"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Moralisti senza vergogna

Nicola Abbagnano, filosofo dell'Esistenzialismo, moriva il 9 settembre 1990. Mentre ci si prepara a celebrarne il trentennale della scomparsa, riprendiamo un suo articolo su "il coraggio di essere moralisti" (irdr)



"Infischiarsi della morale" sembra la cosa più facile del mondo, ed è oggi di moda. E difatti che cos'è la morale? Un insieme di vecchie regole modellate su vecchi usi e costumi, alle quali la vita moderna, con i suoi radicali mutamenti, ha tolto significato e valore. Il moralismo che si ostina a sopravvivere è soltanto l'interesse di qualche ceto ristretto che vorrebbe salvarsi dalla distruzione. Ma, oggi come ieri, il moralismo non fa altro che reprimere gli istinti e le esigenze spontanee dell'individuo e impedirgli di realizzarsi ed esprimersi nella sua vera natura.

Sono questi i luoghi comuni che dominano buona parte della cultura corrente e ispirano molti degl atteggiamenti che si assumono nella vita quotidiana. Il così detto "permissivismo", che è ancora in voga nell'educazione familiare e scolastica, è una conseguenza di questi luoghi comuni. I quali portano altresì al ripudio o all'indebolimento di ogni specie di disciplina in ogni forma di attività privata o pubblica, all'assenteismo sistematico, alla negazione di ogni gerarchia fondata sulle competenze e sui meriti, e alla pretesa di una salvaguardia totale contro tutte le reazioni negative ad una condotta deficitaria o ribelle.

Infischiarsi della morale sembra assai facile; ma che cosa accade quando la gente viene a scontrarsi con le conseguenze dirette e inevitabili di simile atteggiamento? Si levano alte lamentele per lo smarrimento dei valori che dovrebbero reggere la vita dell'uomo e si cerca di recuperarli con una difesa puramente retorica. Si constata con scandalo il dissolversi della vita familiare e la trasformazione frequente degli istituti educativi in ritrovi di gruppi che cercano in essi soltanto l'addestramento politico o il divertimento o la droga.

Si teme (e a ragione) il dilagare della delinquenza, anche fra i giovani, che toglie sicurezza e libertà allo svolgersi della vita civile. Si assiste alla trasformazione di ogni dissenso sociale, politico o personale in uno scontro violento nel quale ogni parte vuole la distruzione dell'altra. Si invoca in ogni occasione dallo Stato un rigore maggiore contro i vizi, la violenza e il crimine, come se gli organi dello Stato vivessero in un altro mondo e non potessero essere contaminati (come in realtà sono) dagli atteggiamenti che producono i mali.

Sì, infischiarsi della morale è facile; ma che cosa poi rimane a difesa dell'uomo e della sua comunità? Ogni religione è nella sua natura autentica un codice morale rigoroso, più rigoroso di ogni altro perché sancito da un Potere trascendente e sovrano. Se non viene degradata a ideologia politica o all'adempimento superstizioso di riti che non lasci traccia nella condotta effettiva dei singoli, la religione è accettata e sentita come ideale di vita morale. Chi si infischia della morale non trova posto nella religione. Ma che cosa è poi questa morale di cui molti oggi non osano neppure parlare per non apparire partigiani fuori tempo di una repressione perniciosa?

Si può dire nel modo più semplice che è l'arte di essere uomini, di vivere e di convivere umanamente. Molte sono le arti che gli uomini hanno inventato e inventano per migliorare la loro posizione nel mondo e per sopravvivere. Ognuna di esse ha le sue proprie regole la cui efficacia, per la produzione di un oggetto o per l'esecuzione di un compito, dipende in buona parte dall'onestà e dallo scrupolo con cui sono eseguite. L'infrazione di queste regole o la loro riduzione ad apparenza furbesca, porta alla frode, alla truffa, alla disorganizzazione delle attività che esse regolano e al danno di tutti coloro che di queste attività dovrebbero beneficiarne. È questa la morale professionale di cui si parla soprattutto a proposito di certe professioni specifiche, come quella dei medici (ai quali è imposta dall'antico giuramento di Ippocrate) ma che in realtà è propria di ogni lavoro, anche il più umile, che può sempre essere eseguito bene o male, con onestà o con frode.

Non c'è dubbio che questa morale oggi vacilla perché la sua mancanza viene risentita da ogni parte e si cercano i mezzi per ripristinarla. Ma essa è solo la parte o l'aspetto di una morale più vasta che concerne l'uomo come tale, il suo modo di trattare, in tutti gi eventi della vita, se stesso e gli altri. Ed è su questa che si appuntano soprattutto le critiche dell'immoralismo corrente. Eppure questa morale non fa altro che suggerire all'uomo i modi di salvaguardare la sua vita e quella dei suoi simili.

Le "virtù" che questa morale considera, e che sant'Ambrogio chiamò "cardinali" per sottolinearne l'importanza, non hanno altro scopo. La temperanza è l'arte di appagare i bisogni dell'organismo senza rovinarlo o distruggerlo. La prudenza è quella saggezza elementare che consente di condurre nel modo migliore le faccende umane. Il coraggio fa difendere la propria vita e quella degli altri. E la giustizia è il rispetto dei diritti altrui, che presiede ad ogni forma di convivenza pacifica. La misura umana, di cui oggi si parla, e che si vorrebbe rispettata in tutti i campi di attività, non è che il rispetto delle regole suggerite da questo antico e ormai dimenticato concetto di virtù.

Il rispetto di queste regole non è certo per l'uomo automatico, come è l'istinto per gli animali. Il lungo processo evolutivo che ha portato alla formazione degli istinti, fa di essi la condizione sufficiente perché le specie animali sopravvivano finché le condizioni ambientali rimangono costanti. Ma nell'uomo non esiste un istinto simile, che annullerebbe la facoltà di scelta, che gli è propria e che ne fa un animale "razionale". Esistono in lui impulsi, desideri, passioni, interessi che hanno una parte maggiore o minore nella sua vita, e nel cui controllo e nel cui equilibrio consiste la forza della sua personalità e la serenità della sua vita. Ma controllo ed equilibrio esigono appunto il rispetto di quelle regole che costituiscono l'arte del vivere umano. La quale è un'arte che l'uomo non trova bell'e fatta in se stesso, ma deve apprendere nel tirocinio della sua vita quotidiana che in tutti i suoi momenti la richiede e la mette a prova.

È un'arte che può subire da un'epoca all'altra mutamenti in meglio od in peggio, oblio od oscuramenti parziali o risvegli ed illuminazioni, ma che, se fosse del tutto obliata o messa da parte, produrrebbe inevitabilmente la distruzione del genere umano. Ma non è quindi un'arte che impoverisca o deprima la ricchezza delle possibilità umane, gli impulsi, i sentimenti, le aspirazioni che costituiscono le energie spontanee di questa vita, ma è quella che consente a tali energie di creare e di esprimersi nel modo migliore impedendo ad esse di finire nel nulla. Perché il nulla è veramente il solo fine a cui può tendere una vita che pretenda di svolgersi senza ordine né misura: il nulla dei sentimenti e degli affetti, il nulla della coesistenza fra gli uomini.