperta dei «selvaggi», scriveva nei suoi Saggi, in un famoso capitolo intitolato ‘I cannibali’: «Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi nello stesso modo che chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo; laddove in verità sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici». E in ogni caso i filosofi e i pensatori europei, in quel tempo di scoperte e di conquiste, si posero perlomeno il problema di come rapportarsi alle culture «diverse» e «altre», estranee alla storia della civiltà mediterranea, in un dibattito intenso e appassionato che da Montaigne in poi è andato avanti per due secoli, fino a quando l’Illuminismo assolutizzando la Ragione ha assolutizzato anche se stesso e il nostro mondo facendone l’unico punto di riferimento, «il migliore dei mondi possibili».

Oggi, com’è noto, rimossa la «cultura della crisi», come si rimuove un incubo che si preferirebbe non aver mai sognato, dimenticato Lévi-Strauss (considerato un mezzo eretico dall’ortodossia marxista arrogantemente egemone per quasi tutta la seconda metà del Novecento), e ignorando persino le conclusioni della scienza, che pur è uno dei pilastri del nostro mondo, la cultura largamente dominante in Occidente (soprattutto fra le élite politiche e intellettuali che hanno diritto di parola e accesso ai mass media, molto meno fra le popolazioni dove aleggiano da tempo, sia pur sottotraccia e senza la possibilità di esprimersi pubblicamente, i dubbi più angosciosi) è quella del più ottuso e cieco evoluzionismo, espresso emblematicamente da Francis Fukuyama – e dagli innumerevoli Fukuyama – secondo cui esisterebbe una Storia universale dell’umanità valida per tutte le civiltà, per tutte le culture, per tutti i popoli del mondo che sarebbero inevitabilmente e inesorabilmente condotti dalla ferrea logica di un disegno finalistico, deciso non si sa bene da chi, immanente e insieme trascendente (una sorta di ircocervo, un animale mostruoso e inesistente), verso «la Terra Promessa della Democrazia», della «diffusione di una cultura generale del consumo», del «capitalismo su base tecnologica». Cioè verso il modo di vita, economico, sociale, istituzionale, etico, e gli schemi mentali dell’Occidente.

Per il «relativista culturale» non esistono invece né sistemi, né morali, né religioni, né principi universali. Naturalmente, poiché non siamo fatti di ghiaccio, ma di sangue, di carne, di sensazioni, di emozioni e non osserviamo la realtà con la freddezza dell’entomologo e della sua lente, ma viviamo in società concrete, anche il «relativista» ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente le sue, non una verità oggettiva valida anche per gli altri o addirittura per tutti.

Per quanto mi riguarda, se l’aspirazione dell’essere umano è di raggiungere non dico la felicità, parola proibita che gli americani hanno avuto l’imprudenza di includere nella loro Dichiarazione di Indipendenza, ma una certa serenità, mi pare più astuta, quantomeno dal punto di vista psicologico e della tenuta nervosa, una società che ricerca l’equilibrio in ciò che c’è già e dove ci si accontenta di quello che si ha, piuttosto di una come la nostra dove, come dico nel mio Cyrano, se vi pare…, tutto il meccanismo economico e produttivo e l’intero sistema spingono, con una coerenza ferrea e quasi omicida, «all’inseguimento inesausto di un futuro orgiastico, che pare sempre lì lì per essere colto, e che invece arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell’orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo», provocando così nell’individuo, nell’uomo concreto che questa società deve viverla, frustrazione, angoscia, anomia, nevrosi, depressione e, soprattutto, una formidabile perdita di senso.

Se non esiste una morale universale, né tantomeno la certezza di un Dio, ciò significa che il «relativista» è necessariamente un amorale o, peggio, un immorale come sembra pensare Papa Ratzinger, confondendo peraltro il relativismo culturale col relativismo morale? Per nulla. Il fatto che rispetti i valori di culture diverse dalla sua, anche quando gli paiono aberranti, e finché rimangono all’interno di quelle culture e non pretendono di prevaricarne altre, non vuol dire che non ne abbia dei propri. Possono essere quelli dominanti nella società cui appartiene oppure, se questi valori non lo convincono, non lo riguardano, non sono i suoi, li sente eterodiretti o ipocriti o fasulli, si apre allora per lui la strada tracciata da Nietzsche in Al di là del bene e del male: si creerà da sé la propria tavola di valori. Ma questa posizione lungi dall’essere un cinico disimpegno o un’autorizzazione a fare ciò che più ci pare e piace è, al contrario, una tremenda e prometeica assunzione di responsabilità. Perché costui – e non la famiglia, la società, i vicini, le cattive compagnie o «n’importe que» – è individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le conseguenze davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni. Senza scuse. Senza sconti, perché quello che ha assunto è un impegno con se stesso e verso se stesso. Questo tipo d’uomo è il Ribelle.

In tale ottica anche un criminale può essere un uomo morale, se rimane fedele ai codici che si è dato. Immorali sono invece quei bonshommes, quelle brave persone, quei puri gigli di campo che affettano pubblicamente di onorare i valori comuni alla loro società (magari considerandoli “universali”), cui sono soliti obbligare gli altri, scandalizzandosi e indignandosi se non lo fanno, e che poi li tradiscono quotidianamente sottobanco. Sono gli uomini dalla «doppia morale», una pubblica, buona per i gonzi che ci vogliono credere o per coloro che, senza essere gonzi, per un intimo sentimento di lealtà nei confronti dei propri concittadini, non intendevano violarla, e una tacita, nascosta, e del tutto contraria, valida solo per loro e i loro simili che, sentendosi straordinariamente intelligenti, han capito, o credono di aver capito, come vanno le cose del mondo.

Sono quel fior fiore della società che Sartre, nella Nausea, facendo visitare al suo protagonista, Antonio Roquentin, il museo di Bouville, dove sono raccolti i ritratti degli uomini più rispettabili e commendevoli della città, alla fine di un lungo e memorabile capitolo, definisce con una sola parola: «Sporcaccioni».

Di questi uomini sleali, di queste femmine della morale, è piena la nostra società complessa dove i comportamenti degli individui sono difficilmente controllabili e verificabili e altrettanto facilmente mistificabili e che ha quindi completamente perduto alcuni valori, relativi anch’essi, naturalmente, ma indispensabili per poter vivere insieme, che erano invece fondamentali non solo fra i popoli «primitivi» (per i quali l’onta massima è «perdere la faccia»), ma anche presso ogni comunità ristretta, di ridotte dimensioni, semplice, come il villaggio preindustriale e premoderno, dove ognuno conosceva tutti ed era da tutti conosciuto e barare al gioco della vita era impossibile o molto difficile. Questi valori si possono riassumere in uno solo. Si chiama dignità.

Quel che si è detto per gli individui vale anche per le società e i regimi. Tutti i sistemi di governo, oltre che relativi, sono illegittimi (sono solo, quando lo sono, legali, che è cosa diversa), perché poggiano su un punto di partenza necessariamente arbitrario, ma possono essere più o meno tollerabili a seconda che, come l’individuo singolo, rispettino le premesse e i postulati su cui si sostengono o dicono di farlo. Se, sottobanco, stravolgono o addirittura capovolgono queste premesse e questi postulati, allora siamo alla frode in grande stile. E questa è la storia della democrazia moderna, rappresentativa, della «democrazia reale» e, insomma, della democrazia che oggi governa in Occidente in attesa di imporsi definitivamente anche nel resto del vasto mondo.

Memoria, tradizione, religione, identità

Il 21 maggio 2013, lo storico francese Dominique Venner si tolse la vita con un colpo di pistola che rimbombò tra le navate della cattedrale parigina di Notre Dame.


Per il settimo anniversario della morte, il sito ufficiale ha ripubblicato il suo editoriale al numero 28 della Nouvelle Revue d'Histoire, uscito nel gennaio 2007. Quell'edizione della rivista era dedicata ai legami e ai conflitti tra politica e religione. Ecco, nella nostra traduzione, cosa Venner scrisse:

In questi giorni, l'ascesa dell'islamismo, l'affermazione dell'ideologia religiosa americana e le manifestazioni di molteplici risvegli di identità, danno a queste questioni un'attualità bruciante e talvolta minacciosa.

Le riflessioni sulla religione e la politica, la religione e l'identità dei popoli sono al centro del nostro dossier. Queste sono per me le questioni capitali dell'epoca nella quale siamo entrati.

Dalil Boubakeur, rettore della moschea di Parigi, presidente del Consiglio francese del Culto musulmano, contribuisce a far luce sul dibattito offrendo dell'islam una definizione autorizzata. L'islam, dice, è "al tempo stesso una religione, una comunità, una legge e una civiltà. [...] Non sono musulmani solamente coloro che praticano i cinque pilastri dell'islam, ma tutti coloro che appartengono a questo insieme identitario" (dichiarazioni. riportate da Le Figaro Magazine di sabato 29 giugno 2002). La parola importante è identità. Quindi l'islam non è soltanto una religione. È anche qualcosa di diverso da una religione: "una comunità, una legge, una civiltà".

Questa interpretazione va messa in rapporto con qualche altra. Così, in un libro recente, il filosofo André Comte-Sponville parla di amici suoi che si definiscono "Ebrei atei". L'espressione l'ha sconcertato. Uno non immagina un cristiano che si dica "cristiano ateo". Ne ha parlato con un ex compagno di prima superiore, una volta militante maoista: "Ma allora, adesso, credi in Dio?" (André Comte-Sponville, L'Esprit de l'athéisme, Albin Michel, 2006). Sorriso: "Sai, per un Ebreo, credere o no in Dio, non è davvero questa la questione importante ...".

Per Comte-Sponville, cresciuto nel cattolicesimo, è al contrario la questione centrale della religione. Il suo amico gli spiega che è abbastanza diverso per lui: "Dio non esiste, ma noi siamo il suo popolo eletto...". Per lui, essere ebreo, ecco significa l'attaccamento a una certa storia, a una certa tradizione, a una Legge, a un Libro, a una comunità. Un attaccamento che ha permesso al suo popolo di sopravvivere attraverso i secoli, senza Stato, senza terra, "senz'altro rifugio che la memoria e la fedeltà".

Quando si è immersi nella cultura cristiana, universalista, questo sorprende. Tuttavia, molte altre religioni, perfino l'islam, come abbiamo detto, e ovviamente l'ebraismo, ma anche l'induismo, lo shintoismo o il confucianesimo, non sono soltanto delle religioni nel senso cristiano o laico della parola, vale a dire una relazione personale con Dio, ma delle identità, delle leggi, delle comunità.

Questa idea che associa l'identità di un popolo e la sua tradizione perenne può aiutare gli Europei piuttosto scristianizzati di oggi, eredi di una cultura molto antica di laicità, sì, può aiutarli a ritrovare anche i loro forti legami identitari, al di là di una religione personale o della sua assenza. Quali legami? Innanzitutto quelli della loro tradizione precisamente, in grado di saldarli tra loro e di armarli moralmente per affrontare la minaccia abbastanza chiaramente tracciata della loro scomparsa nel nulla della grande miscelazione universale o della globalizzazione. Gli uomini esistono solo per ciò che li distingue, clan, discendenza, cultura, tradizione.

La tradizione europea, le cui origini sono anteriori al cristianesimo, come riconosciuto da papa Benedetto XVI a Ratisbona (il 12 settembre 2006), può meglio conciliarsi con le convinzioni religiose - o la loro assenza - come queste sono diventate in Europa una questione puramente privata. Che si sia cristiani, liberi pensatori o chissà che, l'importante per resistere e rinascere è senza dubbio issarsi al di là della contingenza politica o confessionale per ritrovare il permanente della tradizione (riflessione sviluppata, tra le altre, in Histoire et tradition des Européens, Le Rocher, 2002-2004; edizione italana: Dominique Venner, Storia e tradizione degli Europei: 30.000 anni d'identità, L'Arco e la Corte, 2019). Una tradizione tutta intera formulata nei nostri poemi fondativi da una trentina di secoli, ma che è stata mascherata con una memoria infranta.

Il trattamento Orwell

Domanda: le reti sociali penalizzano i conservatori? Risposta: sì. E c'è poco da ridere. Non è che gli algoritmi siano di sinistra, o che quel cattivone di Trump le spari sempre grosse. Dietro a meccanismi che pensiamo liberi e automatici, opera in realtà una cricca di selvaggetti progressisti, licenziati da università sinistrorse, che in pratica decidono cosa va in primo piano e cosa dobbiamo leggere.


Lo ha rivelato Gizmodo quattro anni fa: i dipendenti di Facebook sopprimono sistematicamente le notizie interessanti per un pubblico conservatore dalla molto influente, potentissima sezione delle notizie "trending".

I news curators di Facebook, così li chiamano, hanno anche dichiarato di essere stati incaricati di "iniettare" artificialmente determinate storie tra le notizie di tendenza, anche se non erano abbastanza popolari da giustificare l'inclusione, o in alcuni casi non erano affatto di tendenza. I curatori, tutti collaboratori, hanno anche affermato di essere stati indottrinati a non includere affatto certe notizie tra quelle  di tendenza.

"In altre parole, la sezione notizie di Facebook funziona come una sala stampa tradizionale, riflettendo i pregiudizi dei suoi lavoratori e gli imperativi istituzionali dell'azienda. Imporre valori editoriali umani alle liste di argomenti che un algoritmo sputa non è affatto una brutta cosa, ma è in netto contrasto con le affermazioni della società che il modulo di tendenza elenca semplicemente 'argomenti che sono diventati recentemente popolari su Facebook'".

La squadra che lavora a queste informazioni, del resto, è "un piccolo gruppo di giovani giornalisti, principalmente istruiti presso la Ivy League o università private della Costa orientale". Scrivono titoli e riassunti di ogni argomento e includono collegamenti a siti di notizie. Le notizie riflettono l'umore e i pensieri del redattore che in quel momento si trova di turno dietro allo schermo. E poi, guarda caso, se alcune storie compaiono su siti conservatori come Breitbart, Washington Examiner e Newsmax vengono regolarmente escluse, a meno che non compaiano su siti tradizionali come il New York Times, la Bbc, la Cnn.

Già un anno fa si notava come Donald Trump denunciasse "la censura ai danni dei conservatori americani sui social media", dicendosi sorpreso di vedere Twitter vietata al conservatore James Woods e Facebook al giornalista Paul Watson. "In effetti, ciò che sostiene il presidente non è lontano dalla verità: se sono numerosi gli account oscurati su Facebook e Twitter appartenenti a politici e opinionisti di orientamento conservatore, non si può certo dire lo stesso dei progressisti immuni alla censura e che forse avrebbero meritato il medesimo trattamento. Account che incitavano alla violenza contro il Presidente degli Stati Uniti - per esempio - e che l'hanno passata liscia. Mistero".

Ne è prova il fatto che a maggio 2019 Twitter "ha sospeso una serie di profili pro-Trump, incluso l'account 'Magaphobia', che è stato creato dal commentatore conservatore Jack Posobiec per 'tenere traccia della violenza contro i sostenitori di Trump'. La piattaforma ha sospeso inoltre il profilo @AOCPress creato da alcuni conservatori per prendere in giro - in maniera satirica e innocua - la deputata Alexandria Ocasio-Cortez: la pagina si presentava legittimamente come 'satira' ma è stata ugualmente chiusa. L'uomo che gestiva il profilo satirico è il conservatore ebreo Mike Morrison, a cui è stato 'sospeso' anche il profilo personale".

Riferiva Politico nel novembre 2018 che "Jesse Kelly, conduttrice conservatrice di una radio di Houston e candidata politica, è stata sospesa. In solidarietà, il professore di giurisprudenza e giornalista di Usa Today Glenn 'Instapundit' Reynolds, un pioniere dei blog, ha disattivato il suo account (quasi 100mila follower) in segno di protesta. 'Twitter è impazzito bannando le persone di destra, quindi ho disattivato il mio account Twitter', ha scritto Reynolds nel suo blog Instapundit. 'Perché dovrei fornire contenuti gratuiti a persone che non mi piacciono, che mi odiano?' sottolinea. 'Attualmente sto lavorando a un libro sui social media, e continuo a ribadire che Twitter è di gran lunga il più socialmente distruttivo delle varie piattaforme. Così ho deciso di sospendermi, poiché loro stanno sospendendo gli altri'".

"La censura ideologica ha fatto un altro passo avanti verso l'abisso" commentava alcuni mesi fa Marcello Veneziani. "Non bastavano la manipolazione e la falsificazione mediatica in grande stile di tg e giornali, l'omertà e il silenzio su fatti del passato e del presente, le leggi liberticide approvate o in via d'approvazione nel parlamento, l'identificazione tra opinioni e reati, la via giudiziaria al conformismo. Ora, ci si mette anche Facebook e il meraviglioso mondo dei social. Lo chef Rubio, l'ex terrorista Etro, il giornalista Rai Sanfilippo fomentano l'odio contro Salvini e Meloni ma Facebook e Istagram fanno una retata e chiudono solo le pagine d'estrema destra ritenendo solo quelle e in generale fomentatrici d'odio. Sentivo parlare di censure, dopo il piccolo episodio capitato nella mia pagina e dopo la censura ideologica alle pagine e ai profili di Casa Pound e Fronte Nazionale, e non relativamente a uno specifico episodio ma in generale, il discorso prende una piega preoccupante".

Ancora: "La censura si nasconde dietro l'impermeabile degli algoritmi, ma colpisce opinioni, idee, dissenso. È una piega bruttissima, potremmo chiamarla la boldrinizzazione dell'informazione, la confusione di social con soviet, la dittatura del politically correct. È davvero pericoloso che la censura si accanisca indistintamente su chi offende, insulta, falsifica la realtà e chi esprime idee e opinioni difformi dal conformismo imperante. È un precedente pericoloso, anzi un ennesimo segnale di quella riduzione di libertà che prende spunto dalle fake news e da piccoli gruppi radicali o nostalgici per fare carne da porco di tutto ciò che risulta sgradito e difforme al Potere. Non abituiamoci, e tantomeno rassegniamoci, a questo andazzo, alzando le spalle e dicendo: fatti tuoi. A uno a uno, come sempre succede nei sistemi di Polizia Culturale (vera traduzione del politically correct), si procederà per mutilazioni, intimidazioni, eliminazioni successive. Fino a che si proverà, orwellianamente, a espiantare ogni seme di dissenso e di pensiero critico. Sui social sta cominciando il trattamento Orwell, magari ottenuto dal potere anche tramite minacce fiscali: attenti, cari social, allineatevi al catechismo dell'establishment, altrimenti poi veniamo a vedere se pagate le tasse o variamo leggi restrittive della vostra sfera".

Ecco, "se nessun presidente, nessun leader esprimerà sconcerto e solidarietà per questo attacco alla libertà, potrà essere considerato secondo i gradi di coinvolgimento complice, mandante o ispiratore di quest'aria fetente di censura che si respira in giro e che alimenta, anzi caldeggia, reazioni estreme delle menti più deboli per poter così allargare la criminalizzazione a tutti i pensieri difformi. E non distinguere tra fake news e idee difformi, tra opinioni e insulti, grida scomposte e simboli 'proibiti' con argomentazioni e polemiche civili. Vietato pensare; chi pensa avvelena anche te, digli di smettere".

Una questione di ossigeno

La legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong, approvata ieri all'Assemblea nazionale del popolo a Pechino, sta generando effetti molto differenti.

A Hong Kong dove per anni si è lottato per allontanarla, e fino all'ultimo si è temuto per la sua imposizione dittatoriale, la gente è invasa dalla tristezza. Un parlamentare democratico ha detto che d'ora in poi a Hong Kong "mancherà l'aria", dato che la Cina sta cercando di "soffocare" la libertà della popolazione del territorio.

Invece a Pechino e in altre parti della Cina si festeggia. Soprattutto sui social c'è un'aria di vittoria per la sottomissione di quei giovani che da quasi un anno, in nome della democrazia ("un valore per nulla cinese"), disturbano l'ordine pubblico con i loro vandalismi e "azioni di terrore". Secondo la versione ufficiale, infatti, non esistono le manifestazioni pacifiche di milioni di persone che esigono risposte dal governo. Nei media statali si vedono solo quelle poche decine di manifestanti radicali che lanciano sassi, gettano molotov, scardinano porte e cartelli: essi sono proprio i "terroristi" che la nuova legge ridurrà al silenzio.

Il presidente cinese Xi Jinping
in un'illustrazione del Neue Zürcher Zeitung

L’entusiasmo espresso dai cinesi del continente è lo stesso dei tempi dell'handover, il 1997, quando si è celebrato il ritorno di Hong Kong alla madrepatria. Allora il motivo era chiaro: finalmente si lavava l'onta dei Trattati ineguali, che la Cina era stata costretta a firmare sotto la pressione delle cannoniere occidentali. Ma questa volta la legge è anzitutto contro la stessa popolazione di Hong Kong, altri cinesi a cui è toccato in sorte di vivere in una società liberale.

Anzi no: l'altro pilastro dell'informazione su Hong Kong è che tutte le manifestazioni, anche quelle con due milioni di persone, sono organizzate dalla "mano nera" degli Stati Uniti. E quindi la legge che blocca le libertà alla gente di Hong Kong è vista come una vittoria sulla "potenza occidentale" statunitense, nemica della Cina. Con enfasi super-nazionalistica, a poche ore dal voto per la legge, il magazine del "Quotidiano del popolo", il "Global Times", ha dichiarato: "Non ha importanza quanto gli Usa cerchino di far pressione sulla Cina giocando la carta di Hong Kong; Washington sarebbe troppo ingenua se pensasse di poter smuovere la decisa volontà collettiva del governo cinese".

E in un editoriale di ieri mattina, lo stesso giornale ha elencato tutta la potenza militare di Pechino (missili intercontinentali, bomba nucleare, satelliti artificiali, …) come sfida orgogliosa all'altra super-potenza.

C'è un problema: che né l'entusiasmo nazionalista, né l'accusa alle "potenze straniere" rende ragione alla questione Hong Kong, che è un problema che dovrebbe coinvolgere anzitutto la popolazione del territorio. Già i britannici non hanno mai ascoltato – o ascoltato molto poco – i loro desideri. Ora Pechino è sulla scia di quella potenza coloniale, facendo e disfacendo come vuole il tessuto sociale di Hong Kong. Certo, dal punto di vista economico si può elencare l'aiuto della Gran Bretagna, l'aiuto dell'occidente, l'aiuto della Cina, ma la vita di Hong Kong è frutto della solerzia, inventiva, tenacia, fantasia della gente di Hong Kong. E non ascoltarla rischia non solo di mortificare la sua creatività, ma anche di ucciderla.

E infatti, l'altro problema che si pone ora è questo: sotto il pieno dominio di Pechino, attraversata da spie, controllata da esercito e polizia, potrà Hong Kong vivere e rimanere fruttuosa dal punto di vista economico? 

Sebbene non con la forza di un tempo, Hong Kong rimane ancora un punto di riferimento della finanza e del commercio con la Cina. Almeno il 60% degli investimenti esteri nel continente passa dal territorio ad amministrazione speciale. Che succederà se Hong Kong diviene come una qualunque città della Cina popolare? A giudicare dal discorso che il premier Li Keqiang ha fatto ier annunciando la nuova legge, sembra che anche lui sia preoccupato di questo. E infatti egli ha continuato a sottolineare che con la nuova legge per il business non cambia nulla, ma anzi ci sarà "stabilità e prosperità" come non mai; che "l'alto grado di autonomia" sarà mantenuto e che è ancora valido il principio "un Paese, due sistemi".

Ci può essere libertà economica senza libertà civili? Molti, guardando alla Cina dicono di sì: il "modello cinese", con controllo sociale e economia centralizzata, ha prodotto la ricchezza attuale della Cina. Ma è anche vero che nella società cinese si preme perché alla (poca) libertà economica corrisponda una altrettanto spaziosa libertà civile. Le richieste di riforme del Partito e di riforme politiche nella società si moltiplicano, anche se Xi Jinping ha fatto di tutto per soffocarle. E forse è per questo che si vuole far "mancare l'aria" ad Hong Kong: perché il suo respiro non dia coraggio anche alla società civile del continente.

Il punto è che nel mondo ci sono molti Paesi e trust economici che hanno davanti agli occhi la crisi del capitalismo liberalista, e per questo sognano un modello autoritario come quello della Cina per salvare il loro potere e il business. Ma essi rimandano solo a domani la domanda cruciale: è possibile una libertà economica senza libertà civili? Senza dignità per l'uomo e la famiglia? Senza libertà di creare, di parlare, di inventare e anche di pregare? Noi crediamo di no.

(Bernardo Cervellera, AsiaNews)

Pensiero senza ringhiera

Il manifesto della mostra Hannah Arendt and the 20th Century posticipata a causa delle chiusure per il Coronavirus ma aperta dall'11 maggio - è un primo piano in bianco e nero della filosofa tedesca, mento sulla mano, viso leggermente inclinato verso l'alto, un'espressione pensierosa sul volto e una sigaretta accesa in mano. La sua stimolante didascalia recita: "Nessuno ha il diritto di obbedire".

Hannah Arendt nel 1966
© Art Resource, New York,
Hannah Arendt Bluecher Literary Trust

La mostra esamina in 16 sezioni la prospettiva soggettiva della pensatrice su eventi storici - con foto, documenti sonori e cinematografici, oggetti dell'abitazione privata della Arendt e prestiti internazionali. L'obiettivo è presentare eventi chiave nella storia del 20° secolo in un modo nuovo.

L'elenco delle controversie che l'intellettuale filosofa ha innescato è lungo, e il suo libro del 1963 Eichmann a Gerusalemme - uno dei soggetti principali della mostra - sta certamente in cima alla lista.

Nel 1961, Hannah Arendt assistette al processo dell'ex SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann a Gerusalemme come giornalista. Eichmann fu responsabile delle deportazioni di milioni di ebrei nei campi di concentramento e di sterminio.

L'articolo della Arendt sul processo apparve nel 1963 su The New Yorker e poi come libro con il sottotitolo "Un resoconto sulla banalità del male". Lei descrive Adolf Eichmann come un tecnocrate senza convinzioni che si è stilizzato come un semplice strumento dei suoi superiori.

La banalità del male
La banalità del male, la famosa frase coniata dalla Arendt, è caratterizzata da spensieratezza organizzata e irresponsabilità, ha scritto lei. L'obbedienza "incondizionata" a cui Eichmann si riferiva ripetutamente era un'espressione di questa spensieratezza e irresponsabilità.

La controversia che circonda il resoconto della Arendt è stata scatenata non soltanto dal titolo e dalla questione della "banalità", ma anche dal fatto che ha messo in dubbio la reazione delle "Judenräte" (Consigli ebraici) agli sviluppi nella Germania dell'epoca.

I membri di queste istituzioni erano colpevoli di collaborazione? 

"Stiamo mettendo in discussione l'analisi di Hannah Arendt sulle questioni del 20° secolo", afferma la curatrice della mostra Monika Boll. "Non perché crediamo che Hannah Arendt abbia sempre ragione, ma trasmettendo il suo entusiasmo per il pensiero analitico ai visitatori, vogliamo che si formino le loro opinioni". 

Hannah Arendt, che considerava il pensiero critico un'attività eminentemente politica, sarebbe sicuramente d'accordo con questo approccio. Dopotutto, la filosofa ha ritenuto che il nazionalsocialismo abbia comportato non solo un crollo di tutti i valori morali, ma anche la rottura della capacità di mostrare giudizio, sottolinea la Boll. Le opinioni sono state sincronizzate; la gente ha imparato a parlare come "noi" e non "io" - e la questione della responsabilità personale è stata quindi spostata alle autorità impersonali, dice la Boll.

Una pensatrice del 20° secolo
Nata nel 1906 come figlia di genitori ebrei laici vicino ad Hannover, Hannah Arendt è cresciuta negli ambienti istruiti di Königsberg. Nel 1924 ha iniziato a studiare filosofia e teologia, prima a Marburg, poi a Friburgo e Heidelberg. Ha conseguito il dottorato in filosofia nel 1928 con Karl Jaspers.

Ha scritto per il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung ed esaminato i testi di Rahel Varnhagen von Ense, una intellettuale donna ebrea del periodo Romantico la cui vita era considerata un esempio di assimilazione riuscita - a differenza della Arendt, che era scettica sull'idea dell'assimilazione nel nome dell'uguaglianza di tutte le persone. Considerava questa politicamente ingenua, una posizione che spesso offendeva le persone.

Hannah Arendt aveva anticipato già nel 1931 che i Nazisti sarebbero saliti al potere. Due anni dopo, e diversamente dalla maggior parte delle persone che vivevano in Germania a quel tempo, le era chiaro che i Tedeschi dovevano combattere attivamente contro il regime.

Nello stesso anno, la giovane donna è emigrata in Francia, dove ha lavorato per organizzazioni Sioniste a Parigi in concomitanza con il suo lavoro accademico. Nel 1941, è fuggita con suo marito e sua madre a New York via Lisbona. Hannah Arendt è stata naturalizzata cittadina americana nel 1951.

"Pensare senza ringhiera"
È restata fedele a se stessa per tutta la vita, senza mai seguire una particolare scuola, tradizione o ideologia. Il suo pensiero, afferma Monika Boll, è difficile da classificare ed è per questo che è così interessante. "Puoi sempre trovare nel suo pensiero elementi liberali oltre che conservatori e di sinistra, il che rende molto difficile collocarla in qualsiasi campo politico. La stessa Hannah Arendt lo ha definito "pensare senza ringhiera". Era pure un'eccellente scrittrice. Tutto questo contribuisce al suo fascino, dice la Boll: "Ecco perché alla gente piace guardare alla sua vita e alle sue opere".

In effetti, le corrispondenze della Arendt dalla Germania del dopoguerra, le sue osservazioni sulla questione dei rifugiati, il razzismo in America o il movimento studentesco internazionale riescono sempre a sorprendere le persone. Le sue osservazioni incoraggiano i visitatori della mostra di Berlino a ripensare le proprie opinioni.

La Boll spera anche che la mostra ispiri i visitatori a rendersi conto che è importante formarsi delle proprie convinzioni ben fondate. In tempi di fake news e di isteria di massa, generate dai social media, Hannah Arendt è un meraviglioso antidoto.

(Silke Bartlick, Deutsche Welle. Nostra traduzione)

Il mondo di domani

Sulla pandemia da Coronavirus e le sue conseguenze politiche, economiche e sociali, intervista ad Alain de Benoist: scrittore, filosofo e giornalista francese, fondatore del movimento culturale denominato "Nouvelle Droite" (Nuova Destra)

  
Ora che la situazione sembra in via di soluzione, possiamo dire che il governo, anche se manifestamente preso alla sprovvista, ha fatto troppo oppure non abbastanza di fronte all'epidemia, o semplicemente ha fatto quel che poteva?

Non c'è altro modo per dirlo: la reazione delle autorità al Covid-19 è stata veramente disastrosa. Cinque mesi dopo l'inizio dell'epidemia, non abbiamo ancora raggiunto la capacità di verifica che avremmo dovuto avere quando sono comparsi i primi decessi. Il governo si è dapprima rifugiato nella negazione (non ci colpirà, è un'influenzetta), dopo di che abbiamo assistito a una sfilata incessante di confusione, istruzioni contraddittorie e menzogne ​​di Stato. Nulla è stato stato pianificato, mentre negli ultimi anni erano aumentate molte voci per prevedere una nuova pandemia dall'Asia. La prima ragione risiede nell'incapacità delle autorità pubbliche di pensare al di là del breve termine. Ma la causa fondamentale è che, per conformarci alle regole dell'ideologia liberale, abbiamo voluto sottoporre il settore della sanità pubblica a princìpi di redditività, concorrenza e gestione dei flussi che hanno portato all'eliminazione di migliaia di posti letto, alla distruzione delle scorte di riserva, alla precarizzazione crescente di un personale già sottopagato. In altri termini, abbiamo integrato nel sistema di mercato un'area che è, per definizione, fuori mercato. Il risultato è stato un crollo generalizzato della capacità dell'ospedale pubblico.

Non si tratta certamente di una rivelazione. Il personale ospedaliero ha lanciato allarmi per anni senza mai venire ascoltato. Oggi, Macron e i suoi cloni si uniscono in ringraziamenti verso gli operatori sanitari. Sarebbe stato meglio dar loro i mezzi per lavorare e soddisfare le loro giuste richieste.

Anche nel Medioevo, il confinamento dei portatori sani non ha mai permesso di arginare un'epidemia. Da questo punto di vista, il confinamento generalizzato è stato prima di tutto un'ammissione di impotenza: abbiamo confinato tutto il mondo perché non avevamo né mascherine (che prima abbiamo dichiarato "inutili", per poi rendere quasi obbligatorio indossarle), né test di verifica, né apparecchiature per la rianimazione, né strumenti di assistenza rianimatoria. In Europa, i paesi meglio equipaggiati sono anche quelli meno confinati. Poi, quando abbiamo iniziato ad allentare il confinamento, abbiamo adottato un'intera serie di regolamenti punitivi perfettamente folli. Piuttosto che affrontare, il governo si è nascosto dietro il consiglio degli "scienziati", che poi non sono neppure d'accordo tra di loro. In breve, abbiamo subìto. E probabilmente non è finita.

Al di là delle considerazioni tecniche, non abbiamo forse assistito a un nuovo passo verso una sorta di società della paura generalizzata, con l'interiorizzazione del principio di precauzione, che può avere la tendenza a farci barattare un parvenza di sicurezza con privazioni di libertà altrimenti più tangibili?

Da quando sono stati posti come sinonimi la felicità e l'allungamento della vita, è risaputo che le persone sono pronte ad accettare quasi tutto in cambio di una promessa di sicurezza. Senza cadere nel cospirazionismo, è chiaro che il confinamento ha anche costituito una prova di docilità su vasta scala. Siamo stati in grado di valutare in quali condizioni è stato possibile convincere le persone a diventare i carcerieri di se stessi. Parallelamente, con il pretesto dello stato di emergenza sanitaria, sono state adottate nuove misure di sorveglianza e controllo che hanno tutte le possibilità di essere perpetuate venendo integrate nel diritto ordinario. Le misure adottate in passato per combattere il terrorismo hanno finito per influenzare in modo simile l'intera popolazione. Ogni crisi offre dunque l'occasione di dare una stretta al bullone.

Numerosi commentatori fanno glosse su "il mondo di domani". Pensa che una semplice epidemia possa bastare per rimettere in discussione i fondamenti del sistema? In altre parole, il capitalismo globalizzato dovrà rivedere il suo programma o ha ancora risorse abbastanza per perpetuarsi senza cambiare nulla della sua funzione storica?

Nessuna epidemia può, da sola, provocare una rivoluzione politica, e tanto meno la scomparsa di un'ideologia dominante. D'altra parte, è evidente che si sogna ad occhi aperti quando s'immagina che "nulla sarà più come prima". Coloro che sostengono che nulla cambia dispongono di mezzi enormi per ottenerlo. Ma la ripresa non sarà facile. Qui, non è l'epidemia che conta, ma cosa si produrrà dopo. Interi settori di attività economica sono già fin d'ora devastati e molti non si riprenderanno. Il governo indennizza, per il momento, la disoccupazione parziale, ma questa  non sarà che un tempo. Nel prossimo anno, o più probabilmente nei prossimi due, possiamo aspettarci innumerevoli fallimenti e piani di licenziamento. La disoccupazione crescerà nettamente. La crisi economica e sociale può, essa stessa, sfociare in una crisi finanziaria di prima grandezza. L'Europa è già entrata in recessione e, per ripagare gli aiuti di emergenza ai quali ha dovuto acconsentire, l'indebitamento dello Stato raggiungerà un'altezza stratosferica. Tutto ciò dovrebbe portare a una collera sociale rispetto alla quale il movimento dei gilet gialli apparirà in retrospettiva poca cosa.

Vivendo io stesso più o meno confinato da oltre trent'anni, il confinamento non ha cambiato molto nel mio modo di vivere! Ma per le classi popolari, che si sono ritrovate agli arresti domiciliari per due mesi, il confinamento è stato insopportabile. Sono le stesse classi popolari che hanno consentito al Paese di continuare a funzionare, il che ha permesso di constatare, una volta di più, che sono queste le fasce più essenziali della popolazione, che sono pure le più mal pagate. La crisi economica che si annuncia va dunque a colpirle in pieno. Le conseguenze sono ancora imprevedibili, ma dovrebbero essere enormi.

(Intervista di Nicolas Gauthier. Nostra traduzione)

La destra che vorrebbero

Ogni tanto riciccia una parola in disuso: Destra. Qualcuno di voi mi chiede di intervenire sull'ennesimo, ciclico dibattito sulla destra buona che qualcuno ha lanciato, allo scopo di separare, rimpicciolire, rendere la destra un giocattolino portatile, nell'anticamera loro. Non lo sto seguendo, non mi interessa. Per questo ne scrivo solo qui, nel blog. Ma da quel che voi mi segnalate e citate, non è cambiato poi molto rispetto agli ultimi vent'anni. Dunque la destra buona per essere buona non deve essere destra né avere il riconoscimento degli utenti di destra ma il passaporto è rilasciato della sinistra e della cupola mafiosa che governa la cultura e l’editoria.


Per essere buoni di destra bisogna avere uno dei seguenti requisiti: essere morti. Essere perdenti, minoritari, subalterni. Essere di destra ma disprezzarla e magari preferire la sinistra e comunque allinearsi al politically correct. Essere di destra ma innocui, farfalleggianti, evanescenti, con la destra ridotta a tic, sfizio, civetteria, ben lontani da idee, principi, coerenze e temi politici, civili e culturali davvero fondanti. Una destra meno Tradizione, meno Patria, meno popolo, meno famiglia. Sbarazzina o archeologica, comunque innocua e magari compiacente. Infine giovano all'accettazione le pierre, le leccatine, gl’incensi.

Altrimenti sei cancellato, negato nell'esistenza o vilipeso, mai letto se non di nascosto, scansati i libri, ridotto a una frase, a una battuta e crocifisso. Per queste ragioni non mi interessa parlarne, non mi interessa rivendicare alcunché, non mi interessa un beneamato tubo del dibattito E di prenderne parte, non mi interessano i dibattenti. Giocate voi con la destra. Noi non abbiamo tempo né voglia, né mente né cuore e tantomeno uno scopo per questi giochini. Ci basta narrare la miseria del presente e la grandezza dei cieli.

Divisione dei poteri, garanzia di libertà

Vi sono in ogni Stato tre specie di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, ed il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto civile.


Grazie al primo, il principe o il magistrato fa delle leggi per un certo tempo o per sempre ed emenda o abroga quelle che sono già fatte. Grazie al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, organizza la difesa, previene le invasioni. Grazie al terzo, punisce i delitti, o giudica le controversie dei privati. Chiameremo quest'ultimo potere giudiziario e l'altro semplicemente potere esecutivo dello Stato.

La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temerne un altro.

Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente.

E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.

Tutto sarebbe perduto se un'unica persona, o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati.

Nella maggior parte dei regni europei, il governo è moderato, perché il principe, che ha i due primi poteri, lascia ai propri sudditi l’esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove questi tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispotismo. […]

Poiché, in uno Stato libero, ogni uomo presumibilmente dotato di uno spirito libero deve governarsi da sé, bisognerebbe che tutto il popolo esercitasse il potere legislativo. Ma essendo ciò impossibile nei grandi Stati e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, occorre che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può fare da sé. […]

Il grande vantaggio dei rappresentanti sta nel fatto che essi sono capaci di discutere i problemi di interesse pubblico. Il popolo non è per nulla adatto ad un tal compito, ed è questo uno dei grandi inconvenienti della democrazia. […]

Un vizio fondamentale della maggior parte delle repubbliche antiche era che il popolo aveva il diritto di prendere delle risoluzioni attive, che richiedevano una esecuzione, cosa di cui è assolutamente incapace. Esso deve entrare nel governo solo per scegliere i propri rappresentanti, il che è pienamente alla sua portata. […] 

Il corpo rappresentativo non deve esser scelto per prendere risoluzioni attive, cosa che non potrebbe far bene, ma per fare delle leggi o per garantire la buona esecuzione di quelle che egli ha fatto, cosa che può benissimo fare, che nessun altro, anzi, può far meglio.

(Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Divisione dei poteri e garanzia di libertà, libro XI cap. VI, in Antologia degli scritti politici del Montesquieu, Il Mulino, Bologna, 1977)

Tra l'individuo e il gruppo

Confinato a Tunisi, il filosofo e antropologo tunisino Youssef Seddik si diverte a sezionare il significato delle parole e, con esse, il mondo. Ai suoi occhi, la pandemia del coronavirus è il preludio a una spiritualità ritrovata.


Quali cambiamenti ci porta questa pandemia?

Mi ha cambiato pensando a parole, parole ovvie che pensavamo fossero automatiche. Ad esempio: ammazzare il tempo. Che cos'è un tempo ammazzato? Un tempo morto, questo non è più positivo. Il confinamento deve cambiare gli automatismi del nostro linguaggio e costringerci a pensare meglio, a non fidarci più delle ovvietà e delle formule già pronte.

Può essere che siamo sul punto d'inaugurare un altro pensiero, un po' come quando siamo passati dal Medioevo all'Età della ragione. Si ribellerebbe forse all'imperialismo della tecnica, al guadagno, al profitto e all'accaparramento della ricchezza da parte di pochi.

Ne abbiamo abbastanza della nostra epoca che ha portato due guerre. Fino ad oggi, viviamo sull'avanzo di questi tempi, della divisione del mondo in paesi ricchi, paesi in via di sviluppo e paesi anticamente colonizzati. Questo ha colorato negativamente l'umanità. È tempo, con l'occasione di questa pandemia, di cambiare completamente la logica.

In che modo questa crisi influenza la nostra spiritualità, in particolare nel mondo musulmano?

Ho trovato qualcosa di molto comune a tutte le nazioni che oggi vivono la pandemia, ovvero il rapporto con la morte. I cittadini di tutti i paesi e persino i giovani, i bambini, hanno più umiltà nel dire che sono vivi e più coraggio nel guardare la morte.

Per l'islam, i quattro pilastri cultuali (Ramadan, pellegrinaggio, elemosina e preghiera) sono diventati più individuali, sono confinati dentro la persona in se stessa. Questo è molto importante perché per molto tempo nei nostri paesi musulmani, la dimensione collettiva e cultuale ha avuto la precedenza sulla dimensione contemplativa dell'individuo.

Se questo continua, è un'ottima cosa. Aiuterà le società islamiche a liberarsi di tutto quanto è gregario, quello che io chiamo la credenza del gregge. Quella che è facilmente condotta da un leader, uno sceicco o un'ideologia qualsiasi. Credo che questo preannunci per l'islam un avvenire molto ampio e un modo di pensare all'islam che molti pensatori, opere e realizzazioni dall'inizio del secolo scorso non sono riusciti a scuotere.

Oggi, con il divieto per motivi igienici e di salute della maggior parte delle pratiche collettive, credo che la gente rifletterà su questa verità dimenticata che il rapporto deve essere diretto e senza mediazione tra il divino e se stessa.

Quali soluzioni preconizzare per il mondo a venire?

In primo luogo, lottare enormemente contro la tendenza della gente ad accumulare soldi per niente e lussi che non servono che a pochi.

Dovremmo forse educare la gente, educare i nostri bimbi dall'asilo sul principio e sulla verità che un piacere solitario non è un piacere e che si moltiplica quando è condiviso. Bisognerebbe rivedere tutta la pedagogia della convivialità e della socialità.

Se si vuole che l'uomo programmi positivamente l'avvenire, l'insegnamento dovrebbe cambiare completamente. Si insegni alla gente non a decifrare l'alfabeto o a sezionare un testo, ma a leggere il mondo. Quando uno legge il mondo, uno si rende conto che l'alfabeto di maggior successo è l'essere umano stesso.

(Fonte: AFP. Nostra traduzione)

Moralisti senza vergogna

Nicola Abbagnano, filosofo dell'Esistenzialismo, moriva il 9 settembre 1990. Mentre ci si prepara a celebrarne il trentennale della scomparsa, riprendiamo un suo articolo su "il coraggio di essere moralisti" (irdr)



"Infischiarsi della morale" sembra la cosa più facile del mondo, ed è oggi di moda. E difatti che cos'è la morale? Un insieme di vecchie regole modellate su vecchi usi e costumi, alle quali la vita moderna, con i suoi radicali mutamenti, ha tolto significato e valore. Il moralismo che si ostina a sopravvivere è soltanto l'interesse di qualche ceto ristretto che vorrebbe salvarsi dalla distruzione. Ma, oggi come ieri, il moralismo non fa altro che reprimere gli istinti e le esigenze spontanee dell'individuo e impedirgli di realizzarsi ed esprimersi nella sua vera natura.

Sono questi i luoghi comuni che dominano buona parte della cultura corrente e ispirano molti degl atteggiamenti che si assumono nella vita quotidiana. Il così detto "permissivismo", che è ancora in voga nell'educazione familiare e scolastica, è una conseguenza di questi luoghi comuni. I quali portano altresì al ripudio o all'indebolimento di ogni specie di disciplina in ogni forma di attività privata o pubblica, all'assenteismo sistematico, alla negazione di ogni gerarchia fondata sulle competenze e sui meriti, e alla pretesa di una salvaguardia totale contro tutte le reazioni negative ad una condotta deficitaria o ribelle.

Infischiarsi della morale sembra assai facile; ma che cosa accade quando la gente viene a scontrarsi con le conseguenze dirette e inevitabili di simile atteggiamento? Si levano alte lamentele per lo smarrimento dei valori che dovrebbero reggere la vita dell'uomo e si cerca di recuperarli con una difesa puramente retorica. Si constata con scandalo il dissolversi della vita familiare e la trasformazione frequente degli istituti educativi in ritrovi di gruppi che cercano in essi soltanto l'addestramento politico o il divertimento o la droga.

Si teme (e a ragione) il dilagare della delinquenza, anche fra i giovani, che toglie sicurezza e libertà allo svolgersi della vita civile. Si assiste alla trasformazione di ogni dissenso sociale, politico o personale in uno scontro violento nel quale ogni parte vuole la distruzione dell'altra. Si invoca in ogni occasione dallo Stato un rigore maggiore contro i vizi, la violenza e il crimine, come se gli organi dello Stato vivessero in un altro mondo e non potessero essere contaminati (come in realtà sono) dagli atteggiamenti che producono i mali.

Sì, infischiarsi della morale è facile; ma che cosa poi rimane a difesa dell'uomo e della sua comunità? Ogni religione è nella sua natura autentica un codice morale rigoroso, più rigoroso di ogni altro perché sancito da un Potere trascendente e sovrano. Se non viene degradata a ideologia politica o all'adempimento superstizioso di riti che non lasci traccia nella condotta effettiva dei singoli, la religione è accettata e sentita come ideale di vita morale. Chi si infischia della morale non trova posto nella religione. Ma che cosa è poi questa morale di cui molti oggi non osano neppure parlare per non apparire partigiani fuori tempo di una repressione perniciosa?

Si può dire nel modo più semplice che è l'arte di essere uomini, di vivere e di convivere umanamente. Molte sono le arti che gli uomini hanno inventato e inventano per migliorare la loro posizione nel mondo e per sopravvivere. Ognuna di esse ha le sue proprie regole la cui efficacia, per la produzione di un oggetto o per l'esecuzione di un compito, dipende in buona parte dall'onestà e dallo scrupolo con cui sono eseguite. L'infrazione di queste regole o la loro riduzione ad apparenza furbesca, porta alla frode, alla truffa, alla disorganizzazione delle attività che esse regolano e al danno di tutti coloro che di queste attività dovrebbero beneficiarne. È questa la morale professionale di cui si parla soprattutto a proposito di certe professioni specifiche, come quella dei medici (ai quali è imposta dall'antico giuramento di Ippocrate) ma che in realtà è propria di ogni lavoro, anche il più umile, che può sempre essere eseguito bene o male, con onestà o con frode.

Non c'è dubbio che questa morale oggi vacilla perché la sua mancanza viene risentita da ogni parte e si cercano i mezzi per ripristinarla. Ma essa è solo la parte o l'aspetto di una morale più vasta che concerne l'uomo come tale, il suo modo di trattare, in tutti gi eventi della vita, se stesso e gli altri. Ed è su questa che si appuntano soprattutto le critiche dell'immoralismo corrente. Eppure questa morale non fa altro che suggerire all'uomo i modi di salvaguardare la sua vita e quella dei suoi simili.

Le "virtù" che questa morale considera, e che sant'Ambrogio chiamò "cardinali" per sottolinearne l'importanza, non hanno altro scopo. La temperanza è l'arte di appagare i bisogni dell'organismo senza rovinarlo o distruggerlo. La prudenza è quella saggezza elementare che consente di condurre nel modo migliore le faccende umane. Il coraggio fa difendere la propria vita e quella degli altri. E la giustizia è il rispetto dei diritti altrui, che presiede ad ogni forma di convivenza pacifica. La misura umana, di cui oggi si parla, e che si vorrebbe rispettata in tutti i campi di attività, non è che il rispetto delle regole suggerite da questo antico e ormai dimenticato concetto di virtù.

Il rispetto di queste regole non è certo per l'uomo automatico, come è l'istinto per gli animali. Il lungo processo evolutivo che ha portato alla formazione degli istinti, fa di essi la condizione sufficiente perché le specie animali sopravvivano finché le condizioni ambientali rimangono costanti. Ma nell'uomo non esiste un istinto simile, che annullerebbe la facoltà di scelta, che gli è propria e che ne fa un animale "razionale". Esistono in lui impulsi, desideri, passioni, interessi che hanno una parte maggiore o minore nella sua vita, e nel cui controllo e nel cui equilibrio consiste la forza della sua personalità e la serenità della sua vita. Ma controllo ed equilibrio esigono appunto il rispetto di quelle regole che costituiscono l'arte del vivere umano. La quale è un'arte che l'uomo non trova bell'e fatta in se stesso, ma deve apprendere nel tirocinio della sua vita quotidiana che in tutti i suoi momenti la richiede e la mette a prova.

È un'arte che può subire da un'epoca all'altra mutamenti in meglio od in peggio, oblio od oscuramenti parziali o risvegli ed illuminazioni, ma che, se fosse del tutto obliata o messa da parte, produrrebbe inevitabilmente la distruzione del genere umano. Ma non è quindi un'arte che impoverisca o deprima la ricchezza delle possibilità umane, gli impulsi, i sentimenti, le aspirazioni che costituiscono le energie spontanee di questa vita, ma è quella che consente a tali energie di creare e di esprimersi nel modo migliore impedendo ad esse di finire nel nulla. Perché il nulla è veramente il solo fine a cui può tendere una vita che pretenda di svolgersi senza ordine né misura: il nulla dei sentimenti e degli affetti, il nulla della coesistenza fra gli uomini.

Quer pasticciaccio brutto de viale Mazzini

Il 23 maggio 1992 la tv di Stato si rese protagonista di un episodio tra i più discutibili di tutta la sua ultrasessantennale storia. Quel giorno, un sabato, a poche ore dal terribile attentato in cui perse la vita il Giudice Giovanni Falcone, Rai1 non modificò la propria programmazione, ma preferì mandare in onda la serata finale del varietà Scommettiamo che..?. Una scelta infelice, che scatenò numerose critiche da parte del pubblico, degli addetti ai lavori e del mondo politico.


Subito dopo il Tg1 della sera - nonostante la disponibilità da parte dell'allora direttore del Tg Bruno Vespa di offrire al pubblico uno spazio informativo sul grave attentato - si accesero le luci del Teatro delle Vittorie. Davanti alle telecamere un imbarazzato Fabrizio Frizzi in smoking che, dopo un iniziale discorso in cui si motivava la scelta di andare in onda ("non mancare all'appuntamento con chi ci ha seguito con affetto da nove settimane [...] senza dimenticare la tragedia avvenuta e l'orrore che proviamo come cittadini"), diede il via alla puntata finale del varietà diretto da Michele Guardì. In quella serata, tra ragazzi in grado di far girare vorticosamente un pallone da pallacanestro su un dito per un'ora, ed altri pronti ad eseguire centodiciotto scambi in un minuto, giocando a ping-pong, trovò spazio un'unica edizione straordinaria del Tg1, con la giornalista Angela Buttiglione alla conduzione, costretta in tempi brevissimi a mostrare le prime immagini dell'attentato e mettere fretta all'inviato recatosi in quel di Capaci. Soltanto intorno alle 23.00, con la partenza della rubrica Linea Notte, gli spettatori poterono avere ulteriori notizie.

A distanza di anni dal "pasticciaccio di viale Mazzini" la scelta di mantenere praticamente immutato il palinsesto appare ancora un giallo. Nei giorni successivi al discutibile episodio partì, infatti, uno scaricabarile che infastidì non poco il CdA Rai. Come riportato da La Repubblica del 26 maggio 1992, numerose critiche arrivarono dall'allora consigliere del Pds Antonio Bernardi, che dichiarò: "Si è trattato di un'insensibilità inammissibile per un servizio pubblico, ma anche di una concezione burocratica del rispetto dei palinsesti. Non è stata un'idea felice trasmettere Scommettiamo che?, ma anche senza sospendere il programma di RaiUno, si poteva ottenere un'informazione non-stop su un'altra rete, oppure combinare una staffetta tra i tre tg. Sulle responsabilità bisognerà ottenere chiarimenti in consiglio. Ma se così fosse ci troveremmo davanti a un coordinamento tv inadeguato. Sono errori non solo di insensibilità politica, ma anche di linea editoriale. C'è un problema morale del servizio pubblico e poi ce n'è uno di incompetenza".

Importanti critiche arrivarono anche dal Presidente della Rai in carica Walter Pedullà, che in un Consiglio d'amministrazione, convocato appositamente per discutere quanto accaduto quel sabato sera, affermò che "la Rai non è in sintonia con la sensibilità del pubblico", e mise in guardia i presenti dai rischi che un ritardo culturale ed una concorrenza esasperata con i privati sul fronte dell'audience potrebbero comportare per il servizio pubblico.

Capro espiatorio della triste vicenda fu inevitabilmente il buon Fabrizio Frizzi, costretto, come da lui stesso dichiarato in quelle ore, ad andare in onda contro la sua volontà. In una nota diffusa dall’ufficio stampa Rai il 25 maggio, però, l'allora direttore di Rai1 Carlo Fuscagni negò che a Frizzi fosse stato imposto di condurre la puntata. "Frizzi non ha mai chiesto né al responsabile della trasmissione Maffucci, né all'autore e regista Guardì, né ad altri, di non andare in onda. Ha letto, condividendole, le parole di introduzione al programma che in parte lui stesso ha suggerito, in cui si esprimeva l'orrore per la disumana strage di Palermo".

Responsabilità a parte, per Fabrizio Frizzi quel sabato sera - che per un curioso caso del destino vedeva il suo show sulle scommesse libero dalla concorrenza di Canale5 con Corrado e La Corrida, non in onda per uno sciopero delle maestranze Fininvest - rimane uno dei momenti più difficili della lunga carriera. Lo stesso conduttore, in un'intervista rilasciata a La Repubblica il 13 agosto 1993, tornò sull'argomento, esprimendo in maniera ancora più dettagliata il suo pensiero riguardo l'incresciosa vicenda: "Non sopporto l'idea di essere diventato per quella sera il simbolo del cinismo e della superficialità. Mi fa ancora male, sono stato travolto senza rendermene conto, ma i commenti negativi che mi sono beccato ci stanno tutti. Io non credo di essere un uomo coraggioso, ma nemmeno il contrario. Non ero io che dovevo decidere: dissi che non me la sentivo. E loro hanno insistito. Non ho avuto le palle per andarmene a casa. Non ci vedo cinismo all'americana, anche se un programma come 'Scommettiamo che' ha dei contratti con gli sponsor che deve onorare. Ci vedo di più l'incapacità di decidere. Non so... qualcuno disse 'non dobbiamo dare l'impressione che il paese si fermi' […] Ho letto di Luca Giurato che ha detto: io al posto di Frizzi avrei organizzato subito un dibattito. Sciocchezze, anche il più bravo dei giornalisti non può improvvisare una tavola rotonda in un momento come quello, vestito con lo smoking e con i concorrenti in studio. Con quale faccia tosta avrei potuto parlare di Falcone? Quella sera detti io a Rita [Dalla Chiesa] la notizia. E le chiesi di venire da me. Mentre io andavo in onda lei era in camerino che seguiva i telegiornali. Ovviamente quella tragedia l'ha riportata all'assassinio di suo padre. Credo che mia moglie sia stata sin troppo rispettosa del mio lavoro".

L'anima di un S.O.S.

Il telegrafo di Marconi usato, tra le altre cose, per lanciare le richieste di soccorso durante il naufragio del Titanic potrà essere recuperato. Lo ha stabilito un tribunale della Virginia modificando un precedente ordine giudiziario del 2000 che proibiva di tagliare il relitto o di toccare qualsiasi parte di esso. Il giudice ha dato il via libera al recupero perché il telegrafo è un oggetto "importante sia storicamente che culturalmente" e rischia di essere perso a causa del deterioramento del relitto. Il Titanic affondò il 15 aprile 1912, durante il suo primo viaggio, a causa della collisione con un iceberg nella notte al largo delle coste canadesi. Circa 1500 passeggeri persero la vita. Il telegrafo si trovava nella cosiddetta 'Marconi Room' e, come novità per l'epoca, da essa i passeggeri potevano anche spedire messaggi privati dalla nave stessa (Ansa)


La cessazione dei segnali in Morse è un battito del secolo. L'ultima stazione venne chiusa il 31 gennaio 1997: collegava Europa e America, tra Finistère in Bretagna (Le Conquet) e Cape Cod. La parabola del Telegrafo senza Fili è durata ottantanove anni. I telegrafisti della riva europea hanno lanciato il loro ultimo messaggio in linee e punti come in preda a un'ebbrezza dionisiaca: "Chiamiamo tutti. Questo è il nostro ultimo grido prima del silenzio eterno".

L'anno in cui morì Marconi, facevo il marconista tra le montagne di Giaveno, nel torinese, nelle puerili organizzazioni paramilitari del regime fascista. Avevo imparato perfettamente il Morse con la incolume memoria di un decenne e trasmettevo i segnali con le bandierine come dalla flotta di Togo.

Avevo trovato un piccolo telegrafo da esercitazioni, che ho utilizzato nelle mie avventure teatrali. So battere ancora il grido religioso: Save our souls (S.O.S.), che significa esattamente Salva le nostre vite, Signore. Nelle navi che affondano il messaggio vale "Salvateci". Oggi l'appello al soccorso, via satellite, è mayday, storpiatura angloamericana del francese m'aider. Ma nel linguaggio umano S.O.S. (tre punti - tre linee - tre punti: ...---...) vive per sempre e riempie gli spazi infiniti.

L'uomo scomparirà e i tre punti - tre linee - tre punti seguiteranno a incarnarne il grido. I radiotelescopi sembrano tacere, ma ascolta ascolta, percepirai S.O.S... S.O.S... dai QUASAR, dai PULSAR, dalle Nane Bianche, dai Buchi Neri divoratori... dai Big Bang che si rinnovano in lontananze senza fine. S.O.S. è il grido tragico supremo, in ogni suo battere tutto il tragico dell'universo si accende di Vento che ha fame.

Nella notte del 15 aprile 1912 dall'Atlantico del Nord s'irradiò il segnale: S.O.S. TITANIC URTATO ICEBERG AFFONDIAMO. Il Britannia obbedì subito ma sul luogo non trovò che scialuppe gremite di salvabili. La nave scese fino a quattromila metri di profondità e giacque sul fondale spaccata in due.

Tuttora è là. Sono state riportate in superficie alcune posate di massiccio argento della prima classe. Le avranno vendute all'asta o sono esposte in qualche museo?

Quando invochiamo l'aiuto del medico, fosse pure uno sconosciuto, tutti siamo titanic che hanno urtato iceberg e emettiamo S.O.S. in una chiara notte atlantica. Questo segnale biblico di cristiani che affondano non ha mai fine.

(Guido Ceronetti, Ti saluto mio secolo crudele)

Ascensione: che confusione!

Per l'edificazione dei suoi lettori, il grande quotidiano di riferimento della sera, primo arbitro della stampa, Le Monde proprio, ha proposto, per la penna di un certo Ilham Mraizika, un articolo che spiega la festa dell'Ascensione . O, piuttosto, ha sintetizzato molto male il file di Wikipedia dedicato a questa festa cristiana commettendo numerosi errori. Senza osare pretendere di averli identificati tutti, ecco gli strafalcioni più enormi inflitti ai lettori di questo rispettabile giornale.


Secondo Le Monde, l'Ascensione avrebbe avuto luogo, secondo la Bibbia, 40 giorni dopo la risurrezione di Gesù. Non ha fortuna: in nessuno dei quattro Vangeli, né in nessuna scrittura neotestamentaria, figura l'indicazione di una durata. Quanto i libri dell'Antico Testamento, sono anteriori a questi avvenimenti. Il fatto che la Chiesa celebri l'Ascensione in questa data non è correlato alla cronologia esatta di questo evento di cui non sappiamo nulla, se non che si trova tra la risurrezione (dopo il sabato della festa ebraica di Pasqua) e la Pentecoste , un'altra festa ebraica.

Sempre dal nostro pubblicista del Monde, a proposito di Gesù dopo la sua Ascensione: "Li lascia fisicamente per incarnarsi in un'altra forma, quella dello Spirito Santo rivelata dieci giorni dopo, a Pentecoste". No, lo Spirito Santo rimane una delle tre persone distinte le une dalle altre della Trinità, che costituiscono Dio con il Padre e il Figlio. No, uno spirito non è proprio incarnato, al contrario, è disincarnato! Per quanto riguarda l'incarnazione sotto altra forma di Gesù, è una speculazione intellettuale che coinvolge solo Le Monde...

Quando il nostro brillante giornalista specula che questa Ascensione non sarebbe affatto una sorpresa perché sarebbe stata "presagita" da Gesù stesso durante l'Ultima Cena, commette di nuovo un errore. Innanzitutto, non era un presagio, ma un annuncio, una profezia (le parole hanno un significato). Poi, quando gli apostoli chiedono, il giorno stesso dell'Ascensione, se è ora che Gesù ripristinerà la regalità in Israele, dimostrano di non aver affatto compreso o di non ritenere il senso di questo annuncio. La sorpresa è senza dubbio grande per loro.

Altro errore rilevato, commesso due volte e tenuto in fine: l'Ascensione si sarebbe svolta il Giovedì Santo. No, il Giovedì Santo è quello che precede Pasqua, quello in cui si è svolta la Cena. Davvero sfortuna se non si riesce nemmeno a estrapolare inezie dai file di Wikipedia senza farsi beccare. Ultima perla alla fine dell'articolo, quando si tratta "della morte e della risurrezione" della Vergine a proposito della sua Assunzione.

Qualche commento da un cinico disilluso.

Le Monde, punto di riferimento del benpensante, non esita a dare lezioni: non è forse l'editore di Decodex, questo strumento che rivendica il diritto di verificare le informazioni pubblicate e di fustigare i suoi autori? Potrebbe essere bene se questo giornale fosse un po' più umile? Medico, cura te stesso!

La diffusione a pagamento di Le Monde non è sufficiente per assicurargli la vitalità e beneficia di numerosi sussidi diretti o indiretti. È dunque con le vostre tasse che queste sciocchezze vengono stampate. Non è incoerente che un contribuente ne sia irritato.

In Wikipedia, Le Monde è considerato una fonte affidabile, a differenza di Boulevard Voltaire. Se voglio modificare il file di Wikipedia affinché l'Ascensione includa le assurdità sopra menzionate, nessuno mi biasimerà: le modifiche provengono da una fonte di qualità. Naturalmente, ci sono abbastanza collaboratori intelligenti in modo che questo possibile cambiamento non duri a lungo. Ma questa gerarchia delle fonti favorisce il lavoro pieno di errori di un giornale in cui un dilettante non viene riletto dalla sua redazione prima della pubblicazione, o peggio: cercate l'errore!

Mentre pubblichiamo questo articolo, Le Monde ha aggiornato il suo e corretto il passaggio contenente la confusione con il Giovedì Santo.

(Rémy Mahoudeaux, Boulevard Voltaire)

Dell'inizio e della fine

Come occasione era unica, il Coronavirus, per tornare a farci riflettere sulla morte, quindi sulla vita. Ma no, siamo troppo impegnati con l'happy hour. (irdr)


La morte non è quel che ha detto Cocteau: un nascere alla rovescia. È un evento molto più decisivo, perché la vita si cancella, e la morte no. Anche lo smaliziato Cocteau tenta, dunque, la sua ingenua evasione: il borghese americano adopera i giardini della memoria, il cofano dell’amato e i terapeuti del dolore, l’accademico di Francia uno stonato rimasuglio di genialità. La vita è tutta un’inutile evasione dalla morte.

I preventivi delle pompe funebri cominciano con il nome del compianto, e finiscono con la marca da bollo. Le bare con le maniglie dorate, nei cimiteri-metropoli, scendono a ritmo continuo nelle fosse lunghe decine di metri, una dietro l’altra, con la parte più stretta di una affiancata a quella più larga dell’altra per occupare meno posto. Le corone si accumulano in disparte, le vecchie e le nuove, nella grande fabbrica del disfacimento.

Il morto fa solo ribrezzo e paura: un istante dopo, la persona che suscitava amore e desiderio di comunione è il mostro più spaventoso dell’universo, anche se ci si sforza di toccarlo con le labbra. Si sente che la morte è infinitamente più potente della vita, che la vera realtà, quella definitiva, è il silenzio, l’immobilità, l’insensibilità, il nulla. Il morto è potente nella sua notte. Si sente che potrebbe fare le cose più tremende, cambiare colore, riempirsi e vuotarsi, trasformarsi, gonfiarsi, decomporsi. Potrebbe anche aprire gli occhi, per mostrarli spenti, alzarsi, per una fissità verticale, muoversi, per un incedere fatale.

Se poi si vola sopra l’isola del Giglio e sopra la Gorgona, in un azzurro tutt’intorno pieno di sole, e le scie delle navi sono punti bianchi, il buio della morte diventa immediatamente incomprensibile. Tutto è lì vivo, ovunque presente, eterno di un’eternità buona. E questa è l’ultima maledizione: mutando i punti di vista e gli istanti muta il senso delle cose, che diventano perciò sfuggenti e inafferrabili.

In certi luoghi le case antiche avevano una porta dalla quale uscivano i morti. Adesso ci manca una categoria importante per spiegarci come le cose appartenute al defunto, o entrate in contatto con lui, si carichino di un significato intenso e speciale. In qualche modo partecipano della morte, dalla quale sono state toccate: diventano uniche e magiche. Diventano sacre, ma noi non sappiamo più che cosa vuol dire.

Un’amigdala, scheggiata molte e molte migliaia di anni fa, rimane, e l’uomo che l’ha fatta è subito precipitato nel nulla; eppure la pietra non aveva nessun desiderio di durare, e nessuno si è sforzato di conservarla. Il reale è proprio il capovolgimento del logico. Si può tentare di arrampicarsi, o forse non si può non tentare. Su Jung forse, o magari su Freud, con la sua tesi della non riducibilità della psiche a coscienza; è seducente, e come tutto ciò che è seducente è ambiguo, inafferrabile, capovolgibile. Queste arrampicate non sono neanche di moda, del resto, e finché la luce è accesa e c’è rumore nella strada la speranza dell’immortalità può dormire nelle nebbie metafisiche. Ma non è neppure concepibile un morto che sia semplicemente morto. 

L’immortalità, tuttavia, è meno importante della morte. Gustata fino in fondo, la morte, che emerge dominante e incancellabile sul flutto del tempo, può essere anche una terribile immortalità. Può essere tutto. Ma poi si vola sopra l’isola del Giglio e sopra la Gorgona.

Il morto si allontana da noi velocemente. Una volta uscito dalla casa che riempie con la sua presenza gigantesca, fugge lontano. Dopo pochi giorni, dopo poche ore, la sua immagine è già irrecuperabile, la sua voce inudibile, il suo sguardo dimenticato. Ricostruiamo la nostra vita passata, che fu con lui, come se fosse stata senza di lui. Lo perdiamo e lo rifiutiamo insieme. Il dolore scompare in fretta, forse perché è troppo palesemente inadeguato: il fatto che si dimentichi partecipa molto più strettamente della natura della morte che non il fatto che si soffra. Infatti, se del dimenticare si potesse avere piena coscienza, risulterebbe doloroso quanto la morte, risulterebbe, com’è, il suo trionfo.

Amare perfettamente qualcuno comporterebbe il morire con lui: l’esistenza della morte obbliga a non essere perfetti. La società del benessere, che papi e americani e comunisti ci additano, avrà ancora becchini avidi di mance: l’esistenza della morte obbliga a non essere perfetti. Forse anche viceversa.

È più dolorosa, ma più accettabile, la morte di un giovane della morte di un vecchio, la morte di un sapiente della morte di un ignorante. Ogni potenza, troncata e abbattuta, entra nella morte e, troncata e abbattuta, resta potenza nella morte. Come diceva Tirteo: «In un giovane, anche la morte è bella». C’è qualcosa sopra la morte, allora?

Secondo la tradizione talmudica, i corpi sepolti portavano in sé il seme della loro rigenerazione: l’osso sacro è il piccolo verme destinato all’ultima e definitiva metamorfosi. Popoli remotissimi e oscuri seppellivano i corpi in otri di terracotta, nella stessa posizione raccolta in cui stavano nel ventre materno prima di nascere. Gli adoratori di Ahura Mazda esponevano i cadaveri agli uccelli del cielo sulle torri del silenzio. Altrove li innalzano ancora sui roghi perché si sublimino in odori tra le fiamme e si disperdano in cenere tra le acque. Solo noi li chiudiamo definitivamente nella morte sigillandoli in feretri squadrati di legno e di metallo. Per nostra disgrazia, non sappiamo fare altro che avvolgere una corona del rosario fra le dita rattrappite e le unghie viola. E stiamo dimenticando anche questo.

Alla madre che nell’India dei Veda invoca disperatamente la figlia Devachi, cercandola all’alba sulla piazza del villaggio dove s’innalzano i roghi funebri, una voce domanda: quale Devachi? In questo stesso luogo migliaia di fanciulle di questo nome sono state bruciate e disperse al vento. Quale di costoro era tua figlia? I cicli eterni, per i quali ogni occhio è destinato a versare più lacrime di quante gocce contengano gli oceani, danno questa immagine della morte che non è morte, del dolore che non è dolore, della vita che non è vita, e rimandano all’ideale dell’immobilità assoluta, che è forse l’oscura coscienza del superamento dell’opposizione vita-morte, racchiuse entrambe in un cerchio che le rispecchi all’infinito fino a identificarle. La suprema gustazione della morte è forse la suprema gustazione della vita, e non viceversa.

Quanto alla Grecia, solare e magnifica, la sua parola più grande la dice per bocca di Socrate: sacrificate per me un gallo a Esculapio. Le strade di Sibari ombreggiate dalla seta e percorse da cavalli danzanti al suono dei flauti, l’oro del Partenone, le splendide panatenaiche ci hanno nascosto la Grecia arsa e funebre, quella dei misteri spaventosi, quella del pitagorico divieto di cibarsi di fave – magicamente legate ai morti –, quella tragica di Socrate. La nostra civiltà attuale, scesa dal Nord e dall’Occidente, ha visto il sole e l’azzurro; non ha visto le tenebre del mare, il fango secco, i deserti di sabbia gialla, le rocce spaccate, le fiumare asciutte, il groviglio dei cespugli polverosi, la crudeltà della luce, il sale e il sudore, i gridi e il silenzio, la rapida putrefazione. In questo veder male, in questa illusione, sta la nostra cultura, che è per questo – di fronte alla morte e quindi alla vita – il ritratto dell’impotenza.

Esculapio salvatore dà la medicina giusta, e Socrate guarisce dalla vita. Il gallo dell’aurora canta per la morte.

Solo a questo punto – crollate le antiche civiltà sacre con i loro tentativi sublimi e spaventosi di affrontare la morte – ha senso l’urlo di Gesù Cristo morente: Dio Dio, perché mi hai abbandonato? Se Socrate rifiuta la vita, Gesù rifiuta anche il rimedio della morte, per lasciarci da duemila anni in questo nulla.

(Sergio Quinzio, Cristianesimo dell'inizio e della fine)