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L'imperatore filosofo

Apprendiamo da Cronaca Numismatica che, «inaugurata nel 2017, dopo Adriano, Traiano e Augusto, la serie numismatica italiana dedicata agli imperatori di Roma rende omaggio a Marco Aurelio, il filosofo, nato a Roma nel 121 e salito al trono nel 161, per rimanervi fino alla morte avvenuta nell’anno 180».


«Lo fa con una “piccola”, la moneta da 10 euro in oro proof dal diametro di mm 13,85 e dal peso di 3,00 grammi a titolo di 900 millesimi».


Si tratta, leggiamo ancora, di «una moneta da collezione – a corso legale ufficialmente dal 23 giugno – realizzata su modelli del maestro Uliana Pernazza e che, coniata in mille esemplari, era disponibile al prezzo base di 160 euro. “Era” perché, vuoi per l’esiguità del contingente (uguale al conio per Augusto, mentre Adriano aveva avuto una produzione di 4000 pezzi e Traiano di 1500) e vuoi per la bellezza dell’incisione, la monetina è già esaurita presso IPZS ed e disponibile, perciò, con sovrapprezzo solo sul mercato secondario.

«Al dritto, i 10 euro in oro 2020 mostrano un dettaglio del busto dell’imperatore Marco Aurelio, volto a destra, tratto da un’opera in marmo custodita presso il Museo archeologico di Efeso, Selçuk, in Turchia. Nel giro, REPUBBLICA ITALIANA; in basso a sinistra, il nome dell’autore U. PERNAZZA.

«Dalle provincie alla capitale imperiale per il rovescio, una parziale riproduzione della statua equestre di Maro Aurelio trasferita ai Musei Capitolini di Roma dalla Piazza del Campidoglio. Nel campo a sinistra MARCVS AVRELIVS e, in verticale, anno di emissione 2020; in alto, il valore EURO 10; a destra, R, segno della Zecca di Roma.

«La celebre statua che oggi possiamo ammirare al centro della Piazza del Campidoglio è una copia fedele realizzata, sotto la supervisione di Laura Cretara e Guido Veroi, dalla Scuola dell’Arte della Medaglia e dalla Zecca di Stato».

Per saperne di più su Marco Aurelio e il suo pensiero, ricorriamo alla pregevole porzione La filosofia antico-pagana dalla celebre Storia della filosofia di Giovanni Reale e Dario Antiseri.


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Marco Aurelio , imperatore e filosofo romano, nacque nel 121 d.C.. Salito al trono quarantenne, nel 161, resse l’Impero fino alla morte, nel 180 d.C..

La sua opera filosofica, redatta in lingua greca, si intitola Ricordi e si costituisce di una serie di massime, sentenze e riflessioni, composte anche durante le dure campagne militari, che non avevano come fine quello della pubblicazione.

Marco Aurelio è l’ultima figura di rilievo che il movimento spirituale della Stoà annoveri. Con lui lo Stoicismo sale sul trono del più grande impero e si conclude. Anche in Marco Aurelio sono ben visibili tendenze eclettiche. Egli non esita, come già Seneca, ad accogliere notazioni di saggezza che vengono perfino da Epicuro, Eraclito del «tutto scorre», inedita nella Stoà, desunta molto probabilmente dallo scettico Enesidemo, il quale, come vedremo, considera lo Scetticismo come la via che porta all’Eraclitismo.

Fra gli esponenti della nuova Stoà Marco Aurelio è quello che maggiormente restringe la filosofia alla problematica morale, colorandola, non meno di Seneca e di Epitteto, di forti tinte religiose. Per mezzo millennio la Stoà aveva aiutato gli uomini a vivere con la sua dottrina morale, ben più che con la sua logica o con la sua fisica. Queste erano andate via via estenuandosi e assottigliandosi e perfino sclerotizzandosi; quella, invece, aveva continuato a rivivere e a rifiorire, perché aveva continuato a rispondere a effettivi bisogni degli uomini, immutati pur nel mutare dei tempi.

La nullità delle cose

Una delle caratteristiche del pensiero di Marco Aurelio è l’insistenza con cui viene espressa e ribadita la caducità delle cose, la loro monotonia, la loro insignificanza e la loro sostanziale nullità. Questo sentimento delle cose è ormai decisamente distante dal pensiero greco, sia dell’età classica sia del primo Ellenismo. Il mondo antico sta dissolvendosi e il Cristianesimo sta inesorabilmente conquistando gli animi. È ormai in atto la più grande rivoluzione spirituale che sta svuotando tutte quante le cose del loro antico significato. Ed è questo rivolgimento, appunto, che dà all’uomo il senso della nullità del tutto. Ma Marco Aurelio è profondamente convinto che l’antico verbo stoico sia pur sempre in grado di mostrare che le cose e la vita, al di là della loro apparente nullità, abbiano un preciso senso.

Sul piano ontologico e cosmologico è la visione panteistica dell’Uno-tutto, sorgente e foce di ogni cosa, a riscattare le singole esistenze dal non senso e dalla vanità.

Sul piano etico e antropologico, è il dovere morale che dà senso al vivere. A questo proposito Marco Aurelio finisce, in più di un punto, con l’affinare alcuni concetti dell’etica stoica fino ad avvicinarsi a concetti evangelici, anche se su basi differenti. Marco Aurelio, poi, non esita a infrangere l’ortodossia stoica, pur di garantire la distinzione fra l’uomo e le altre cose e la precisa tangenza dell’uomo con gli dei.

Una nuova antropologia

La Stoà, come sappiamo, aveva distinto, nell’uomo, il corpo dall’anima e aveva dato a questa una netta preminenza. Tuttavia la distinzione non poté mai essere radicale, perché l’anima restava pur sempre un ente materiale, un soffio caldo, ossia pneuma, e, quindi, restava della stessa natura ontologica del corpo. 

Marco Aurelio rompe questo schema, assumendo tre principi come costitutivi dell’uomo:
• il corpo, che è carne;
• l’anima, che è soffio o pneuma;
• e, superiore all’anima stessa, l’intelletto o mente (nous).

Mentre la Stoà identificava l’egemonico o principio dirigente dell’uomo (l’intelligenza) con la parte più alta dell’anima, Marco Aurelio lo pone fuori dell’anima e lo identifica con il nous, con l’intelletto.

In base a quanto abbiamo detto sopra, ben si comprende come, per Marco Aurelio, l’anima intellettiva costituisca il nostro vero io, il rifugio sicuro in cui dobbiamo ritirarci per difenderci da qualsiasi pericolo e per trovare le energie necessarie per vivere una vita degna di uomini.

L’egemonico, cioè l’anima intellettiva, che è il nostro Demone, è invincibile, se vuole. Nulla lo può ostacolare, nulla lo può piegare, nulla lo può colpire, né fuoco né ferro, né violenza di sorta, se esso non vuole. Solo il giudizio che esso emette sulle cose lo può colpire; ma allora non sono le cose che lo affliggono, ma le false opinioni che egli stesso ha prodotto. Serbato retto e incorrotto, il nous è il rifugio che dà all’uomo la pace assoluta. Già la vecchia Stoà aveva sottolineato il comune vincolo che lega tutti gli uomini, ma solo il Neostoicismo romano innalzò questo vincolo al precetto dell’amore. E in questa direzione Marco Aurelio si spinse senza riserve: «E ancora è dell’anima razionale amare il prossimo, il che è verità e umiltà».

Anche il sentimento religioso in Marco Aurelio va molto più in là di quello della vecchia Stoà. «Rendere grazie agli dei dal profondo del cuore», «avere sempre nella mente dio», «invocare gli dei», «vivere con gli dei», sono significative espressioni che ricorrono nei Ricordi, cariche di nuove valenze. Ma più di tutti indicativo, al riguardo, è il seguente pensiero: «Gli dei, o non possono nulla, o possono qualcosa. Se non possono, perché innalzi loro preghiere? Se possono, perché non li preghi di concederti di non temere né desiderare alcuna di queste cose, di non rammaricarti per alcuna di esse, anziché di ottenerla o di evitarla? Perché, comunque, se possono prestar aiuto agli uomini, debbono prestarlo pure in questo. Forse dirai “Gli dei mi hanno dato facoltà di agire a questo riguardo”. Allora non è meglio che tu ti giovi liberamente di ciò che è in tuo potere, invece di affannarti servilmente e vilmente per ciò che in tuo potere non è? E poi chi t’ha detto che gli dei non ci coadiuvano anche in ciò che è in potere nostro? Comincia a pregarli in questo senso e vedrai».

Con Marco Aurelio lo Stoicismo celebrò indubbiamente il suo più alto trionfo, in quanto, come è stato giustamente rilevato, «un imperatore, il sovrano di tutto il mondo conosciuto, si professò stoico e operò da stoico». Ma, subito dopo Marco Aurelio, lo Stoicismo iniziò il suo fatale declino, e, poche generazioni dopo, nel III secolo d.C., addirittura scomparve come corrente filosofica autonoma.