"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Un urlo sulle rovine

Dal cesto di giornata. Dunque apprendiamo che il calendario dell'anno scolastico ha come ultimo giorno di lezione... un lunedì! Follia. Dunque una moltitudine di esaltati e intruppati scende in piazza a gridare che per migliorare le condizioni di lavoro degli agenti di polizia, cioè per diminuire il loro stato di stress e di conseguenza gli errori e le violenze a questo attribuibili, bisogna tagliare fondi e finanziamenti alle forze di sicurezza: tagliare, non aumentare! Follia. Dunque si straparla di un opuscoletto partorito dalla mente geniale del grande statista Matteo Renzi, La mossa del cavallo, come se contenesse la ricetta per risolvere d'incanto tutti i mali del Belpaese. Ricetta alla quale, finora, nessuno aveva pensato.

Sapete che c'è? Alla mossa del cavallo noi replichiamo con Le scuderie dell'Occidente di Jean Cau. Un trattato di morale, come recita il sottotitolo, che diagnostica le ragioni della decadenza dell’Occidente cercando di resistere alla tentazione di lasciarsi cullare dalla disperazione. Jean Cau (1925-1993), Prix Goncourt a 36 anni, è stato scrittore, giornalista e sceneggiatore francese. Segretario di Jean-Paul Sartre, si è via via allontanato dallo schieramento progressista per avvicinarsi a posizioni anticonformiste. Qui sotto un estratto dalla prefazione di Giovanni Sessa a Le scuderie.


Crisi, per l’europeo moderno, è davvero parola chiave ed irrinunciabile. Da più di un secolo, dal momento in cui Oswald Spengler pubblicò il monumentale, Il tramonto dell’Occidente, siamo null’altro che abitatori della crisi. Da un punto di vista generale, sorvolando sulle numerose concause storiche a monte del processo di decadenza, non si può non concordare con chi ha sostenuto che, in fondo, la crisi altro non è che il risultato del venir meno delle premesse ideologiche dell’Illuminismo. Centrale, in tale progetto ideologico, fu il tentativo di: «subordinare la Natura [...] di reimpostare la natura [...] sul modello della Ragione». In tale tentativo prometeico era implicita la volontà di modificare, di cambiare la stessa natura umana. Il Cesarismo, auspicato da Spengler quale possibile rimedio all’ineluttabile tramonto dell’Europa, ha segnato di sé la storia e gli uomini nel ventennio tra il 1920 ed il 1945 ma, alla fine del conflitto, la sua sconfitta è risultata irrimediabile. In ogni caso, l’esperienza dei fascismi europei, tentò di mettere in atto, una rettifica dei processi di decadenza, nel senso indicato da Evola nel 1934 in Rivolta, con la tematizzazione del ciclo eroico. Fino ad allora, la letteratura della crisi ed il pensiero negativo si erano mossi tra dicotomie quali quelle di Kultur (Civiltà) e Zivilisation (Civilizzazione), nelle quali, da una parte venivano colti i tratti negativi, massificanti ed economicistici del presente, esperito quale guénoniano Regno della quantità e: «dall’altra il loro opposto positivo [...] epoche di civiltà ed epoche di cultura».

Tale tendenza, dopo il secondo conflitto mondiale, nei pensatori antimoderni e critici del presente, si esasperò, pur trovando in alcuni di essi potenziali interpreti di un possibile Nuovo Inizio: il loro sguardo sul mondo non era, sic et simpliciter, retroflesso, rivolto al passato, ma mirato a rintracciare, nel presente, energie spirituali e politiche per modificare lo stato delle cose. Ci riferiamo, in particolare, a due libri che si richiamano reciprocamente nei contenuti e nelle titolazioni: Gli uomini e le rovine di Julius Evola e Le scuderie dell’Occidente. Trattato di morale di Jean Cau, che qui introduciamo. Il titolo che abbiamo dato a queste note, Urlo sulle rovine, fu utilizzato dall’autore per un paragrafo di quest’opera. Ci pare che, per presentare degnamente questo volume al lettore di oggi, e per poterne così rilevare il tratto attuale e profetico, sarebbe sufficiente utilizzare le parole che il Principe Junio Valerio Borghese spese per il libro di Evola: «Lo spirito che anima questa coraggiosa parola rivolta essenzialmente agli uomini - nella loro virilità, nella loro dignità personale e civile, in una parola nell’aspetto superiore del loro essere - troverà largo consenso in tutti coloro che come noi, credono che non di solo pane vive l’uomo, che lo sviluppo e l’affermazione della personalità umana è possibile solo attraverso una visione eroica della vita, che il fattore economico è importante ma non prevalente e tantomeno esclusivo nel fare la vera Storia». Il filosofo tradizionalista dette alle stampe, Gli uomini e le rovine nel 1953, facendo i conti con la fine di un mondo, e rivolgendosi a quanti, nello sconquasso generale indotto dalla sconfitta, erano in grado di «restare in piedi tra le rovine». Cau scrisse il suo libro vent’anni dopo, negli anni Settanta: in quel frangente si manifestò un’accelerazione senza precedenti dei processi dissolutivi che determinarono la nascita di ciò che, in sociologia, è stata chiamata la società liquida e post-moderna. Da allora viviamo permanentemente nello Stato di crisi. Sono venute meno le «certezze» della modernità solida e, a tutta prima, sembrerebbe, come sostenuto da Bauman, sia svanita definitivamente ogni grande narrazione, sia essa rivolta al futuro o al passato. Da qui il tratto individuale, da anarca, assunto dall’urlo che Cau ha lanciato dalle pagine de Le scuderie dell’Occidente. Del resto, anche Evola, dopo aver sperato in una ripresa politica nell’immediato nel 1953, notava al contrario, in termini realistici, nella Nota introduttiva dell’edizione del 1958 del suo libro: «Il​ presente libro fu scritto non senza relazione con una determinata situazione italiana [...] Purtroppo le possibilità che sembrava si delineassero non hanno avuto sviluppo alcuno e il processo di franamento politico e morale [...] è continuato». Preso atto di tale contesto storico-esistenziale, Cau, negli anni Settanta, comprese essere un’impossibilità: «ragionare di dentro alla ragione del giorno d’oggi e scoprire, nel Sistema, un rimedio ai nostri malanni [...] Per cavarci di lì bisogna pensare l’opposto. E dopo tutto che importa se l’avvenire ci dà torto?». Quello del francese è un antimodernismo radicale, meglio, come si vedrà nel prosieguo di queste pagine, un urlo sulle rovine: «di lupo a cui riempie la gola la morte che l’avvolge», coraggioso ululato di chi ha deciso di non arrendersi. Lo scrittore transalpino si paragona ad una cellula che: «entro un corpo, rifiuti la decrepitezza e la morte del complesso», laddove il corpo è quello flaccido della società borghese e dei suoi valori in disfacimento, che divengono il principale obiettivo critico del polemista. L’urlo sulle rovine di Cau, la sua protesta spirituale, prima che culturale e politica, di cui le pagine di questo volume si fanno latrici, è il risultato della sua ascendenza contadina, di un’infanzia rurale, povera, semplice, sensibile al corso della natura, ai suoi ritmi. Un’educazione sentimentale quella di Cau, di cui egli ci dice in passaggi carichi di emozione e di nostalgia, ne Le scuderie dell’Occidente. E’ bene, per avere acconcio accesso ai contenuti del volume, partire da lì, dai paesaggi naturali ed interiori della Linguadoca e dal Midi di Jean Cau. Jacques Maritain, filosofo cattolico, a conclusione del Concilio Vaticano II, sentì la necessità di scrivere un libro che mettesse in guardia la Chiesa dai rischi neomodernisti, cui andava incontro. Si tratta de, Il contadino della Garonna. Ecco, il libro che il lettore ha tra le mani, vuole metterlo in guardia dalla deriva nichilista che si annunziava fin dai primi anni Settanta, e che oggi assedia le nostre vite con estrema virulenza. Nelle sue pagine aleggia il ricordo di un mondo altro, quello che Cau conobbe in Linguadoca, attorno al focolare familiare. Cau nacque l’8 luglio 1925 a Bram, nei pressi di Carcassonne, nella regione dell’Aude, nel Sud della Francia: «I miei avi, non ne dubito, sono contadini fin dalla notte dei tempi, e la nobiltà del mio ceppo e della mia razza sta in ciò, che non abbiamo mai acquistato né venduto nulla». Queste parole marcano il tratto anti-borghese del nostro autore che, di seguito, in questi termini presenta i propri antenati. Il nonno paterno Michele, forte come una quercia ma, al contempo, mite, gli trasmise l’amore per i cavalli. Il cavallo fu compagno d’avventure dell’infanzia dello scrittore. Amava strigliarlo nelle scuderie, mentre l’animale: «voltava ogni tanto la testa e diceva la sua amicizia coi suoi larghi occhi umidi»: il nobile quadrupede assumerà ben presto, nell’immaginario dello scrittore, le fattezze del destriero del Cavaliere di Dürer, simbolo della visione del mondo di Cau. Il Cavaliere è l’alter ego di Cau che, isolato, lanciava l’urlo contro il tempo in cui gli era stato concesso di vivere. Marcello Veneziani ritiene che: «Il cavaliere di Dürer, riletto da Cau, costituì un breviario del pessimismo eroico che animò la gioventù di destra degli anni Settanta. Era la cultura aristocratica della nobile sconfitta, eroica e disperata, che si nutriva dell’Autarca di Evola e dell’Anarca di Jünger, il ribelle che passa al bosco». Quello di Cau più che pessimismo eroico fu, per chi scrive, «realismo eroico», in quanto il Cavaliere-Eroe è colui che, agendo, ridona forma al mondo, confrontandosi criticamente con ciò che il pensatore francese definì l’anti-vita, lo spirito che sempre nega, incapace del Si alla terra di cui disse Nietzsche. La vita per Cau non ha valenza morale, ma estetica. Per questo, al primato della «verità», nota de Benoist, egli: «oppone il reale».