"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Millecinquecento lettori

"Un giornalista politico, nel nostro Paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana: è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene".
 
 
Enzo Forcella nel giugno 1959 iniziava con queste parole il suo articolo pubblicato sulle pagine di Tempo presente, la rivista diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, e intitolato appunto Millecinquecento lettori.
 
Siamo agli inizi del 1959, Forcella ha 38 anni e sulle colonne del quotidiano torinese La Stampa si è rivelato commentatore politico di alta qualità. I mesi di cui parliamo sono quelli segnati dall’agonia del centrismo, e il 1959 comincia con il congresso del Psi a Napoli. C’è in gioco l’avvio dell’esperienza di centro-sinistra.
 
Inviato dal suo giornale a seguire i lavori del congresso, Forcella ne ricava una serie di articoli obiettivi e indipendenti, nessuno dei quali sarà pubblicato. Il giornalista si dimette immediatamente e, qualche tempo dopo, pubblica su Tempo presente una disamina lucida e raggelante sul mondo della stampa e dei suoi rapporti con il potere.
 
Così Forcella sintetizza nei suoi appunti il contrasto con la direzione del giornale: "Il Psi stava in mezzo al guado che dalle posizioni filocomuniste lo porterà agli inizi degli anni sessanta alla collaborazione governativa con la Dc, e il congresso di Napoli costituisce uno dei passaggi più difficoltosi di questa marcia. Le mie corrispondenze ne suggeriscono nel complesso una lettura positiva: nel senso che, a mio avviso, la linea autonomistica (fautrice del centro-sinistra) ne uscirà confermata. La direzione del giornale, invece, asseconda l’atteggiamento di Saragat (e della Fiat) che per ragioni tattiche ha tutto l’interesse a presentare il Psi come incapace di svincolarsi dalla politica filocomunista. Di conseguenza cestina i commenti che invio da Napoli. Al ritorno in sede pongo il problema della mia permanenza nelle funzioni che ho sino a quel momento svolto. Non ne faccio una questione politica ma di professionalità giornalistica (…). Poiché non si era voluto dare credito alla mia interpretazione ne dovevo concludere che non godevo più della fiducia della direzione. In altre parole chiedo di essere licenziato".
 
Torniamo ai "1500 lettori": "Il rapporto dei millecinquecento lettori con il giornalista politico è molto stretto, in un certo senso si può dire che giunge fino alla identificazione: ogni mattina essi fanno colazione con lui (…), spesso lo invitano a pranzo e gli fanno pervenire attraverso colleghi o amici comuni i sensi della loro considerazione. A Natale, e quando è molto importante anche a Pasqua, il giornalista politico riceve dai suoi estimatori molte cassette di liquori. È invitato a tutti i ricevimenti. Ha onorificenze (…). Le mogli hanno sufficienti motivi per essere soddisfatte (…). Questi sono i piaceri del giornalista politico. Se ne deve dedurre che egli è ammesso a godere, di riflesso, i vantaggi del potere? O non è lui stesso un elemento del potere, e proprio in tale certezza trova il suo maggiore e impagabile piacere, il piacere della potenza?".
 
A farne le spese è ovviamente la società civile. Sempre più ignorante, sempre più inconsapevole, essa reagisce a una finta opposizione che la spinge a dividersi a favore o contro un “personaggio politico” e non a favore o contro un sistema economico basato sullo sfruttamento sempre più feroce dei lavoratori e lo svuotamento dello stato sociale. Di questo, l’informazione è responsabile, perché ha abdicato alla sua funzione sociale.

Travaglio dixit

"Intendiamoci. Non c'è nulla di male a essere di destra o di sinistra. Anzi, è normale e anche giusto. Ciascuno ha le sue idee, guai se non le avesse. E, in un paese bipolare [speriamo non nel senso del disturbo bipolare o maniaco-depressivo, ndr], almeno il giorno delle elezioni, i cittadini - compresi i magistrati, i giornalisti e i giudici costituzionali - si dividono fra quelli che votano a destra, quelli che votano a sinistra e una minoranza di astensionisti che non votano per nessuno. Il guaio è quando un'idea politica o una scelta elettorale inquinano l'imparzialità del giudice o del pm o del giornalista nella loro quotidiana attività professionale".

"Il voltagabbana cambia idea per stare sempre dalla parte del potere, non contro".

 

Così parlò Marco Travaglio.

(Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, il Saggiatore, 2007, pagg. 25 e 31)

Sacrificio senza trascendenza

Sono passati molti anni dalla prima edizione di questo libro; ma le sue tesi di fondo, lungi dall’essere invecchiate, appaiono oggi perfino più chiare e più sicure di quando sono state formulate in quanto hanno provveduto gli avvenimenti a convalidarle. È evidente, infatti, che se la Chiesa si sforza di ricongiungersi con l’Antico Testamento, con l’ebraismo e con il musulmanesimo, è perché l’opera di Gesù, come affermato in questo libro, non è stata capita nel suo aspetto eversivo nei confronti dell’ebraismo nemmeno dai suoi primi seguaci; ed oggi si giunge a negare (pur senza ammetterlo), a svuotare di senso il lancinante messaggio di rottura gridato con tanta violenza da Gesù.

 

Il dialogo interreligioso costituisce in realtà il ritorno al «sistema del sacro», un sistema che è presente, anche se con innumerevoli varianti, in tutte le religioni, ma che nell’ebraismo si trova nella forma più stringente a causa di un fattore essenziale: la proclamazione che esiste un solo Dio. È questa unicità che costringe gli elementi dispersi qua e là nelle singole credenze sacrali a concentrarsi in una logica assoluta, mettendo in luce così il principio fondante del rapporto di ogni gruppo umano con ciò che lo trascende, che lo supera e che lo intimorisce: il principio del sacrificio. Sacrificare significa uccidere, offrire la morte al creatore della morte. Era stato proprio questo: il passaggio immediato, con Gesù e dopo Gesù, dalla concretezza dell’uccisione degli uomini (la sacralità della guerra è appunto un sacrificio fra uomini), dell’uccisione degli animali, della mutilazione del pene al simbolismo del pane nella Messa e dell’acqua nel battesimo a connotare la diversità radicale dei popoli mediorientali da quelli d’Occidente. Gesù ha segnato questa diversità e per questo è stato subito ucciso. Le religioni, infatti, quali che siano le spiegazioni che ogni singolo popolo ne dà, rivelano la psicologia collettiva, l’atteggiamento verso il mondo, verso la natura, verso la propria vita che contraddistingue ogni gruppo umano in confronto agli altri e coprono perciò anche gli aspetti più lontani dalcentro logico di fondazione di una cultura. Naturalmente i membri del gruppo di solito non sono per nulla consapevoli di questa interconnessione logica di cui sono portatori; ma ciò non toglie che essa agisca in modo coercitivo proprio perché è «ovvia». L’ovvietà acceca anche le menti più critiche tanto che solo i massimi geni, quelli che per la loro assoluta unicità sfuggono perfino alla definizione di «genio», si avvedono dei significati della cultura nella quale si trovano a vivere.

Gesù è appunto un genio assoluto, e ha applicato la sua immensa capacità critica là dove nessuno ha mai provato a farlo: i mattoni di fondazione del «Sacro» nell’ebraismo (come in tutte le religioni), ossia il sacrificio, l’uccisione di una vittima, il dono della morte. È questo, dunque, per Gesù il vero nemico dell’umanità; l’unico, insuperabile ostacolo alla libertà di ogni uomo così come di ogni gruppo: l’uccisione sacrificale.

Uccisione: è questo il problema fondamentale dell’uomo. Dover uccidere per poter vivere dato che questo è il meccanismo che regge la Natura; e al tempo stesso impedirsi di uccidere per poter vivere in gruppo. Il Potere nasce da lì: qualcuno ha assunto su di sé il diritto e il dovere di uccidere e di far uccidere,e lo ha messo al sicuro facendolo dipendere dalla Divinità. Il Sacro e il Potere perciò sono inscindibili; o meglio Sacro e Potere sono una cosa sola, nascosta sotto due termini che in apparenza rinviano l’uno all’altro in un sistema circolare infinito privo di responsabilità. Neanche le rivoluzioni più violente e radicali, comunque rarissime nel lungo itinerario della Storia, sono mai riuscite a interrompere il sistema «uccisione-potere-sacralità». Una volta giunte ad uccidere, infatti, le rivoluzioni ricodificano il sistema, spostandolo semmai da un ente ad un altro, da una classe ad un’altra, da una autorità ad un’altra. L’unica rivoluzione che ha permesso di intravedere dove fosse collocato il centro del potere è stata quella di Gesù; e malgrado gli enormi, innumerevoli errori compiuti dai suoi seguaci, l’Occidente rimane (o forse dobbiamo dire rimaneva dato che l’unificazione europea tende a far prevalere l’Oriente) ancora l’unica speranza di coloro che vogliono liberarsi dalla sacralità del potere.

Gesù dunque è stato ucciso in base alla necessità logica della «vittima sacrificale»; quella stessa logica che in nessuna religione è stata mai esposta con tanta chiarezza quanto nell’ebraismo, nel racconto, privo di veli, dell’uccisione di Isacco. Uccidere il «figlio», ossia uccidere la prosecuzione della vita, il futuro del gruppo. Gesù è stato sconfitto, ma ha costretto il sistema del sacro a spostarsi in Occidente, dove l’amore per la bellezza, per la rappresentazione della bellezza, presente nei Greci e nei Romani, rendeva impossibile accettare la concretezza delle mutilazioni, il divieto di qualsiasi simbolismo. Qui, dunque, anche se il sistema del «Sacro-Potere» non è stato infranto, si è però verificata una rottura epistemologica nei significati culturali, tracciando un abisso fra l’Antico Testamento e i Vangeli. Chi, del resto, potrebbe ingannarsi, leggendo i Vangeli, sulla loro assoluta novità poetica, sulla loro appartenenza al mondo di chi ama la rappresentazione della bellezza? Per questo, nessuno, credente e non credente, ignorante e colto, è mai riuscito a prendersela con Gesù: in Occidente l’amore per il bello è più forte di qualsiasi cosa.

Oggi, però, la Chiesa sta compiendo il passo più pericoloso: togliere al cristianesimo anche quel piccolo granello di senape che Gesù vi ha posto senza che i suoi seguaci abbiano saputo farlo crescere e sviluppare: la rottura con l’Antico Testamento. È soprattutto la Chiesa wojtyliana che lavora in questa direzione, seguendo due tracciati in apparenza diversi ma alla fine convergenti. Il primo è esplicito e dichiarato: ripartire dal «Padre Abramo» affermando che, nel monoteismo, siamo tutti uguali e fratelli. Il secondo è, viceversa, molto nascosto e forse addirittura inconsapevole. Celebrare il massimo della sacrificalità nell’indicare in ogni individuo il sacrificatore e la vittima, spronando tutti al «dono» di sé come dono all’altro uomo, senza più passare attraverso Dio. Difficile capire se Wojtyla creda di poter sopperire in questo modo alla mancanza di fede, o almeno a quella che lui ritiene mancanza di fede, nell’Occidente cristiano. Sotto questo aspetto il cristianesimo si riassumerebbe nelle sole «opere di bene», prive di Dio.

Un errore così tragico non era mai stato compiuto dalla Chiesa, neanche nei suoi momenti peggiori. Il sacrificio della vittima riusciva almeno a tenere a freno l’aggressività dell’uomo scaricandola, sia pure ingiustamente, su di un solo individuo e dando un minimo di respiro al potere della morte dal momento che lo poneva sotto il controllo della divinità. Fare, invece, di ogni singolo uomo il sacrificatore e la vittima dell’altro, eliminando la trascendenza, eliminando il timore della morte come base della religione, significa consegnare gli uomini alla più feroce delle distruttività, ristabilire la legge dell’Homo homini lupus. Una delle conseguenze più immediate la si è vista nella rapacità sul cadavere, poi, inevitabilmente, sul «morto ancora non morto», infine sul vivo cui si strappano organi, con il denaro o per «dono», ossia per «sacrificio». L’esortazione, assillante al punto da diventare coercitiva, a «donare gli organi» è l’estremo limite di una sacrificalità senza trascendenza, senza altra passione che la morte dell’altro per la vita terrena, la sopravvivenza biologica di uno per se stesso. È la fine del cristianesimo; la fine di qualsiasi possibilità di religione in Occidente. Ma anche, forse, una volta uccisa la religione, la possibilità di ricominciare da Gesù.

(Ida Magli, Gesù di Nazaret, la storia che nessuno conosce)