"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Un problema di fiducia

C'è poca o nessuna fiducia nella magistratura, ci dicono oggi. Ed è vero. Forse perché non si è ancora ben intesa la linea di confine, di demarcazione, tra norma e giustizia, tra lex e ius. Concetti niente affatto sinonimi, spiegava già l'Aquinate. «La legge non è, propriamente parlando, il diritto medesimo, ma la norma remota del diritto» (Lex non est ipsum ius, proprie loquendo, sed aliqualis ratio iuris, S.Th., II-II, q. 57, a. 1, ad 2).

Senza scomodare il dottor Azzecca-garbugli, che la legge NON sia uguale per tutti lo scriveva anche Piero Calamandrei (Processo e democrazia, 1954). «"La legge è uguale per tutti" è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria».


C'è poca o nessuna fiducia nella magistratura, dunque, oggi come oggi.

Ma, annotiamo noi, c'è anche poca o nessuna fiducia nelle istituzioni e nei politici.

Poca o nessuna fiducia nella scuola, negli insegnanti.

Poca o nessuna fiducia nei mezzi di comunicazione.

Poca o nessuna fiducia nella Chiesa e nei suoi rappresentanti, dell'Alto o del Basso clero.

Poca o nessuna fiducia nei padri e nei figli, nei commercianti, nei vicini di casa.

Come siamo arrivati a questo punto? È forse questo un altro di quei frutti avvelenati del Sessantotto che, partito con la demolizione dei vecchi schemi che fondavano l'ordine sociale, ha finito per far deragliare l'intero convoglio civile? Chissà.

«La parola fiducia più che esplicitare nasconde», scrive Francesco Varanini su Bloom! «Parla di un concetto sfuggente, dai confini particolarmente sfumati.

Fidare, fidarsi, fedele, fedeltà, fiduciario, federazione, fideiussione, fidanzamento…

In latino fiducia è astrazione dell’aggettivo fiducus. Per capire come si forma l’aggettivo possiamo guardare a due casi analoghi: da cado, caducus; da mando, ‘mastico’, manducus, ‘colui che mangia’, ‘il mangione’. Così da fido, ‘mi fido’, fiducus, ‘colui di cui mi fido’.

La fonte, l’espressione di riferimento, è in ogni caso il latino fides, astrazione dalla radice indeuropea bheidh, ‘fidarsi’. Di qui lo spagnolo , il francese foi, e tramite il francese l’inglese faith.

Il passaggio attraverso l’aggettivo fiducus avviene però solo in italiano. La difficoltà di trovare traduzioni precise nasce da questo peculiare passaggio dal latino al volgare. Ma più in generale è motivata dall’ampiezza del concetto.

Basta citare le possibili traduzioni inglesi. Belief, trust, reliance, assurance, credit, dependence, confidence. Vale la pena di soffermarsi in particolare su belief, trust, confidence.

Trust sta per ‘sicurezza’, ‘confidenza’. Ma il senso profondo dell’espressione ci è ricordato con più chiarezza da un’altra parola che condivide con trust l’origine: true. True è ‘vero’, ma nel senso di ‘fedele’, ‘degno di fiducia’. Deriva dal protogermanico trewwjaz, ‘in buona fede’, probabilmente dalla radice indeuropea dru (dereu), da cui anche tree, ‘albero’, nello specifico ‘quercia’, quindi: ‘fermo come una quercia’. Il tedesco Vertrauen, ‘fiducia’, ‘affidamento’, ‘confidenza’, ‘credito’, discende dalla stessa radice e insiste sulla stessa immagine. Possiamo tralasciare il prefisso ver e concentrarci su trauen, ‘fidarsi di qualcuno’. Anche il verbo trauen discende dalla radice dru (dereu): la fermezza, la robustezza della quercia.

Per cogliere il senso di belief, anche qui, possiamo tralasciare il prefisso be, e guardare al senso implicito in lief, che rimanda alla radice indeuropea leubh: ‘cura’, ‘desiderio’, ‘piacere’, ‘amore’. Da qui in latino libet e libido: idea di ‘piacere’ ‘essere gradito’; da qui anche il tedesco liebe e l’inglese love.

Belief significava nell’inglese delle origini ‘fiducia in Dio’, ‘cose vere per via di dottrina religiosa’; mentre faith significava ‘fiducia in una persona in base a un accordo o un impegno’. Ma quando a partire dal 1300 si prende a tradurre il latino religioso fides con faith, finché nel 1500 belief passa esclusivamente a significare ‘vero per accettazione mentale’.

Possiamo quindi citare l’espressione che in spagnolo, francese e inglese traduce nel modo meno impreciso fiducia: confianza, confiance, confidence. Espressioni derivate, come l’italiano confidenza, dal latino confidentia. Ma anche qui il senso è meno chiaro di quello che appare: si incrociano il senso del latino confidere ‘avere fiducia’, ed il senso del latino volgare fidere ‘porre fede’, da fidus, ‘fedele’. Avere fiducia -atteggiamento che confina con la speranza- è una cosa; essere fedele -a una idea già data, ad una guida- è un’altra. La confidentia è l’atteggiamento della persona confidens, ‘fermamente fiducioso’, fiducioso, potremmo dire, fino all’audacia. Confidentia ci parla di ‘fiducia’, ma anche ‘libertà eccessiva’.

Possiamo infine tornare a dire che la fiducia -modo di porsi, di atteggiarsi- rimanda ad un’antica virtù, celebrata da ogni religione, la fede. Dobbiamo anzi guardare a tre virtù che si tengono l’una con l’altra: fede, speranza e carità.

Carus -dalla base indeuropea ka, ‘piacere’, ‘desiderio’, nel senso amoroso (ritroviamo qui il senso profondo di belief)- è in latino ‘ciò che attrae’, ‘a cui si è affezionati’, ma anche ciò che è ‘di gran valore, e quindi ‘costoso’. Da carus, caritas – il cui senso si precisa nel latino ecclesiastico. Quando la classica traduzione latina della Bibbia -la Vulgata- si trova a dover restituire il senso del greco agape, evita amor -verbo di ampio senso: dal puro desiderio all’amore per il prossimo- e preferisce il meno usato caritas. Possiamo dire che non c’è fides senza caritas, non ci si può fidare se non mossi dall’amore.

La speranza ci appare ancora più strettamente connessa con la fiducia. La speranza ci parla di attesa, aspettativa di cose future. Ma la spes resta incerta, e questa incertezza mitiga l’eccesso di confidentia. Il filosofo Ernst Bloch ci ammonisce: “la speranza non è fiduciosa certezza”».

L'imperatore filosofo

Apprendiamo da Cronaca Numismatica che, «inaugurata nel 2017, dopo Adriano, Traiano e Augusto, la serie numismatica italiana dedicata agli imperatori di Roma rende omaggio a Marco Aurelio, il filosofo, nato a Roma nel 121 e salito al trono nel 161, per rimanervi fino alla morte avvenuta nell’anno 180».


«Lo fa con una “piccola”, la moneta da 10 euro in oro proof dal diametro di mm 13,85 e dal peso di 3,00 grammi a titolo di 900 millesimi».


Si tratta, leggiamo ancora, di «una moneta da collezione – a corso legale ufficialmente dal 23 giugno – realizzata su modelli del maestro Uliana Pernazza e che, coniata in mille esemplari, era disponibile al prezzo base di 160 euro. “Era” perché, vuoi per l’esiguità del contingente (uguale al conio per Augusto, mentre Adriano aveva avuto una produzione di 4000 pezzi e Traiano di 1500) e vuoi per la bellezza dell’incisione, la monetina è già esaurita presso IPZS ed e disponibile, perciò, con sovrapprezzo solo sul mercato secondario.

«Al dritto, i 10 euro in oro 2020 mostrano un dettaglio del busto dell’imperatore Marco Aurelio, volto a destra, tratto da un’opera in marmo custodita presso il Museo archeologico di Efeso, Selçuk, in Turchia. Nel giro, REPUBBLICA ITALIANA; in basso a sinistra, il nome dell’autore U. PERNAZZA.

«Dalle provincie alla capitale imperiale per il rovescio, una parziale riproduzione della statua equestre di Maro Aurelio trasferita ai Musei Capitolini di Roma dalla Piazza del Campidoglio. Nel campo a sinistra MARCVS AVRELIVS e, in verticale, anno di emissione 2020; in alto, il valore EURO 10; a destra, R, segno della Zecca di Roma.

«La celebre statua che oggi possiamo ammirare al centro della Piazza del Campidoglio è una copia fedele realizzata, sotto la supervisione di Laura Cretara e Guido Veroi, dalla Scuola dell’Arte della Medaglia e dalla Zecca di Stato».

Per saperne di più su Marco Aurelio e il suo pensiero, ricorriamo alla pregevole porzione La filosofia antico-pagana dalla celebre Storia della filosofia di Giovanni Reale e Dario Antiseri.


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Marco Aurelio , imperatore e filosofo romano, nacque nel 121 d.C.. Salito al trono quarantenne, nel 161, resse l’Impero fino alla morte, nel 180 d.C..

La sua opera filosofica, redatta in lingua greca, si intitola Ricordi e si costituisce di una serie di massime, sentenze e riflessioni, composte anche durante le dure campagne militari, che non avevano come fine quello della pubblicazione.

Marco Aurelio è l’ultima figura di rilievo che il movimento spirituale della Stoà annoveri. Con lui lo Stoicismo sale sul trono del più grande impero e si conclude. Anche in Marco Aurelio sono ben visibili tendenze eclettiche. Egli non esita, come già Seneca, ad accogliere notazioni di saggezza che vengono perfino da Epicuro, Eraclito del «tutto scorre», inedita nella Stoà, desunta molto probabilmente dallo scettico Enesidemo, il quale, come vedremo, considera lo Scetticismo come la via che porta all’Eraclitismo.

Fra gli esponenti della nuova Stoà Marco Aurelio è quello che maggiormente restringe la filosofia alla problematica morale, colorandola, non meno di Seneca e di Epitteto, di forti tinte religiose. Per mezzo millennio la Stoà aveva aiutato gli uomini a vivere con la sua dottrina morale, ben più che con la sua logica o con la sua fisica. Queste erano andate via via estenuandosi e assottigliandosi e perfino sclerotizzandosi; quella, invece, aveva continuato a rivivere e a rifiorire, perché aveva continuato a rispondere a effettivi bisogni degli uomini, immutati pur nel mutare dei tempi.

La nullità delle cose

Una delle caratteristiche del pensiero di Marco Aurelio è l’insistenza con cui viene espressa e ribadita la caducità delle cose, la loro monotonia, la loro insignificanza e la loro sostanziale nullità. Questo sentimento delle cose è ormai decisamente distante dal pensiero greco, sia dell’età classica sia del primo Ellenismo. Il mondo antico sta dissolvendosi e il Cristianesimo sta inesorabilmente conquistando gli animi. È ormai in atto la più grande rivoluzione spirituale che sta svuotando tutte quante le cose del loro antico significato. Ed è questo rivolgimento, appunto, che dà all’uomo il senso della nullità del tutto. Ma Marco Aurelio è profondamente convinto che l’antico verbo stoico sia pur sempre in grado di mostrare che le cose e la vita, al di là della loro apparente nullità, abbiano un preciso senso.

Sul piano ontologico e cosmologico è la visione panteistica dell’Uno-tutto, sorgente e foce di ogni cosa, a riscattare le singole esistenze dal non senso e dalla vanità.

Sul piano etico e antropologico, è il dovere morale che dà senso al vivere. A questo proposito Marco Aurelio finisce, in più di un punto, con l’affinare alcuni concetti dell’etica stoica fino ad avvicinarsi a concetti evangelici, anche se su basi differenti. Marco Aurelio, poi, non esita a infrangere l’ortodossia stoica, pur di garantire la distinzione fra l’uomo e le altre cose e la precisa tangenza dell’uomo con gli dei.

Una nuova antropologia

La Stoà, come sappiamo, aveva distinto, nell’uomo, il corpo dall’anima e aveva dato a questa una netta preminenza. Tuttavia la distinzione non poté mai essere radicale, perché l’anima restava pur sempre un ente materiale, un soffio caldo, ossia pneuma, e, quindi, restava della stessa natura ontologica del corpo. 

Marco Aurelio rompe questo schema, assumendo tre principi come costitutivi dell’uomo:
• il corpo, che è carne;
• l’anima, che è soffio o pneuma;
• e, superiore all’anima stessa, l’intelletto o mente (nous).

Mentre la Stoà identificava l’egemonico o principio dirigente dell’uomo (l’intelligenza) con la parte più alta dell’anima, Marco Aurelio lo pone fuori dell’anima e lo identifica con il nous, con l’intelletto.

In base a quanto abbiamo detto sopra, ben si comprende come, per Marco Aurelio, l’anima intellettiva costituisca il nostro vero io, il rifugio sicuro in cui dobbiamo ritirarci per difenderci da qualsiasi pericolo e per trovare le energie necessarie per vivere una vita degna di uomini.

L’egemonico, cioè l’anima intellettiva, che è il nostro Demone, è invincibile, se vuole. Nulla lo può ostacolare, nulla lo può piegare, nulla lo può colpire, né fuoco né ferro, né violenza di sorta, se esso non vuole. Solo il giudizio che esso emette sulle cose lo può colpire; ma allora non sono le cose che lo affliggono, ma le false opinioni che egli stesso ha prodotto. Serbato retto e incorrotto, il nous è il rifugio che dà all’uomo la pace assoluta. Già la vecchia Stoà aveva sottolineato il comune vincolo che lega tutti gli uomini, ma solo il Neostoicismo romano innalzò questo vincolo al precetto dell’amore. E in questa direzione Marco Aurelio si spinse senza riserve: «E ancora è dell’anima razionale amare il prossimo, il che è verità e umiltà».

Anche il sentimento religioso in Marco Aurelio va molto più in là di quello della vecchia Stoà. «Rendere grazie agli dei dal profondo del cuore», «avere sempre nella mente dio», «invocare gli dei», «vivere con gli dei», sono significative espressioni che ricorrono nei Ricordi, cariche di nuove valenze. Ma più di tutti indicativo, al riguardo, è il seguente pensiero: «Gli dei, o non possono nulla, o possono qualcosa. Se non possono, perché innalzi loro preghiere? Se possono, perché non li preghi di concederti di non temere né desiderare alcuna di queste cose, di non rammaricarti per alcuna di esse, anziché di ottenerla o di evitarla? Perché, comunque, se possono prestar aiuto agli uomini, debbono prestarlo pure in questo. Forse dirai “Gli dei mi hanno dato facoltà di agire a questo riguardo”. Allora non è meglio che tu ti giovi liberamente di ciò che è in tuo potere, invece di affannarti servilmente e vilmente per ciò che in tuo potere non è? E poi chi t’ha detto che gli dei non ci coadiuvano anche in ciò che è in potere nostro? Comincia a pregarli in questo senso e vedrai».

Con Marco Aurelio lo Stoicismo celebrò indubbiamente il suo più alto trionfo, in quanto, come è stato giustamente rilevato, «un imperatore, il sovrano di tutto il mondo conosciuto, si professò stoico e operò da stoico». Ma, subito dopo Marco Aurelio, lo Stoicismo iniziò il suo fatale declino, e, poche generazioni dopo, nel III secolo d.C., addirittura scomparve come corrente filosofica autonoma.

Bianco Gesù

Il reverendissimo e onorevolissimo Justin Welby, il funambolico arcivescovo di Canterbury e per grazia di Dio della comunione anglicana, ne ha combinata un'altra delle sue. Il Rabbi nato a Betlemme, il Maestro di Nazareth, non era bianco, ha fatto intendere a quei volponi della BBC.

Il Volto Santo di Manoppello, la Sacra Sindone di Torino

Lo spiega anche Wikipedia, per quel che vale, alla voce Etnia e aspetto fisico di Gesù, aspetti - si legge - "discussi a diversi livelli e discipline sin dal primo cristianesimo, sebbene il Nuovo Testamento non contenga nessuna descrizione dell'aspetto fisico di Gesù prima della sua morte e la narrativa sia generalmente indifferente alle apparenze razziali e/o etniche".

"Nel XIX secolo si svilupparono le teorie che Gesù fosse europeo, in particolare ariano, come anche le teorie che fosse un nero di origine africana. Tuttavia, come in altri casi di assegnazione razziale a personaggi biblici, queste affermazioni sono state per lo più soggettive, sulla base di stereotipi culturali e tendenze sociali, piuttosto che su un'analisi scientifica. Per due millenni è apparsa una vasta gamma di raffigurazioni artistiche di Gesù, con immagini spesso influenzate da ambienti culturali, circostanze politiche e contesti teologici. Oltre al fatto incontestato che Gesù fosse ebreo, non esiste un accordo generale degli esperti sull'etnicità di Gesù".

I Testimoni di Geova trovano risposte nella Bibbia. Letturina interessante. Riassumiamo: nessuno sa di preciso che aspetto avesse Gesù, dato che nella Bibbia non viene descritto; essendo ebreo, presumibilmente ereditò caratteristiche semitiche; è improbabile che avesse tratti particolarmente distintivi (tanto è vero che in un’occasione viaggiò in segreto dalla Galilea a Gerusalemme senza essere riconosciuto) e a quanto pare non si distingueva dai suoi discepoli (infatti, Giuda Iscariota dovette indicare chi fosse Gesù alla folla armata venuta ad arrestarlo); capelli lunghi no, barba sì; fisico forte.

Arrivati a questo punto, però, vorremmo far notare una contraddizione bella e buona, robusta e forte.

I fedeli cattolici venerano il Volto Santo di Manoppello: per alcuni studiosi e secondo certe ricostruzioni storiche e scientifiche, si tratterebbe del sudario di Cristo, del Velo della Veronica. Ci mostra una faccia maschile capellona e barbuta. L'immagine è sovrapponibile, c'è chi dice perfettamente, a quella della Sacra Sindone conservata a Torino: altra reliquia veneratissima. Secondo il professore Fanti, si tratterebbe dell'"unica «fotografia» che Gesù Cristo ci ha lasciato e che riporta i segni della sua dolorosissima Passione" (Giulio Fanti, Sindone. La scienza rafforza la fede, EMP).

"Sulla Sindone si possono osservare diverse colature di sangue: quelle dovute all’infissione dei chiodi durante la crocifissione, le più di 370 ferite prodotte dai flagelli, la ferita di sangue del costato prodotta dalla lancia del centurione romano per verificare la morte del Crocifisso e le ferite sulla fronte, tempie e nuca dovuta all’incoronazione di spine". Quanto alla sua formazione, "fra le ipotesi che sembrano più attendibili c’è quella connessa ad un forte campo elettrico che genera il cosiddetto effetto corona" (Giulio Fanti, Perché la Sindone è autentica, Università di Padova)

Allora, delle due l'una: o queste figure rappresentano veramente l'immagine del Cristo, che quindi appare agli occhi di tutti per quello che è, cioè un maschio caucasico, bianco se non bianchissimo (non lo possiamo dire con precisione osservando i sacri lenzuoli) magari con la pelle leggermente abbronzata ma di sicuro non africano, oppure qui c'è qualcuno che sta raccontando un sacco di palle. Da una parte ovvero dall'altra.

Pietre che rotolano

Dunque i Rolling Stones vogliono impedire a Trump di usare nei comizi il loro brano You Can't Always Get What You Want. Dunque siamo all'arteriosclerosi, alla vecchiezza ideale, al rincoglionimento cronico, al rinnegamento dei loro valori fondativi. Lasciateci spiegare perché.

Donald Trump e Mick Jagger

Primo: c'è gente che predica il rock come libertà. Libertà, liberazione, anarchia, balle che girano, pietre che rotolano. Che bello, che aria pura. Poi scopri che è tutta gente legata per filo e per segno alle regole, alle sbarre, ai limiti, ai contratti, alle clausole, alle noticine, agli avvocati, ai diritti, al "ti denuncio"... Sì sì, tutto stralegale: secondo Deadline, la campagna di Trump ha un'autorizzazione BMI (Broadcast Music, Inc., una delle cinque principali organizzazioni USA di licenze musicali) per attingere da un patrimonio di 15 milioni di canzoni da poter eseguire in pubblico, però se un artista ha qualcosa da obiettare bisogna proprio escluderlo. Ottimo. Ma da artisti figli dei Sessanta, e dei Settanta, che criticano i vincoli, i limiti e le restrizioni, ne converrete, non è granché. Predicano bene e razzolano male. Peggio dei preti.

Secondo: noi abbiamo qui la convinzione che un'opera d'arte, una volta congedata dal suo creatore e pubblicata, appartenga alla collettività (salvi, naturalmente, i diritti d'autore). Può far piacere oppure meno che, per dire, Il diario di Anna Frank venga letto con commozione a un incontro per fare memoria della Shoah o con altri scopi, magari dileggiatori, a un raduno neonazista. Eppure nessuno può impedire neppure a questi di prendere in mano un tale libro e di leggerlo. Per una canzone dovrebbe essere lo stesso. Fa parte di un patrimonio artistico, spirituale, che è di tutti. Per quali scopi io l'ascolti, quali sentimenti mi susciti (magari, come accade per le poesie, e i testi musicali sono anche poetici, totalmente differenti da quelli di chi l'ha scritta) non è più materia né competenza dell'autore. Vi sta antipatico Trump? Legittimo. Ma la vostra musica, questo deve essere chiaro, la possono ascoltare gli anti-Trump e pure i suoi sostenitori più sfegatati. Non sta a voi - che l'avete incisa, composta e resa pubblica, cioè di tutti - decidere in merito.

Terzo: abbiamo l'impressione che non sia in discussione un fatto musicale, artistico. No, qui siamo alla politichetta da avanspettacolo, alla logica dello schieramento, al gioco infantile di chi è buono e chi è cattivo, al fatto che un nutrito gruppo di artisti (gli Stones come i Panic! At The Disco per High Hopes, Neil Young per Rockin' in the Free World, Michael Stipe per It's the End of the World), liberissimi ovviamente di avere le loro opinioni politiche e di esprimerle, si siano però messi in mente di entrare di peso in campagna elettorale, di favorire un candidato piuttosto che un altro. Bisognerebbe avere il coraggio di dirlo pubblicamente, allora. Senza vergogna. Come fanno i giornali americani quando praticano l'endorsement. "Votiamo democratico. Ci piace quel mezzo calzino bollito di Biden. Appoggiamo le sue idee debolucce. Gli versiamo anche qualche dollarino per sostenere la sua campagna elettorale sperando poi di ottenere qualcosa in cambio se dovesse accomodarsi sulla poltrona dello Studio Ovale: un titolo honoris causa che non si nega più a nessuno, una medaglietta al valore, un concertino alla Casa Bianca. Ah no, Casa Bianca non si può più dire, è razzista. La chiameremo prossimamente Casa Arcobaleno. Anche la L'Oreal ha del resto deciso di non fare propaganda alle creme sbiancanti per la pelle perché suona come un'offesa se uno ce l'ha brunita".

Ecco, un po' di sana chiarezza. Come Brendon Urie dei Panic! At The Disco che nei confronti del presidente americano Donald Trump (piaccia o no, è lui in carica) ha twittato con la consueta buona educazione: "Vaffanculo".

Che poi, a dirla tutta, l'abbondante e rabbiosa reazione avversa di questi musicisti anarcoidi (ex) e libertari (ex), molto a loro agio tra incartamenti e firme in calce e studi legali e clausole di salvaguardia, non è detto che raggiunga il risultato auspicato. Può far accadere, com'è molto probabile, esattamente il contrario.

Metafisica scientifica

Il filosofo britannico Hugh Mellor, deceduto il 21 giugno scorso a 81 anni, è stato uno degli ultimi rappresentanti della grande tradizione filosofica dell'Università di Cambridge, dove ha trascorso tutta la sua carriera di insegnante. In questo modo lo ricorda il quotidiano francese Le Monde.

Hugh Mellor nel settembre 2015

Mellor, scrive Pascal Engel, "si è divertito a compilare e diffondere su Internet un elenco delle cause di morte dei filosofi a seconda della loro dottrina. Così, ha fatto morire Spinoza per "abuso di sostanze" e ha attribuito a se stesso la causa che si adattava al suo tema preferito: "Per caso" ... David Mellor è stato uno degli ultimi rappresentanti della grande tradizione della filosofia di Cambridge, quella di William Whewell, di Bertrand Russell, di John McTaggart, di F. P. Ramsey, di G. E. Moore e di C. D. Broad, che hanno incarnato all'inizio del XX secolo la filosofia analitica.

"Nato il 10 luglio 1938 a Londra, Mellor ha studiato chimica all'Università del Minnesota prima di presentare una tesi di filosofia a Cambridge e perseguire lì tutta la sua carriera. Non ha mai affrontato i problemi della filosofia della scienza - quelli di induzione, causalità, probabilità e il rapporto tra teoria ed esperienza - senza cercare di sviluppare le loro conseguenze metafisiche.

"Per lui, come per gli Australiani - David Armstrong - e gli Americani - David Lewis - la metafisica non è una costruzione speculativa ma, proprio come la scienza, un'indagine su ciò che è reale, anche se questo reale non si limita affatto, contrariamente a quello che sostengono gli empiristi e i positivisti, all'esperienza".

La scienza inseparabile dalle discipline umanistiche

"Hugh Mellor ha sviluppato questo realismo scientifico in tutte le aree che ha affrontato", si legge ancora sul Monde. "In primo luogo, quella delle probabilità, dove espone una concezione propensionista che associa le probabilità a delle disposizioni fisiche (The Matter of Chance, Cambridge University Press, 1971). Poi quella della natura del tempo, dove difende, contro McTaggart, la realtà del tempo (Real Time, Routledge, Londra, 1981, edizione riveduta 1998) che è costituita da relazioni di anteriorità, di simultaneità e di posteriorità, e non non da un passato, presente e futuro.

"Quindi nel campo della causalità (The Facts of Causation, Routledge, London, 1995, nessuno di questi tre libri è stato tradotto), dove sostiene che le cause non sono relazioni tra eventi, ma fatti, e nella teoria delle decisioni, proponendo una concezione oggettivista della scelta razionale. Infine e soprattutto nella metafisica, dove difende un realismo degli universali e delle disposizioni così come un materialismo senza compromessi (Matters of Metaphysics, 1991, Mind, Meaning and Reality, 2012, entrambi della Cambridge University Press, non tradotti)".

Italia, 27 giugno 1980

È da almeno trent’anni che mi occupo, per il mio lavoro di giornalista, della cosiddetta strage di Ustica: il DC-9 dell’Itavia esploso con le sue 81 persone a bordo la sera del 27 giugno 1980. Quelle immagini, i corpi in mare recuperati, e i rottami dell’aereo con certosina pazienza ricostruito, le avrò viste mille volte, nelle salette di montaggio. Ma c’è un’immagine che ogni volta mi emoziona e commuove. È quella di un bambolotto, avvolto in un cellophane: chissà di chi; su quell’aereo c’erano tanti bambini: Daniela, Tiziana, Alessandra Giovanni, Giuliana, Alessandro, Nicola, Maria Grazia, Sebastiano, Francesco, Antonella, Giuseppe, Vincenzo, Giacomo… tutti insieme non fanno cent’anni. Oppure era il regalo per qualcuno in attesa a Palermo, e che da quella sera del 27 giugno 1980 attende verità e giustizia…

C’è poi un’altra immagine, con la quale chiudo quasi sempre i miei servizi, a visiva memoria: sono i giubbotti-salvagente gialli, allineati; ognuno corrisponde a una persona, a una storia, a degli amori, dei sogni, delle vite insomma: sono “solo” 81, e non finiscono mai…

I giubbotti-salvagente della strage

Che cosa sappiamo di quella strage? Sappiamo che il DC-9, che a quell’ora non doveva essere lì; e invece c’era, per via di un non previsto ritardo; e si trova al centro di un episodio di guerra aerea, guerra di fatto e non dichiarata, dice il giudice Rosario Priore.

Sappiamo che quella notte, in volo c’erano molti altri aerei, francesi, libici, italiani, di altre nazionalità; e questo lo dice la NATO.

Sappiamo che non è vero che la base militare francese di Solenzara, in Corsica era chiusa dalle 5 del pomeriggio, come un qualunque ufficio postale, ma era al centro di una intensa attività, aerei in decollo e atterraggio; sappiamo che in quella porzione di Mediterraneo c’era sicuramente una portaerei francese. 

Sappiamo che per non aver saputo garantire la sicurezza dei voli è stato condannato il ministero dei trasporti; e sappiamo che per aver ostacolato il raggiungimento della verità è stato condannato il ministero della difesa. 

Sappiamo che la strage, come altre, è “segnata” da depistaggi, tradimenti, prove e registrazioni cancellate, segreti di stato, interferenze, prescrizioni che salvano dalla condanna funzionari ed ufficiali coinvolti nell’azione di occultamento delle prove.

Ci sono poi le parole del presidente della Repubblica Mattarella, il messaggio consegnato ai parenti delle vittime della strage di Ustica. Parole su cui dovremmo riflettere più di quanto non si sia fatto.

Dice, il Presidente, che “le democrazie si fondano su valori e diritti che non possono sottrarsi al criterio della verità”. Verità, cioè: conoscenza. E auspica, testuale, che “si riescano a rimuovere le opacità purtroppo persistenti”. Proprio così: “Opacità purtroppo persistenti”. Persistenti: significa un qualcosa che permane costantemente nel tempo, si prolunga oltre il previsto, comunque per un lungo periodo. Questo dice il presidente Mattarella; e ognuno ora ne tiri la giusta somma. Buona giornata, e buona fortuna.

Sappiamo che il presidente Francesco Cossiga, a lungo sostenitore della bomba a bordo e della teoria dell’attentato, poi dice che il DC-9 è stato abbattuto, “per errore”, dai francesi.

Da qualche mese sono stati pubblicati i diari che l’ambasciatore Ludovico Ortona, capo ufficio stampa al Quirinale quando l’“inquilino” era Cossiga. Un grosso volume di oltre seicento pagine, La svolta di Francesco Cossiga, Aragno editore. È il diario di un settennato, quello che va dal 1985 al 1992. Arrivo alla pagina 251, 30 settembre 1989:

…il Presidente si apre oggi un po’ di più su Ustica, e ci dice che ormai se, come sembra, si riduce il campo delle responsabilità a tre paesi che avrebbero lanciato il missile, gli USA, la Francia o la Libia a suo avviso non si può che nutrire sospetti sui francesi. Infatti, certamente gli americani con il loro moralismo puritano avrebbero tirato fuori qualcosa in nove anni. Dei libici non gli pare credibile. Invece nutre sospetti su come operano i francesi e su come saprebbero mantenere il segreto….

Confidenze fatte, ripeto, il 30 settembre 1989. A Parigi, nel frattempo sono cambiate tante cose. Ma i segreti sanno conservarli sempre molto bene.

(Valter Vecellio, VNY)

Su casta, costi, privilegi, vitalizi

Al Presidente del Senato della Repubblica
Sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati

Al Presidente della Camera dei Deputati
On. Roberto Fico

Carissima Presidente, carissimo Presidente,

la lettura dell’Agenzia Ansa del 28 giugno 2018, ore 14,29: “I vitalizi non sono diritti acquisiti, ma privilegi rubati. I privilegi rubati non possono esistere nel nostro governo. Lo scrive su Twitter il Ministro del Lavoro e capo politico del M5S, Luigi Di Maio”, ha prodotto in me molto sconcerto e tanta amarezza. Per giorni ho sperato ingenuamente che ci fosse qualche commento di autorevoli intellettuali o esponenti politici che cercassero di difendere l’impegno politico, l’attività parlamentare svolta in Italia da decine di migliaia di donne e uomini. Perché questa incontenibile voglia di delegittimare che porta soltanto alla perdita dell’identità nazionale?

Una vignetta di Sergio Staino sui vitalizi parlamentari

Mi sono messo a cercare tra libri, documenti, resoconti dei dibattiti parlamentari alla Costituente – in particolare sugli articoli, 49, 67, 68, 69. E mi sono ritrovato tra le mani un libro pubblicato quasi cinquant’anni fa che sin dal titolo mi ha riportato mestamente ai nostri giorni: Il ventennio della pacchia. È un libro concepito per screditare la storia della Repubblica, per vilipendere uomini e donne protagonisti della storia democratica del nostro paese. È un libro da non leggere se non fosse un documento utile per ricostruire la storia dell’avversione al Parlamento, ai partiti, ai sindacati negli anni della Repubblica, dal 1946 ad oggi. Nell’ormai lontano 1971, i due autori di questo libro, edito dalla casa editrice Il Borghese, presero di mira i “privilegi” ottenuti da alcuni parlamentari italiani in virtù dei loro trascorsi politici. Con puntiglio giornalistico davano le cifre delle pensioni percepite da chi aveva trascorso in galera o al confino una parte della propria vita in seguito a condanne inflitte dal Tribunale speciale fascista o dopo le inappellabili disposizioni dei prefetti. Tra i “privilegiati” citavano Luigi Longo, Maria Baroncini, Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro. Nomi tra i tanti, ma contro questi quattro dirigenti politici si puntava l’indice per denunciare prebende e favori goduti sulle spalle degli italiani. Longo, era allora segretario del Partito comunista italiano e sui suoi trascorsi di dirigente antifascista e di capo della Resistenza non occorre che mi soffermi. Chi è stata Maria Baroncini lo sapremo meglio leggendo le sue memorie, recuperate nei mesi scorsi nell’archivio di famiglia. Verranno pubblicate tra qualche settimana e qui mi basta dire che fu privata della libertà per undici anni a causa della sua avversione al regime fascista. Terracini – voglio ricordarlo – aveva subito una condanna a 22 anni, 9 mesi e 5 giorni di reclusione (più una multa di 11.200 lire, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e tre anni di vigilanza speciale) nel processo che condannò Gramsci a più di vent’anni di prigione. Ebbe la fortuna di scontare qualche anno in meno: tornò in libertà dopo 18 anni, lasciando l’isola di Ventotene nell’agosto del 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini. Mauro Scoccimarro ne aveva patiti altrettanti; anche lui come Longo, Baroncini e Terracini, riacquistò la libertà sotto il Governo Badoglio. Divenne ministro delle Finanze e negli archivi del Partito comunista italiano si conserva una sua lettera in cui – da ministro – chiede un anticipo sullo stipendio: gli occorrevano degli occhiali che sostituissero quelli ripetutamente riparati e ormai inservibili che utilizzava da troppi anni. E il partito provvide. Quali accuse si muovevano a queste persone cinquant’anni addietro? Di aver ottenuto un privilegio, cioè una pensione che teneva conto degli anni trascorsi in stato di prigionia. Mi sono chiesto come si è regolata la Repubblica Sudafricana nel caso di Nelson Mandela, che ha scontato 27 anni di carcere. In ogni caso, non ho dubbi che la Repubblica italiana abbia fatto bene a risarcire i perseguitati politici che furono peraltro protagonisti della rinascita del paese e della costruzione della democrazia.

Non intendo replicare alla campagna contro i “privilegi” dei parlamentari e fare conti su pensioni e vitalizi. Né tantomeno voglio giustificare la pensione che percepì il senatore Terracini, Presidente dell’Assemblea costituente e firmatario della Costituzione italiana promulgata settant’anni fa. Mi preme difendere le donne e gli uomini che hanno fatto la storia della Repubblica. Mi sono convinto che occorre reagire energicamente, mentre le risposte che si danno a chi vilipende le istituzioni e denigra la storia della Repubblica mi paiono del tutto inadeguate. Sono dell’idea che se non siamo stati in grado di onorare degnamente i padri e le madri della Repubblica abbiamo il dovere di rimediare. Quando si riduce la storia repubblicana a malcostume, malaffare e soprusi perpetrati dalle sue classi dirigenti abbiamo il dovere di reagire. Io di certo mi propongo di farlo fermamente.

Se la colpa è dell’assenza di un Pantheon condiviso, facciamolo questo monumento dedicato alla storia della Repubblica. Non dico un sacrario in pietra o in metallo, ma un moderno complesso monumentale costruito con i mezzi più moderni, tecnologicamente più avanzati, capace di raccontare la storia del nostro paese, pensando alle giovani generazioni, a chi la storia d’Italia non la conosce e a chi ha voglia di approfondirla. Raccontiamola questa storia, così ricca, avvincente e tragica attraverso un museo multimediale che ospiti i documenti, i filmati, le immagini, che ci restituisca i volti degli uomini e delle donne che hanno fatto la storia della Repubblica. Sarebbe un efficace antidoto contro le fandonie e i tentativi persistenti di ridurre l’impegno politico all’immagine falsa della “casta” che si è appropriata di potere e privilegi.

In occasione del centocinquantesimo dell’Unità abbiamo assistito a un dibattito pubblico sulla storia italiana che ha coinvolto milioni di persone nelle scuole, nelle piazze, nei teatri, nelle università. È stato anche merito del Presidente Giorgio Napolitano se si è giunti a una mobilitazione di massa che ci ha aiutato a ripensare la nostra storia e la nostra identità. Nel 2011 ho provato a fare la mia parte, prodigandomi per la realizzazione a Roma di una mostra sulla storia del Pci – di cui ricorreva il novantesimo anniversario della fondazione – che è stata visitata da decine di migliaia di giovani e il cui successo ci ha spinto ad allestirla anche a Livorno, Genova, Milano, Bologna, senza avere la possibilità di esaudire le richieste venute da numerose altre città. Non volevamo celebrare un partito; abbiamo voluto soltanto raccontare un pezzo di storia del paese, ben sapendo che la storia di ogni partito, di ogni singola donna e singolo uomo, che abbiano concorso alla costruzione della democrazia merita di essere raccontata degnamente.

Come possiamo non sentire il dovere di contrapporre alle menzogne sulla “casta” la storia dei partiti di massa che hanno costruito la democrazia di questo paese, pezzo per pezzo, fin dal suo architrave costituzionale? Nel Parlamento, nei consigli provinciali e nei consigli comunali, nelle sezioni, nelle piazze di tutta Italia i partiti di massa hanno costruito e consolidato la democrazia giorno dopo giorno. Hanno reso dirigenti i contadini, gli operai, gli impiegati, i ferrovieri. Dal 1945 in avanti non più soltanto i grandi proprietari terrieri o gli industriali hanno avuto la possibilità di dedicarsi alle sorti del paese. E l’impegno politico è stato concepito da un incalcolabile numero di persone come missione, sacrificio degli affetti, rinuncia alla vita normale, abnegazione spesso totale.

Per i dirigenti politici, la politica è stata anche un’immane fatica. Andrebbero conteggiati – e so bene che sarebbe un calcolo anche macabro – i dirigenti politici e sindacali schiantati da un malore mentre parlavano in pubblici comizi o mentre adempivano al loro dovere. È il caso di Giuseppe Di Vittorio, morto a Lecco dopo avere inaugurato una nuova sede della Camera del lavoro nel novembre del 1957 o di Enrico Berlinguer che riuscì a concludere in fin di vita il suo comizio a Padova nel giugno del 1984.

C’è da raccontare la storia tragica di questo paese e i sacrifici della sua classe dirigente. Altro che casta. Quanti sono i dirigenti politici che hanno perduto o rischiato la vita? A quanti politici non è bastata la scorta? Quanti hanno vissuto sotto l’incubo di agguati? Quanti hanno dovuto difendersi senza mezzi adeguati? Girolamo Li Causi, anche lui per lunghi anni prigioniero di Mussolini, da deputato siciliano e da segretario regionale del Pci aveva rischiato la vita in più occasioni, permanentemente vittima di minacce da parte della mafia. Il suo partito – pur a corto di strumenti idonei – doveva provvedere anche alla sua protezione. L’eredità di Li Causi fu raccolta da Pio La Torre ucciso in un agguato mafioso nell’aprile del 1982. Accanto ai giudici che hanno perso la vita lottando contro la mafia, vanno ricordati i dirigenti politici e sindacali che hanno subito la stessa sorte. Va onorata la memoria di Pier Santi Mattarella e quella di molte centinaia di dirigenti sindacali e di partito uccisi prima e dopo la strage di Portella della Ginestra. Abbiamo celebrato Aldo Moro nel centenario della sua nascita e lo stiamo onorando nel quarantennale della sua morte. Ma la storia tragica della Repubblica la si può intendere appieno soltanto ricordando accanto a lui le centinaia di vittime del terrorismo: poliziotti, carabinieri, giudici, docenti universitari, giornalisti, dirigenti sindacali e politici. Penso che le giovani generazioni debbano sapere per quali ideali sono morti Guido Rossa, Roberto Ruffilli, Ezio Tarantelli.

Nel giugno del 1945, un anno prima che nascesse la Repubblica, il Parlamento italiano sentì il dovere di ricordare Giovanni Amendola, Antonio Gramsci e Giacomo Matteotti, i tre deputati vittime della persecuzione fascista: un liberale, un comunista, un socialista. A loro dedicò quei tre busti posti nel corridoio di Montecitorio, uno dei pochi luoghi destinati a ricordare i padri dell’Italia unita. C’erano stati altri deputati decaduti con le leggi eccezionali fasciste del novembre del 1926 che non videro l’Italia liberata dalla tirannide. Bruno Buozzi era stato ammazzato alla vigilia della liberazione di Roma dai tedeschi in ritirata. Filippo Turati era morto esule in Francia nel 1932. Come lui, il suo compagno di lotte Claudio Treves. Nel 1945, dopo la Liberazione, l’Italia aveva voglia di guardare avanti. La memoria era fresca. Eppure non si poteva iniziare senza ricordare il sacrificio dei dirigenti politici che avevano combattuto per una nuova Italia. Non si poteva cominciare senza ricordare Carlo e Nello Rosselli, Giame Pintor, Eugenio Curiel – che Berlinguer volle citare nel suo ultimo comizio a Padova – e le migliaia di combattenti (studenti, operai, intellettuali, staffette) che diedero la vita nella speranza di vedere nascere un Paese democratico e finalmente libero.

Con l’elezione dell’Assemblea Costituente, il ritorno alla vita politica non fu la restaurazione del vecchio ordine liberale. Per la prima volta nell’aula di Montecitorio trovarono posto le donne e tantissimi giovani. Accanto ai vecchi antifascisti, i lavori della costituente furono animati da giovanissimi deputati, poco più che ventenni. Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Renzo Laconi dialogarono con De Gasperi, Togliatti, Nenni che avevano alle spalle vent’anni di traversie. Intanto, i partiti di massa e i sindacati formavano le nuove classi dirigenti che avrebbero animato la vita politica nei decenni successivi. È una storia che non si può proseguire cancellando la memoria e accettando una ricostruzione risibile e offensiva.

La mia proposta non vuole essere una provocazione. Ritengo che una mostra permanente sulla storia della Repubblica sia l’unico rimedio alle sciocchezze che rischiano di dar vita a un nuovo senso comune figlio della volgarità e dell’ignoranza. Ritengo che dobbiamo impedire il dilagare di questa voglia di colpire il Parlamento e di delegittimare la politica. Di fronte a ciò non si può rimanere silenziosi!

Mi scuso molto per il tempo che ho sottratto al vostro alto impegno istituzionale.

Con vive cordialità

Sen. Ugo Sposetti

Roma, 19 luglio 2018

I soliti noti, le solite balle

Come volevasi dimostrare.

Si riuniscono sotto lo slogan black lives matter ("le vite dei neri contano") e la narrazione dominante riporta che il problema è il razzismo, soprattutto il "razzismo sistemico", qualunque cosa voglia dire (le parole contano). Eppure, guarda un po', tra i manifestanti di questo mese, soltanto uno su sei è un nero americano, mentre la maggioranza è formata da bianchi, secondo un'analisi del Pew Research Center.

Nonostante le recenti proteste e rivolte siano state focalizzate sulle tensioni razziali con le forze dell'ordine, soltanto il 17% dei manifestanti era nero, mentre il 46% era bianco, il 22% era ispanico e l'8% era asiatico, evidenzia la ricerca.

Black Lives Matter? Manifestante bianca
inveisce contro un poliziotto nero

I dati rivelano che i neri americani non sono il gruppo di minoranza maggiormente rappresentato nelle proteste.

I risultati dell'analisi del Pew Research Center

Manco a dirlo, i manifestanti sono poi in gran parte sostenitori del partito Democratico. Quasi quattro manifesatnti su cinque hanno dichiarato di essere Democratici o elettori Democratici. Meno del 17% dei manifestanti ha dichiarato di essere Repubblicano.

Alle proteste di Seattle, Washington, Portland nell'Oregon, Washington e New York hanno spadroneggiato membri Antifa e attivisti del movimento Black Lives Matter. Duranti recenti scontri, una donna bianca è stata vista urlare e inveire nei confronti di due poliziotti neri.

C'è bisogno di aggiungere altro per quella che si rivela essere la solita strumentalizzazione?

L'Italia formattata

Esattamente trent'anni fa Vittorio Messori pubblicava una biografia del beato Francesco Faà di Bruno, nella quale si attaccava frontalmente il mito risorgimentale: Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, Edizioni Paoline, Milano 1990.

"Le polemiche sorte allora furono, a dir poco, roventi" scrive Alberto Leoni nella Presentazione a La rivoluzione italiana di Patrick Keyes O'Clery, in un paragrafetto che suona significativo fin dal titolo: "L'identità nazionale oggi: miti e revisioni". "Molte riprendevano un vecchio argomento anticlericale, ovvero la presunta estraneità dei cattolici italiani rispetto allo Stato nazionale. Ciò che apparve chiaro, da subito, fu che non era permessa la minima revisione storica del Risorgimento. Parve, insomma, che il fattore tempo, anziché consentire la serenità della discussione, favorisse sempre l’intangibilità di «dogmi» divenuti tali solo per il fatto di non essere stati mai sottoposti a seria revisione storica: «parlare male di Garibaldi» non era ancora permesso".

Il Monumento Nazionale Battaglia di Castelfidardo

Ecco, "tra le tante reazioni al libro di Messori", nota sempre Leoni, "ve ne fu una sostanzialmente corretta e umanamente simpatica: Indro Montanelli affermò che l’unica epopea nazionale italiana era quella risorgimentale, e che era un errore distruggerla con furore iconoclasta. Detto altrimenti, pur riconoscendone limiti e storture, la mistica di bersaglieri e garibaldini era l’unica che potesse fare da collante a una nazione che sventola il tricolore solo in concomitanza con le imprese della nazionale di calcio.

"Ora, è giudizio comunemente accettato che l’8 settembre 1943 abbia significato la finis Italiae. L’esito disastroso della guerra, la fuga del re, lo sbandamento di quell’esercito che era stato al centro della politica nazionale dalla Prima guerra d’indipendenza in poi, la spartizione feroce della tradizione garibaldina tra i resistenti socialcomunisti e i fascisti di Salò, hanno provocato proprio quella dissoluzione dell’epopea risorgimentale stigmatizzata da Montanelli.

"Gli effetti non furono immediati, poiché nel dopoguerra, almeno fino al Sessantotto, quella tradizione resisteva ancora in molte forme. Il traduttore dell’opera qui presentata è, in certo senso, figlio di questo milieu culturale, dove le scuole elementari erano intitolate alle medaglie d’oro e il Corriere dei piccoli pubblicava racconti, giochi e articoli di argomento risorgimentale o comunque legati alla Grande Guerra. Ricordo ancora che, durante l’esame di quinta elementare, anno 1968, mi vennero chiesti i nomi dei triumviri della Repubblica romana e dovetti cantare l’inizio del «Va’ pensiero». Anche la memorialistica dei reduci dell’ultimo conflitto era diffusa: si pensi solo a Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi, o al magnifico El Alamein 1933-1962 di Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo, mio livre de chevet della prima adolescenza.

"Con gli anni Settanta lo smarrimento dell’identità nazionale si è diffuso sempre più e non poteva certo essere arginato da un’adesione sentimentale e retorica: questo enorme spaesamento esistenziale, individuale e collettivo, che forse nessuna nazione al mondo patisce in egual misura è un’inquietante minaccia sull’Italia, perché la natura non tollera vuoti. Se tale affermazione può apparire temeraria, possiamo provare a confrontare la vitalità della nostra tradizione storica con quella di altre nazioni che si sono formate «col ferro e col sangue». Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e più recentemente, la Spagna, pur essendo passate attraverso guerre civili spaventose hanno avuto il coraggio di rivedere la propria storia e giungere a una riconciliazione nazionale muovendo dal dato più emotivamente significativo: riconoscere, se non le ragioni, almeno il valore del nemico sconfitto.

Impressionante, a questo proposito, è il confronto col mausoleo dei caduti di Castelfidardo. Costruito nel 1910, il sacrario è decisamento brutto, isolato e negletto, e vi sono scritti solo i nomi dei caduti dell’esercito piemontese: per i pontifici, come si leggerà in questo volume, ci fu solo la fossa comune e un tentativo di oblio. Ciò che è mancato, in questo come in altri casi, è proprio il riconoscimento cavalleresco del valore del nemico, primo passo per tentare di comprenderne le ragioni. Borbonici e pontifici, invece, sembrano essere «spersone», per usare un linguaggio orwelliano, ostacoli meramente materiali, quasi inconsapevoli, spazzati via da eroi e statisti che, all’opposto, hanno volti e biografie ben definite. La persuasione è che i vincitori della guerra risorgimentale abbiano compiuto una damnatio memoriae degli sconfitti, ergendosi a rappresentanti dell’unica Italia possibile: la propria. Il disastro dell’8 settembre e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta-Settanta ha, tuttavia, annegato nella dimenticanza anche i vincitori, e distrutto quel modello d’Italia risultante dal processo unitario: la nostra nazione non ha più un passato significativo, o, per usare un paragone corrente, l’«hard disk» del Pc Italia è ormai del tutto formattato".

Oggi più che mai.

Profumo di nichilismo

Il profumo del nichilismo s'intitola un libro di Luigi Iannone, edito alcuni anni fa presso Solfanelli (prefazione di Alain de Benoist). Questa intervista all'autore merita una rilettura.

Dottor Iannone, come va inteso il titolo del suo libro, Il profumo del nichilismo?

In senso generale, quando parliamo di nichilismo ci riferiamo ad una idea filosofica ricorrente che è quella dell’inesistenza dell’assoluto (o dell’Essere). In questo libro, diversamente dai precedenti, faccio riferimento alle ricadute sociali e ai pericoli di una simile concezione sulla vita di tutti i giorni: la cieca fiducia nella scienza, la colonizzazione di un immaginario consumistico, una visione materialistica ed utilitaristica, sono tematiche che toccano ognuno di noi e dalle quali non sappiamo in alcun modo sottrarci.

Damien Hirst con la sua opera "For the love of God"

Il processo nichilistico è l’inevitabile conseguenza della civilizzazione (come sembra trasparire da pag.22)?

Non so se il processo nichilistico sia una conseguenza inevitabile di quella che comunemente definiamo civilizzazione. Di certo si compenetrano a vicenda. Dietro il diritto alla felicità che è l’idea fondante del nostro tempo si celano contraddizioni enormi che non riusciamo e, forse, non possiamo sciogliere.

Come spiega l’immenso spazio concesso – “con autocompiacimento” (cfr. pag.22) - dagli organi di informazione alle brutture contemporanee?

Lo spiego con il fatto che la qualità si confonde con la quantità, il valore artistico con quello economico, la bellezza con il kitsch, e così via. Piero della Francesca, la Commedia di Dante, i Cantos di Pound, le opere di Michelangelo o i versi di Leopardi richiedono un approccio spirituale oltre che uno sforzo culturale; il dito medio di Cattelan o il teschio con diamanti di Damien Hirst non richiedono alcunché per la loro comprensione ma mobilitano folle immense di visitatori, riviste specializzate, quotidiani popolari, tv e critici d’arte. Lo stesso discorso può essere fatto per un atto di una nobiltà unica come la beneficenza che rimanda ad una cultura del dono oramai sparita e che invece subisce un uso strumentale da parte di chi vuole promuovere, grazie a questo atto, la sua immagine pubblica.

Se lei dovesse scegliere – parafrasando l’“abile sofisma retorico” (pag.24) di Maurizio Ferraris – “tra il vivere fra 300 anni o 300 anni fa”, come risponderebbe?

Probabilmente sceglierei di vivere fra 300 anni perché forse la scienza medica avrà scoperto nuovi farmaci e debellato tremende malattie. Ma io parlo di abile sofisma retorico perché sono dei tranelli linguistici ai quali la filosofia - da Socrate in poi - ci ha abituato. La questione da porre è invece un’altra: siamo certi che inseguire il progresso scientifico ed economico senza correlarlo ad una crescita spirituale sia l’unica via d’uscita? Che il nostro rapporto con il sacro si manifesti dai frequenti applausi ai funerali o in chiesa, oppure dagli “ola” da stadio per il Papa di turno? Che la nostra sete di conoscenza si qualifichi solo per l’ultimo Tablet comprato o per le molteplici funzioni del telefono cellulare? Che l’etica debba definitivamente abdicare di fronte alla biotecnologia? Che per garantire le esigenze dell’uomo si possa deturpare la natura e il paesaggio?

Quali sono gli “storici limiti” (pag.24) da cui l’umanità si è affrancata grazie alla civilizzazione?

Due sono enormi, e sotto gli occhi di tutti. L’azzeramento del tempo e dello spazio è un fatto nuovo nella storia dell’umanità. Oggi raggiungiamo in meno di un’ora luoghi distanti centinaia di chilometri, oppure siamo in video-conferenza con l’altro capo del mondo. Inoltre, la comunicazione globale ci garantisce un flusso continuo ed impetuoso di informazioni e di immagini. E tutto ciò è un bene. Peccato che diventi sempre più complicato discernere ciò che è utile da ciò che è superfluo e, peggio ancora, ciò che viene lanciato nell’agone mediatico per far confondere le acque o ciò che aiuti una comprensione oggettiva dei fatti e delle idee.

A che cosa allude quando scrive che “l'irruzione definitiva della tecnica in ogni anfratto della vita sociale ci ha privato di molte barriere difensive anche in campo etico” (pag.38)?

Il fatto che l’uomo moderno possa superare molte barriere grazie ai progressi della scienza è elemento positivo e quindi non secondario; tuttavia, in passato, la comunità, le religioni, le ideologie, lo Stato e ogni altra organizzazione sociale, politica o religiosa fungeva da ammortizzatore e difendeva il singolo individuo dalle fughe in avanti. Oggi, questi limiti paiono sempre più sfuggenti. Non si tratta di chiuderci al futuro anche perché è operazione inutile. Ma almeno decidere cosa sia giusto mantenere e cosa lasciare alle nostre spalle.

Com’è concepibile un “umanesimo senza uomo” (cfr. pag.73)?

Definisco “umanesimo senza uomo” il nostro modello di civiltà che fa della libertà e della democrazia i suoi totem, ma al contempo moltiplica regole, norme e leggi in ogni campo e per ogni aspetto del vivere individuale e sociale. Siamo continuamente sottoposti a bombardamenti mediatici che ci invitano più o meno direttamente ad essere più snelli, ad avere un determinato stile di vita, a pensare in un certo modo, a tener fuori la sfera del sacro dalla nostra vita, a credere ciecamente nel capitalismo anche quando le sue crisi provocano effetti devastanti quanto delle guerre, eccetera. Insomma, un modello costruito intorno ad un’idea filosofica dell’uomo e non sull’uomo concreto.

È possibile sottrarsi al “profumo del nichilismo”?

Ho poco fiducia che questo possa accadere, anche se intimamente lo spero. Non a caso ho usato il termine “profumo”, proprio per indicare un qualcosa che stimola sensazioni gradevoli. Un benessere effimero e - a lungo andare - deleterio, ma pur sempre benessere. Perciò, per dirla con Heidegger, ormai solo un Dio ci può salvare. Perché credo che nel prossimo futuro la Tecnica continuerà imperterrita il suo corso e la politica come dimensione sociale dell’individuo avrà uno spazio di azione ancora più ristretto di quello attuale. Siamo chiusi in una morsa che si fa sempre più stretta.

(Intervista di Francesco Algisi per archiviostorico.info)

Agamben: il capitalismo come religione

Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon.

Giorgio Agamben

Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso.

Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale.

Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.

Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. 

Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.

Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin. Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo.

Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:

1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea.

2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto.

3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.

Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”.

Ma anche la teoria freudiana appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma immediatamente in socialismo”. 

Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione, come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?

David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”.

Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola.

Creditum è il participio passato del verbo latino credere: è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro.

Nella pistis paolina rivive, cioè, quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”: “Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere… Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.

Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di una stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.

Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.

Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare – in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza.

Il credito è un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che “sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo “come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora immediatamente e senza residui sostanza.

Il carattere distruttivo della religione capitalista, di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.

Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco, ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997, p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).

Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale aziendale fa oggi ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura.

Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto. 

Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito.

(Giorgio Agamben)

Che senso ha

“Nel mio abbozzo sono sostenuto dalla tesi,
materia di fede, secondo cui l’umanità avrebbe
un’unica origine e un’unica meta. Origine e
meta ci sono ignote”
K. Jaspers

Deve suonare ben strano, in un contesto post-moderno, un libro sulla civiltà del mondo, frutto di una filosofia della storia contenente uno sguardo comprensivo sul più lontano passato e il prossimo futuro. Nell’era “post-qualunque-cosa” (Appadurai), dove ogni narrazione di grande respiro, ogni grande sintesi sulla lunga durata, e persino ogni studio di grande portata è frantumato dallo specialismo che delimita il breve periodo, ci si può interrogare sul senso e lo scopo dell’umana avventura? E poi, come superare il sospetto che l’etnocentrismo è spesso dietro l’angolo di ogni storia universale?

Socrate, Confucio, Buddha e Zarathustra. Appartengono
al Periodo Assiale come le Upanishad e i grandi profeti
ebraici (Geremia, il secondo e il terzo Isaia, Ezechiele)

In realtà quello che si introduce qui e che si ripubblica in italiano in una nuova collocazione editoriale, dopo un periodo in cui era diventato introvabile nella nostra lingua ma non in altre (in inglese è sempre stato disponibile The Origin and Goal of History), è un libro importante che ambisce a diventare un classico. Un classico, ovvero un libro che smette di invecchiare, che salta fuori dal tempo perché intercetta alcune tendenze del tempo e della storia degli uomini che sono non solo ancora in atto, ma che possono addirittura essere decisive nel determinare esiti opposti nel prossimo futuro. Un libro che offre un’occasione per varcare i confini disciplinari e interrogarsi a tutto campo sul destino umano nell’era globale.

Una storia che includa anche il futuro

È stato detto e ripetuto che forse l’uomo non ha una natura ma quello che ha è una storia, anzi che non ha una storia ma è la sua storia. Questo animale culturale per natura incontra la società, la cultura, la storia, ovvero il mondo dell’artificiale che lui stesso produce e ne rimane irretito. Le tensioni e pulsioni biologiche vengono canalizzate dalle istituzioni e finalizzate dalla cultura fino ai più alti vertici della spiritualità e dell’arte. Ma se tutto è storia, la storia in realtà è passata, non c’è più. Essa rimanda al pozzo senza fondo del passato. 

La storia è una forma simbolica che agisce nel presente e la stessa conoscenza storica è sempre una risposta data dal passato alle domande poste dal presente. Come ha scritto, tra gli altri, F. Braudel, “la storia non è altro che una continua serie di interrogativi rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del presente che ci circonda e ci assedia”. Allora è evidente l’intreccio inestricabile tra passato e presente. E il futuro? La dimensione del futuro sembra non avere alcun legame con la storia anzi forse è qui che la storia come disciplina si differenzia dalla filosofia. Nelle filosofie della storia è il futuro che determina il passato e il presente. Eppure, a pensarci bene, la storia ha sempre a che fare anche con il futuro, è il futuro passato, è stata creata nella tensione verso il domani. Essa ha a che fare con l’agire e con la prospettiva, per cui capiamo bene il senso dell’affermazione di F. Schlegel che lo storico è “un profeta con lo sguardo rivolto indietro”. E, sotto la scossa di Nietzsche, possiamo capire anche come la storicità può ostacolare l’impulso all’azione, perché per agire, per muovere dei passi verso il futuro, bisogna forse dimenticare. Quindi anche in un altro senso, oltre l’ovvia constatazione che senza un passato non c’è futuro, appare fondamentale l’idea di Jaspers che “una concezione della storia che voglia coprire la totalità delle cose umane deve includere il futuro”(183).

Lo studio della storia ci ricorda che ogni avvenimento è unico, singolare, irripetibile. Eppure parliamo della storia come maestra di vita. Ma se il più grande insegnamento della storia è che dal futuro possiamo aspettarci di tutto, se niente si ripete, che senso ha lo studio del passato? E poi oggi non è pensabile una storia o una storiografia senza un riferimento alle scienze umane, alle scienze sociali e queste cercano non solo la descrizione di ciò che è unico ma anche la tipizzazione di ciò che tendenzialmente tende a riproporsi nel comportamento umano. Non diciamo gli universali ma i bisogni, le funzioni, le strutture. Nel nostro caso, la combinazione tra processi strutturali, contesti storici e modelli di civiltà. Allora la storia, soprattutto la storia della cultura, diventa anche sociologia della cultura, una sociologia capace di scandagliare le continuità e le strutture, e quindi più che una sociologia della cultura una grande e comprensiva sociologia storica e configurazionale che mette a tema le grandi configurazioni che agiscono nel tempo-spazio, senza mettere però in disparte l’imprevedibile spontaneità dell’agire umano e l’azione di forze trascendenti. E in questo riferimento alla sociologia delle grandi configurazioni storiche non dimentichiamo, anzi è bene ricordarlo subito, che K. Jaspers è stato allievo e ammiratore di Max Weber.

E che dire poi del rapporto tra la storia, la biologia e l’etologia. Una visione evolutiva, se viene accettata nell’ambito biologico, viene invece messa subito in discussione in ambito sociale, culturale e storico. Eppure, storia ed evoluzione non si contrappongono, come determinismo e libertà, ma si implicano reciprocamente. La storia è complessa e contingente, piena di sorprese e spesso sconcertante per cui ogni meta-narrazione sembra perdere ogni autorevolezza. Ma “la vita è sempre stata in una certa misura auto-determinazione, sebbene esista in un cosmo in cui eventi come le collisioni meteoriche o le eruzioni vulcaniche più catastrofiche hanno interrotto, di volta in volta, i ‘normali’ processi evolutivi” (R. Bellah).

È in questo incrocio disciplinare che si situa il libro di Jaspers. La sua ricerca precedente lo aveva già condotto ad un nuovo uso della distinzione tra lo spiegare e il comprendere applicata ai fenomeni psichici a lui familiari come psichiatra. Lo spiegare consiste nel trovare le cause e, ad un livello più alto, ad individuare delle leggi. La comprensione parte dall’interno ed ha come scopo l’intero dell’uomo come totalità inesauribile. Ma, se la spiegazione scientifica e quella storica, che ambisce ad essere una scienza il più possibile vicina ai fatti, deve pagare il prezzo alla cosiddetta “legge di Hume”, per cui è interdetto il passaggio dall’essere al dover essere, e deve occuparsi solo della causalità. Di contro, una storia che punti anche sulla comprensione non esclude la finalità. E questo elemento lo troviamo anche nella sua idea di Weltanschauung, di visione del mondo che “non si esaurisce in un sapere, e importa anche una valutazione, una formazione della vita, un destino, una viva e intima sperimentazione di un ordinamento gerarchico dei valori”. È la kantiana ragione che produce idee andando oltre il finito, l’empirico, lo sperimentale, verso una “fede filosofica”. Pur negando ogni determinismo sia di tipo materialistico che idealistico, sapere da dove veniamo può aiutarci a capire che cosa sta accadendo e dove potremmo dirigerci. Siamo comunque obbligati a riflettere seriamente sui grandi problemi a cui è posta di fronte oggi la società globale e persino ad assumere una posizione profetica rispetto ad essi, unendo la prospettiva scientifica e quella religiosa.

Anche in ragione di ciò, l’interesse di questo libro travalica l’ambito filosofico per spaziare e contribuire, sotto molti aspetti, al dibattito di punta in numerosi settori delle scienze umane e delle scienze sociali.

La trasfigurazione assiale della storia

Uno dei più importanti contributi contenuti in quest’opera è l’introduzione del concetto di Età Assiale (Achsenzeit). Con questa espressione Jaspers indica una realtà empirica, un periodo lungo seicento anni che va dall’800 a. C. al ‘200 a. C.. Cinquecento anni prima di Cristo, in cinque luoghi differenti dell’Eurasia nascono una serie di profeti, filosofi e sapienti capaci di imporre una nuova visione del mondo, figure religiose o politiche che, con il loro pensiero, hanno contribuito a imprimere una svolta al corso della storia. Cinque luoghi di irruzione: Grecia, Palestina, Persia, Cina, India. Confucio e Lao-tse in Cina, le Upanishad e Buddha in India, Zarathustra in Iran, i profeti di Israele nel Medio Oriente, Omero, i filosofi, i tragici in Occidente, ne rappresentano i vertici. L’Età Assiale coincide con la nascita spirituale dell’umanità. È un periodo in cui si sviluppò la coscienza di sé dell’uomo e la scoperta dello spirito, quelle che si sarebbero chiamate più tardi ragione e personalità. Da quel momento l’uomo seppe anche di avere una storia. Un’epoca in cui si crearono grandi conflitti, una grande inquietudine, a cui sopravvenne storicamente il collasso da cui nacquero i grandi imperi storici.

Jaspers scopre come un “asse” della storia, nel senso che sta in mezzo tra la preistoria, la prima parte della storia delle civiltà millenarie e la storia mondiale moderna, un asse rispetto a cui tutto lo svolgimento precedente appare come una preparazione e quello successivo come una nuova coscienza. Un asse anche nel senso della sua verticalità, nel senso che esso indica una dimensione trascendente, una struttura di auto comprensione storica per tutti i popoli il cui vertice è ipotizzabile intorno al 500 a. C.. “Lì c’è come una linea di demarcazione della storia”. Lì sorse l’uomo come lo conosciamo, lì sorse la modalità in cui all’uomo è ancora data la sua autocomprensione fondamentale.

Jaspers riprende in questa nozione di assialità un’espressione che già Hegel aveva usato nelle Lezioni di filosofia della storia per indicare il “punto di svolta” e il “cardine” costituito, nella sua visione della storia universale, dall’avvento del Cristianesimo. “Questo nuovo principio è il cardine intorno al quale gira la storia mondiale. Fin qui arriva la storia e a partire di qui riprende il suo corso”, così scriveva Hegel a proposito del punto di svolta Cristiano-centrico e Euro-centrico. La novità introdotta da Jaspers, e che rappresenta una delle ragioni di attualità del suo discorso, è che la svolta assiale coinvolge quasi simultaneamente almeno cinque visioni del mondo o religioni che stanno all’origine di altrettante civiltà. “E questo contemporaneamente ma senza che nessuno sapesse delle altre”. La nascita è simultanea e parallela e non c’è nessuna gerarchia tra le diverse civiltà. Esse hanno, come vedremo più avanti, una parentela profonda ma sviluppi diversi e indipendenti. Questa apertura rende l’analisi jaspersiana molto utile di fronte alla società globalizzata.

Che cosa si annuncia nell’Età Assiale? L’uomo prende coscienza dell’essere nella sua interezza, prende coscienza dei suoi limiti e anela alla completezza e alla trascendenza. Questa tensione dette vita a conflitti spirituali. In questo caos vennero elaborate le categorie fondamentali secondo cui pensiamo ancora oggi. “In ogni senso fu compiuto il passo nell’universale” (21). Le tradizioni e i costumi vennero messi in discussione, eliminati e trasformati. L’epoca mitica con la sua quiete era alla fine. Le concezioni nuove erano in lotta contro i miti, per questo ne furono creati di nuovi e nacquero le religioni del Dio unico. Ci fu una nuova spiritualizzazione: dalla calma dell’essere-dentro-della-vita si passa all’inquietudine della polarità degli opposti e delle antinomie. L’uomo non è più chiuso in se stesso ma incerto e aperto a nuove infinite possibilità. Per la prima volta compaiono i filosofi. Degli uomini osarono contare su se stessi come individui. Altri, eremiti e pensatori vaganti, diffusero i loro semi spirituali. L’uomo si mostrò capace di contrapporsi interiormente all’universo intero. Il pensiero speculativo e la ricerca dell’uomo autentico, il ritiro e la fuga dal mondo, esaltarono la ragione e misero al mondo la personalità. La distanza tra le vette raggiunte da alcuni e le masse era enorme. L’esserci umano diviene oggetto di analisi come storia. Ci si vede di fronte ad una catastrofe e si vuole fare qualcosa con la perspicacia, l’educazione, la riforma. L’ascesa comportò anche distruzione oltre che creazione. L’esito della rivoluzione assiale fu politico, fu, secondo Jaspers, la creazione di grandi imperi secolari che presero il posto di regni frantumati.

Ma prima che cosa c’era? Nel profilo della storia universale disegnato dal filosofo tedesco all’inizio c’è la lunga preistoria umana che fa emergere la coscienza dell’unicità dell’uomo sulla terra. Alla lunga preistoria segue la storia pre-assiale che abbraccia circa cinquemila anni e si articola nelle antiche alte civiltà che però vissero come delle storie separate da cui scaturì “il balzo in avanti” verso l’universale rappresentato dal periodo assiale. Ora, ovvero quando l’autore scrive (1949), ovvero all’inizio della seconda metà del secolo scorso, si sta dispiegando una nuova era planetaria, una vera e propria storia mondiale che comincia in Occidente ma si diffonde su tutta la terra. Jaspers scrive che questa terza fase appartiene essenzialmente ancora al futuro. Ora, che quel futuro si è in parte compiuto, possiamo dire che la spinta verso la globalizzazione si va realizzando e Jaspers non si era sbagliato. Nella terza fase si va verso l’unità del tutto, la chiusura dello spazio oltre la quale non si può andare. Siamo in una nuova Età assiale oppure siamo al compimento di premesse fondate proprio nell’Età assiale?

Vedremo più avanti la portata di questa domanda. Secondo Jaspers quello che sopravvive di quel fondamentale momento della storia persiste solo se viene integrato nelle nuove civiltà assiali altrimenti scompare. Tutti i popoli che non hanno preso parte al periodo assiale, quelli africani, ad esempio, sono rimasti primitivi oppure si sono trasformati venendo a contatto con i tre centri di irradiazione. Fino ad oggi la civiltà è vissuta di quello che è stato creato durante il periodo assiale.

Prima di proporre la sua tesi, Jaspers afferma il suo debito nei confronti di tre autori a cui riconosce il merito di aver precorso o in qualche maniera creato il concetto di civiltà unitarie, ovvero O. Spengler (con il suo Tramonto dell’Occidente, 1918) e Alfred Weber (con la sua Storia della cultura come sociologia della cultura, 1935), così come A. Toymbee (Una studio della storia, 1935). Questi autori parlano delle civiltà come organismi storici. Spengler, che ne enumera otto, Toymbee ventidue, pur nella diversa diagnosi e prognosi storica, tutti traggono dalle loro concezioni delle previsioni per il futuro. Poi Jaspers prende in considerazione alcune delle spiegazioni storiche più accreditate al suo tempo. Perché è avvenuto lo stesso fatto parallelo in tre realtà? Sono storie separate. La risposta che prende più in considerazione, se non altro per il metodo con cui è stata trovata, è quella di Alfred Weber, il meno famoso ma altrettanto geniale fratello di Max Weber. La risposta è quella dell’irruzione dei popoli delle bighe, degli uomini a cavallo in queste civiltà e che fece conoscere il cavallo alle alte civiltà. Grazie al cavallo ci si rese conto della grandezza del mondo. Prima c’erano le grandi civiltà matriarcali statiche di allevatori ed agricoltori, poi arrivarono i grandi popoli conquistatori a cavallo, liberi e in movimento, in procinto di diventare coscienti. Questi sconvolsero l’Eurasia e questo è stato il terreno di fioritura delle civiltà successive.

Vale la pena qui accennare che oggi c’è una ripresa dell’attualità di questa tesi che è suffragata dalle ricerche di una geniale antropologa lettone, M. Ginbutas, la quale ha portato prove inconfutabili dell’esistenza, non di una società matriarcale che sarebbe simile a quella successiva patriarcale, ma di una “civiltà della dea” per la presenza diffusa di divinità femminili. Una civiltà pre-indoeuropea, che nel 4500 a. C. sul continente europeo ospitava un gruppo fiorente di culture devote alla religione della dea. Dall’eguaglianza antico-europea di questa civiltà si passò alla diseguaglianza indo-europea, la prima era centrata sull’interazione armoniosa degli uomini con la natura e sulla complementarietà dei rapporti tra uomini e donne, la seconda sulla gerarchia dei tre ordini. L’Europa del neolitico e dell’età del bronzo (6.500-3.500 a. C.) non era indoeuropea. La civiltà della dea viene sostituita progressivamente, a partire dal V millennio a. Cristo, dalla cultura Kurgan, detta così dalle tombe a fossa. Popolazioni di pastori nomadi, orde a cavallo, dotate di armi di bronzo, con divinità maschili (gli dei del tuono, della caccia, del cielo, del cavallo, delle armi), nomadi (il nomade ha uno scarso legame con la terra e il dominio delle divinità femminili come forze universali è assente), con una psiche che si alimenta di un continuo bisogno di espansione, che dal Caucaso si muovono e provocano il passaggio dal complesso mosaico di culture agricole, un substrato egualitario degli agricoltori antico-europei, ad un’economia prevalentemente pastorale, patriarcale e stratificata. Una società in equilibrio, una cultura che si deliziava dei prodigi naturali, una cultura dell’arte in cui il potere era visto come la responsabilità che la madre ha nei confronti del figlio, e non come dominio. L’allevamento, la ceramica, la scrittura, la tessitura sono eredità di quel periodo capace di vivere in un luogo in armonia con la natura. Questa incursione nella preistoria, alla luce di nuove ricerche successive al tempo in cui Jaspers scriveva, confermano però la bontà del suo approccio. Il lungo passato preistorico, che può essere stato un periodo di pacifica convivenza, può tornare a compiersi nel prossimo futuro, se siamo stati uniti tra noi e con la natura all’inizio lo possiamo tornare ad essere. Di nuovo, l’origine rimanda al senso.

Ma torniamo alla tesi di Jaspers che, pur riconoscendo l’ingegnosità metodologica delle tesi di Alfred Weber, pensa che sia insufficiente a spiegare la nascita del periodo assiale. L’altra teoria è quella dei piccoli stati in conflitto fra loro, ma ambedue le spiegazioni illuminano ma non portano al risultato creativo. Lo stupore di fronte al fiorire dell’Età Assiale è dovuto alla massima concentrazione del sapere che poi accede alla conoscenza autentica che lascia aperta la spiegazione senza chiuderla in un oggetto.

La creazione di questa frattura storico-spirituale crea, come osserva P. Sloterdijk che ha ripreso il concetto jaspersiano per farne uno degli elementi fondamentali del suo decisivo saggio Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2010), un’umanità a due velocità. La scoperta dello spirito, la differenza tra abitudini e passioni, l’affermarsi delle religioni trascendenti, l’invenzione della scrittura, diffondono la convinzione che nella vita di prima non c’è salvezza. Nasce l’imperativo di tutti gli imperativi, la necessita di cambiare vita. Si produce così una differenza base rispetto a tutta la propria esistenza. Asceti, meditanti, pensatori, secessionisti si distaccano dai sedentari. Eremi, monasteri, accademie, sono spazi per il ritiro, per avvicinarsi al cielo. “Tremila anni fa, in molte civiltà avanzate prese vita un moto di separatisti”. Ed ha ragione ancora Sloterdijk quando sostiene che “la sociologia non può spiegare come si sia giunti a questo”. Nasce così la nozione di uomo interiore per il quale l’appropriazione di sè comporta l’abbandono del mondo. Allora lo scoprire se stessi diventa un compito infinito. Ma, come osserva Jaspers stesso, “il problema del senso del periodo assiale è completamente diverso da quello della sua causa” (39).

Il concetto di trascendenza e la capacità di autoriflessione individuale e collettiva sono alcune delle eredità dell’Età Assiale, questo concetto si pone come fondamentale per la comprensione di una storia universale o dei cambiamenti storici che tendono alla globalizzazione assieme a termini quali modernizzazione, evoluzione cognitiva, memoria collettiva e universalizzazione.

Come è emerso nel famoso convegno di Erfurt tenuto nel 2008, i cui risultati hanno dato vita alla pubblicazione curata da R. Bellah e H. Joas, The Axial Age and Its Consequences (2012) e non a caso dedicata alla memoria di Karl Jaspers, sia che si intenda l’Età Assiale come una fondamentale acquisizione sul piano storico riguardante le società antiche, sia che la si intenda invece come un progetto non ancora concluso che dal passato alimenta ancora le vene profonde delle società contemporanee, in entrambe i casi indica che la vita sociale, culturale e politica può essere adeguatamente compresa solo quando è messa in relazione con le idee guida della vita spirituale, con le visioni del mondo e i valori ultimi in cui le comunità umane trovano un orientamento sulla faccia della terra e affrontano i propri sentimenti di vulnerabilità, finitezza e fallibilità di fronte alle potenze cosmiche.

Il libro di Jaspers ha imposto così la nozione di Civiltà Assiale come un punto di riferimento storico, sociologico e filosofico a cui molti autori hanno poi fatto riferimento in seguito, un concetto vivo nel più aggiornato dibattito contemporaneo.

Un’altra eredità duratura dell’Età Assiale legata alla frattura che essa ha provocato all’interno delle società e delle culture coinvolte tra i sedentari e chi si è messo in cammino animato da una nuova profezia, è la diffusione della critica sociale. “Sarebbe troppo semplice interpretare le transizioni assiali come forme di lotta di classe, ma non si può negare che siano state tutte caratterizzate dalla critica sociale e da giudizi severi sulle condizioni politiche e sociali esistenti” (R. Bellah). Questa crisi e questa critica sono tipiche della tensione creata dalla trasfigurazione assiale della storia che, una volta messa in moto, si ripeterà tante volte nella storia successiva fino a quella attuale. Nell’Età Assiale avviene anche una rottura che provoca la nascita di una coscienza teoretica. Nell’opera di R. Bellah, Religion in Human Evolution (2011), definita da J. Alexander “un Bildundsroman della specie umana”, la rottura assiale è la dimostrazione di quanto l’uomo possa cambiare destino e quanto possa sottrarsi quindi al destino stesso, anche se poi esiste quello che può essere definito il path dependance ovvero, dopo che si è intrapresa una via evolutiva è più difficile cambiare strada. 

Come si è domandato Bellah, la rottura assiale ha reso possibile una vita morale, ma saremo mai in grado di sistemare le nostre società al punto che, circondati da tutta la nostra ricchezza, potere e consapevolezza critica, sapremo vivere in modo sostanzialmente morale? La coscienza morale, la capacità di giudizio critico, la capacità teoretica di accedere all’universale, per certi versi, la cultura post-assiale è irriducibile agli interessi dei poteri dominanti e alle condizioni materiali. La cultura che è stata generata ad Oriente e ad Occidente consente lo sradicamento dalle appartenenze locali, permette la trascendenza morale e l’indipendenza intellettuale. La rottura assiale, la conoscenza distaccata che è stata generata, è la fonte di produzione di ogni utopia e di ogni ideologia, di ogni visione idealizzata dell’ordine sociale ma anche della stessa pedagogia.

La grande pedagogia delle civiltà e l’invenzione dell’educazione

L’educazione è qualcosa di innato per un essere che, soprattutto nella sua infanzia, si distingue per la sua plasticità e per la sua incompletezza. Noi nasciamo incompetenti e dobbiamo apprendere quasi tutto. Per cui l’uomo è colui che deve essere educato e la sua formazione culturale costituisce un fatto naturale, è destinato dalla natura all’apprendimento culturale. Ma, l’educazione intesa come lo sforzo cosciente di formare e riformare sia gli esseri umani che la società, l’educazione come tensione cognitiva ed etica al perfezionamento, l’educazione come formazione e viaggio interiore, è una delle conseguenze, delle eredità lasciate dalla svolta dell’Età Assiale alla società globale di oggi. Come ha sostenuto uno dei collaboratori di R. Bellah, William M. Sullivan, possiamo considerare l’educazione come una creazione dell’Età Assiale. Così l’educazione può essere concepita come l’insieme delle pratiche che in ogni tempo e in ogni società si sono occupate dello sviluppo umano e della ‘coltivazione’ dell’umanità e allo stesso modo la pedagogia, come sapere delle potenzialità, ne ha rappresentato la riflessività e la teorizzazione. Eppure possiamo parlare di una grande pedagogia che coincide con l’azione delle civiltà stesse. L’approccio alle civiltà porta a pensarle come una forma di grande pedagogia offerta dalle religioni, dall’economia, dal paesaggio, dalla politica, dalla tecnologia, dall’etica. Le civiltà appaiono allora come giganteschi processi educativi che modellano la società, la cultura e la personalità, lasciando segni profondi attraverso i secoli. Su questi si innestano oggi le modernizzazioni e le razionalizzazioni, ma gli stessi cambiamenti vengono a loro volta modificati da queste eredità.

La grande creatività culturale del periodo assiale della storia ha prodotto ed è stata poi alimentata dall’autonomizzarsi di un ceto di chierici, intellettuali e pedagoghi che hanno prodotto tutte le visioni tese alla ricostruzione dell’uomo e della società su nuove basi. Venne creata quella tensione interna di cui ancora vive l’educazione e la pedagogia. Tensione che si va esaurendo da una parte e, forse, ricaricando dall’altra con il bisogno di una educazione nuova all’altezza di una civiltà nuova, comprensiva dell’eredità del meglio di tutte le civiltà del mondo.

È evidente che questo approccio ha molte difficoltà, come direbbe M. Foucault, “qualcosa che è più di una ipotesi ma meno di una tesi”. Esso si basa sulla comparazione e “la comparazione tra civiltà è un rompicapo” (F. Ravaglioli). E la comparazione ha bisogno di una grande erudizione, di una specie di storia globale, soprattutto oggi che si muove sullo sfondo del gigantesco complesso di cambiamenti epocali che vanno sotto il nome di globalizzazione e, come ha scritto Appadurai, uno dei massimi studiosi del fenomeno, ogni discorso che abbia per oggetto la globalizzazione “è un esercizio di megalomania”.

Ma che cos’è una civiltà? Le civiltà nascono con le città, nell’età del bronzo. Come ha osservato J. Goody, la rivoluzione dell’età del bronzo ha prodotto la cultura delle città. È infatti dal latino civitas, la città, che deriva la stessa parola “civiltà”. La cultura della città, nata in Mesopotamia e in Egitto intorno al 3000 a. C. e poi diffusasi anche in altre parti dell’Eurasia, ha prodotto l’alta cultura con tutte le sue manifestazioni come la scrittura, la pittura, l’alta cucina, la cultura dei fiori, una musica e persino un’erotica. I lavori di Goody seguono una linea che conferma Jaspers perché l’unità geoculturale che lui prende in considerazione è l’Eurasia e ciò esclude l’Africa che, anche secondo lui, non ha mai sperimentato una civiltà in questo senso. Per Eisenstadt, di cui vedremo più avanti il dialogo con l’opera di Jaspers, le civiltà sono una realtà costituita da un programma culturale, un immaginario distinto dalle altre, una radicale forma di intuizione ontologica, un insieme di nuove forme istituzionali. Per le società assiali, le civiltà si distinguevano poi tra loro per le diverse prospettive religiose.

Ma dietro il concetto di civiltà rimane sempre l’affascinante affresco di Spengler. Ogni civiltà è l’unione di paesaggio e destino. Le civiltà sono organismi che scaturiscono come forme indipendenti da un particolare paesaggio e clima. Otto civiltà unitarie, che nascono e declinano in una durata di mille anni, incomunicabili fra loro e quando ci sono dei trasferimenti si hanno delle pseudomorfosi e perturbamenti. L’alta cultura è l’esito di paesaggio e anima collettiva, un amalgama di clima e trauma. “La civiltà è il fenomeno originario di ogni storia mondiale passata, presente e futura… Fenomeno originario è quello in cui l’idea del divenire si presenta pura al nostro sguardo… Io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza elementare dal grembo di un loro paesaggio materno…civiltà, che imprimono ciascuna una propria idea e delle proprie passioni, una propria vita, un proprio volere e sentire, una propria morte… Ogni civiltà ha proprie, originali possibilità di espressione che germinano, si maturano, declinano e poi irrimediabilmente scompaiono”.

Per Toynbee le ventuno civiltà che si sono succedute sulla terra hanno una durata indeterminata, alcune possono sussistere senza tramontare, secondo il modello sfida (challeng) – risposta (answer). Per il già citato Alfred Weber, uno degli interlocutori di Jaspers, massimo rappresentante della Kultursoziologie di Heidelberg, la sua concezione universale della storia e la sua sociologia delle civiltà distingue le alte civiltà primarie, le civiltà secondarie di primo e secondo grado.

E poi c’è la ripresa del concetto di civiltà nella scuola delle “Annales” con F. Braudel. Per il grande storico francese “essere stati è una condizione per essere”. Quegli “animali possenti”, che sono le civiltà, sono realtà di lunga e lunghissima durata e sono saldamente aggrappate al loro spazio geografico. Nel Mediterraneo da lui studiato si articolano quella cristiana-romana, quella islamica e quella greco-ortodossa, che sono più antiche delle rispettive storie, perché continuano storie precedenti. Una civiltà plasma nel lungo periodo la mentalità. E questa, pur rappresentando una realtà sfuggente ed ambigua, ha una sua dinamica ed anche una sua inerzia, sia di moto che di quiete, che la distingue dalla struttura sociale e dai sistemi di produzione.

E Jaspers si inserisce in questo dibattito e contribuisce con il suo concetto di Civiltà Assiali, con la frattura che queste provocarono nella storia e con la successiva tensione che ne scaturì. Anzi, possiamo dire che quelle precedenti non erano propriamente civiltà, per cui civiltà e assialità sembrano quasi sinonimi. Ma il concetto stesso di civiltà è tutt’altro che semplice e rimane da definire ulteriormente, portandosi poi dietro l’interrogativo decisivo se la modernità sia oppure no una nuova Età Assiale. Nel futuro ci aspetta un nuovo periodo assiale? Si deve vedere nell’età moderna che va dal 1500 al 1800 un nuovo periodo assiale con la sua scienza e la sua tecnologia? Secondo Jaspers sembrerebbe di no. Si tratta piuttosto di uno sviluppo materiale, un nuovo prometeismo della tecnica che può portare ad una unificazione. “Il presente è un’epoca di reale rimodellamento tecnico e politico, non un’epoca di creazioni spirituali eterne. Possiamo paragonarci, con le nostre grandiose scoperte scientifiche e invenzioni tecniche, all’epoca dell’invenzione degli utensili e delle armi, del primo impiego degli animali domestici e dei cavalli, più che a quella di Confucio, Lao-tse, Buddha e Socrate” (182).

Civiltà assiali e modernità multiple: la modernità è una nuova civiltà assiale?

Uno degli sviluppi più interessanti del pensiero di Jaspers sulla storia e sulle conseguenze che il passato ha sul presente e sul futuro è stato quello di modernità multiple elaborato da S. Eisenstadt. Intanto si tratta di una prospettiva comparata e macrosociale che cerca di intercettare i fenomeni della modernizzazione e dello sviluppo dalle società tradizionali alle società moderne. Correggendo Weber e quindi avvicinandosi più a Jaspers, Eisenstadt sostiene che la modernizzazione europea non è il modello di una modernizzazione universale e convergente. La parabola della modernizzazione, della razionalizzazione del mondo, del disincanto ad opera della scienza e del dominio ad opera della tecnica, non costituisce un’unica parabola. La maggiore capacità di adattamento agli orizzonti sociali che si ampliano, lo sviluppo di una certa flessibilità dell’ego, un crescente apprezzamento dell’autoaffermazione e della mobilità, un’enfatizzazione sempre più marcata del presente, ovvero una estensione della razionalità e della libertà individuale, ovvero tutti i portati della modernità non hanno gli stessi esiti ovunque. O, meglio, non c’è una convergenza in un unico modo di diventare moderni. Non c’è un solo sistema, ma più sistemi pressoché mondiali non diretti da un centro, ma pluralistici e pluricentrici, ciascuno dei quali ha dato vita a dinamiche proprie.

Questa modernità multipla è la conseguenza delle diverse civiltà, di quei balzi in avanti determinatesi nell’Età Assiale che costituiscono ancora le linee di frattura fra i diversi modi di rispondere alla sfida occidentale della modernizzazione che, a questo punto, ha investito il mondo intero. E questa non è la sola eredità dell’Età Assiale. La politica ideologica, la stessa violenza rivoluzionaria legata all’ideologia è una conseguenza della frattura assiale. La tensione che si creò allora tra l’ordine trascendente e quello mondano e la istituzionalizzazione di questa stessa tensione, fornirono la possibilità di una critica radicale all’esistente. Le società pre-assiali vedevano il potere politico come incarnazione di un ordine cosmico che coincideva con quello sociale e viceversa. Questo faceva apparire quasi come naturali le istituzioni. La rottura di questo ordine cosmico inizia con l’avvento delle religioni assiali e per la politica si apre la possibilità di colmare lo iato che c’è tra l’essere e il dover essere, tra la realtà e la salvezza, tra l’ordine mondano e quello trascendente. Allora, anche la promessa può diventare una terra, la terra promessa delle rivoluzioni sociali.

Come ha sostenuto Eisenstadt, i processi rivoluzionari moderni e contemporanei assomigliano alla istituzionalizzazione delle grandi religioni e delle grandi civiltà assiali. Le rivoluzioni hanno infatti approfondito gli elementi escatologici e utopistici di società che si sono sviluppate allora. La critica è portata da un ceto di intellettuali e chierici molto differenti fra loro come i profeti o i sacerdoti ebraici, i filosofi greci, i letterati cinesi, i bramini indù, i shanga buddisti o gli ulema islamici. Su questa stessa struttura di base si aprono però le differenze anche tra le civiltà. La tradizione cinese, ad esempio, in cui confluivano Confucianesimo, Taoismo, Buddismo e legalismo, a differenza delle religioni monoteiste, rese la tensione tra l’ordine immanente e quello trascendente meno forte, per cui si affermò la prevalenza di una concezione ciclica del tempo e di armonia del cosmo.

Le società assiali posero il problema della salvezza in un modo completamente nuovo: la coscienza della morte, l’immortalità dell’anima e il bisogno di uniformare la vita ad esigenze etiche superiori crearono tensioni interne che hanno rappresentato la molla più profonda della stessa educazione e dello strutturarsi della personalità. Si diffuse una tensione infinita che nasceva dalla consapevolezza della parzialità o incompletezza di qualsiasi istituzionalizzazione dei valori trascendenti. E si diffuse anche una riflessività rispetto all’incertezza delle vie da seguire per raggiungere la salvezza. Per Eisenstadt, se da un lato tutte queste civiltà ebbero in comune la tendenza a una ricostruzione del mondo, dall’altra è da notare che non sia emersa affatto una storia universale omogenea e come i differenti tipi di civiltà non risultassero né simili né convergenti. Ad emergere è stata una molteplicità di differenti civiltà universali, divergenti eppure in continua interferenza reciproca. E questo sia nei periodi “storici” quanto nella fase di transizione alla modernità e nei differenti tipi di modernità sviluppatesi al loro interno.

(Raniero Regni, Arcaico futuro. La grande pedagogia delle civiltà. Introduzione a Origine e senso della storia di Karl Jaspers)