Esattamente trent'anni fa Vittorio Messori pubblicava una biografia del beato Francesco Faà di Bruno, nella quale si attaccava frontalmente il mito risorgimentale: Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, Edizioni Paoline, Milano 1990.
"Le polemiche sorte allora furono, a dir poco, roventi" scrive Alberto Leoni nella Presentazione a La rivoluzione italiana di Patrick Keyes O'Clery, in un paragrafetto che suona significativo fin dal titolo: "L'identità nazionale oggi: miti e revisioni". "Molte riprendevano un vecchio argomento anticlericale, ovvero la presunta estraneità dei cattolici italiani rispetto allo Stato nazionale. Ciò che apparve chiaro, da subito, fu che non era permessa la minima revisione storica del Risorgimento. Parve, insomma, che il fattore tempo, anziché consentire la serenità della discussione, favorisse sempre l’intangibilità di «dogmi» divenuti tali solo per il fatto di non essere stati mai sottoposti a seria revisione storica: «parlare male di Garibaldi» non era ancora permesso".
Il Monumento Nazionale Battaglia di Castelfidardo |
Ecco, "tra le tante reazioni al libro di Messori", nota sempre Leoni, "ve ne fu una sostanzialmente corretta e umanamente simpatica: Indro Montanelli affermò che l’unica epopea nazionale italiana era quella risorgimentale, e che era un errore distruggerla con furore iconoclasta. Detto altrimenti, pur riconoscendone limiti e storture, la mistica di bersaglieri e garibaldini era l’unica che potesse fare da collante a una nazione che sventola il tricolore solo in concomitanza con le imprese della nazionale di calcio.
"Ora, è giudizio comunemente accettato che l’8 settembre 1943 abbia significato la finis Italiae. L’esito disastroso della guerra, la fuga del re, lo sbandamento di quell’esercito che era stato al centro della politica nazionale dalla Prima guerra d’indipendenza in poi, la spartizione feroce della tradizione garibaldina tra i resistenti socialcomunisti e i fascisti di Salò, hanno provocato proprio quella dissoluzione dell’epopea risorgimentale stigmatizzata da Montanelli.
"Gli effetti non furono immediati, poiché nel dopoguerra, almeno fino al Sessantotto, quella tradizione resisteva ancora in molte forme. Il traduttore dell’opera qui presentata è, in certo senso, figlio di questo milieu culturale, dove le scuole elementari erano intitolate alle medaglie d’oro e il Corriere dei piccoli pubblicava racconti, giochi e articoli di argomento risorgimentale o comunque legati alla Grande Guerra. Ricordo ancora che, durante l’esame di quinta elementare, anno 1968, mi vennero chiesti i nomi dei triumviri della Repubblica romana e dovetti cantare l’inizio del «Va’ pensiero». Anche la memorialistica dei reduci dell’ultimo conflitto era diffusa: si pensi solo a Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi, o al magnifico El Alamein 1933-1962 di Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo, mio livre de chevet della prima adolescenza.
"Con gli anni Settanta lo smarrimento dell’identità nazionale si è diffuso sempre più e non poteva certo essere arginato da un’adesione sentimentale e retorica: questo enorme spaesamento esistenziale, individuale e collettivo, che forse nessuna nazione al mondo patisce in egual misura è un’inquietante minaccia sull’Italia, perché la natura non tollera vuoti. Se tale affermazione può apparire temeraria, possiamo provare a confrontare la vitalità della nostra tradizione storica con quella di altre nazioni che si sono formate «col ferro e col sangue». Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e più recentemente, la Spagna, pur essendo passate attraverso guerre civili spaventose hanno avuto il coraggio di rivedere la propria storia e giungere a una riconciliazione nazionale muovendo dal dato più emotivamente significativo: riconoscere, se non le ragioni, almeno il valore del nemico sconfitto.
Impressionante, a questo proposito, è il confronto col mausoleo dei caduti di Castelfidardo. Costruito nel 1910, il sacrario è decisamento brutto, isolato e negletto, e vi sono scritti solo i nomi dei caduti dell’esercito piemontese: per i pontifici, come si leggerà in questo volume, ci fu solo la fossa comune e un tentativo di oblio. Ciò che è mancato, in questo come in altri casi, è proprio il riconoscimento cavalleresco del valore del nemico, primo passo per tentare di comprenderne le ragioni. Borbonici e pontifici, invece, sembrano essere «spersone», per usare un linguaggio orwelliano, ostacoli meramente materiali, quasi inconsapevoli, spazzati via da eroi e statisti che, all’opposto, hanno volti e biografie ben definite.
La persuasione è che i vincitori della guerra risorgimentale abbiano compiuto una damnatio memoriae degli sconfitti, ergendosi a rappresentanti dell’unica Italia possibile: la propria. Il disastro dell’8 settembre e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta-Settanta ha, tuttavia, annegato nella dimenticanza anche i vincitori, e distrutto quel modello d’Italia risultante dal processo unitario: la nostra nazione non ha più un passato significativo, o, per usare un paragone corrente, l’«hard disk» del Pc Italia è ormai del tutto formattato".
Oggi più che mai.