Nell’episodio 10 della terza stagione della geniale serie di cartoni animati “Rick and Morty”, compare un funzionario che dà questa notizia al presidente americano: “Israele e Palestina hanno annunciato una tregua permanente: hanno firmato una certa cosa chiamata Accordo Abbastanza Ovvio Se Ci Pensi”. Ineccepibile.
Da lunghi anni tutti sanno quali sarebbero i termini di un plausibile accordo di compromesso territoriale fra israeliani e palestinesi. Il guaio è che questo Accordo Abbastanza Ovvio Se Ci Pensi è già stato ripetutamente proposto da parte israeliana, e ripetutamente respinto da parte palestinese. Anche questo lo sanno tutti, ma quasi tutti preferiscono chiudere gli occhi e dimenticarsene.
"Rick and Morty", stagione 3, episodio 10 |
È del tutto legittimo discutere e criticare il piano Trump o la progettata “annessione unilaterale” di parti della Cisgiordania. Meno legittimo, e un po’ indecente, è discettare e condannare piani e progetti facendo finta che non sia mai esistito il reiterato rifiuto palestinese di accordi che avrebbero dato vita già da tempo a uno stato palestinese praticamente sul 100% dei Territori e capitale a Gerusalemme est.
Pochi giorni fa settanta parlamentari italiani del centrosinistra e del M5S hanno firmato una lettera in cui chiedono al presidente del consiglio Giuseppe Conte di “condannare nel modo più esplicito” l’intenzione israeliana di annettere “alcuni territori della Cisgiordania”, definendola “una pietra tombale … sulla prospettiva di due popoli e due stati che convivano in pace e sicurezza reciproca”. Nella lettera dei parlamentari italiani (così come negli appelli rivolti al governo Netanyahu-Gantz dal presidente francese Emmanuel Macron, dal premier britannico Boris Johnson, dal premier spagnolo Pedro Sanchez, nonché nelle minacce formulate dal rappresentante della politica estera europea Josep Borrell) non compare una sola parola su quei rovinosi rifiuti palestinesi, che sono la vera “pietra tombale” su ogni concreta proposta di soluzione a due stati.
(E fossero solo i palestinesi. Proprio in questi giorni ricorre il ventesimo anniversario del ritiro delle truppe d’Israele dalla fascia di sicurezza nel Libano meridionale. Due mesi prima di quel ritiro, Amos Oz scriveva su Haaretz: “Nel momento stesso in cui ce ne andremo dal Libano meridionale dovremo cancellare la parola Hezbollah dal nostro vocabolario, giacché non avrà più alcuna importanza una volta che Israele sarà tornato al suo confine settentrionale internazionalmente riconosciuto”. Si è poi visto come sono andate le cose. Ma anche di Hezbollah e Iran non c’è traccia negli accorati appelli a Conte e a Netanyahu.)
Almeno da una quindicina d’anni, nel dibattito politico israeliano è diventato persino banale ricordare che i rifiuti palestinesi sono ciò che ha letteralmente devastato il campo della sinistra israeliana pro-concessioni e pro-stato palestinese. E che è da quei rifiuti che deve per forza ripartire qualunque ragionamento serio.
Un tentativo importante lo hanno fatto Einat Wilf e Adi Schwartz, due esponenti della sinistra sionista pro-stato palestinese che si sono riproposti di capire davvero da dove nasca l’intransigenza palestinese. Il risultato della loro ricerca è un libro uscito in Israele nel 2018, ed ora in inglese col titolo The War of Return: How Western Indulgence of the Palestinian Dream has Obstructed the Path to Peace (La guerra del ritorno: come l'indulgenza occidentale verso il sogno palestinese ha bloccato il cammino per la pace). E chissà che il panorama editoriale italiano, dove non mancano mai gli Ilan Pappé, le Amira Hass e i Charles Enderlin, possa presto arricchirsi della traduzione di questo prezioso lavoro.
Con ampia documentazione, dovizia di particolari e buona capacità di sintesi, Wilf e Schwartz sostengono che, se si vuole arrivare alla pace, è necessario che i palestinesi abbandonino il cosiddetto "diritto al ritorno". Questo infatti, secondo gli autori, è il vero nodo gordiano, che precede e sovrasta questioni come la spartizione del territorio, la politica degli insediamenti (che disapprovano) e persino Gerusalemme.
È sul mito del ritorno che si è costruita in settant’anni l’identità nazionale arabo-palestinese, incardinata nell’idea che l’unica soluzione al problema dei profughi, e al conflitto nel suo insieme, sia tornare alla situazione pre-1947. Nessun leader palestinese potrà mai accettare qualcosa meno di un pieno e incondizionato riconoscimento del loro inalienabile “diritto al ritorno”. Il guaio è che il “diritto al ritorno” non è un diritto, non è un ritorno e comunque è irricevibile.
Wilf e Schwartz ricordano gli scambi di popolazione internazionalmente considerati normali e persino auspicabili almeno fino a tutto il secondo dopoguerra, e le centinaia di milioni di profughi che nel XX secolo sono stati reinsediati e riabilitati senza alcun “diritto al ritorno”, da quelli di India e Pakistan ai tedeschi orientali, dai nord-coreani agli italiani di Istria e Dalmazia, fino agli stessi ebrei cacciati dai paesi arabi.
E ricordano che la stragrande maggioranza dei 5 milioni e mezzo di “profughi” palestinesi oggi assistiti dall’Unrwa non hanno mai messo piede in terra palestinese, molti altri al contrario vi si trovano già e sotto governo palestinese (nell’Autorità Palestinese e a Gaza), altri ancora hanno acquisito la cittadinanza di paesi terzi: per cui quasi tutti non sono nemmeno definibili “profughi”.
E sottolineano che la sempre citata Risoluzione 194 del 1948 non era vincolante, era composta da 15 articoli che delineavano una complessiva pace arabo-israeliana motivo per cui fu rifiutata dai paesi arabi, e che solo l’art. 11 si occupava dei profughi citando il rimpatrio come una delle opzioni possibili e senza mai menzionare la parola “diritto”.
E documentano il cinico, spesso esplicito, sfruttamento politico della condizione dei profughi messo in atto per decenni dai paesi arabi. Soprattutto, narrando il ruolo controproducente, deleterio, a tratti assurdo svolto per decenni dall’agenzia Unrwa con finanziamenti internazionali, Wilf e Schwartz puntano il dito non tanto sull’irredentismo palestinese, che è frutto della loro condizione, bensì sulla condiscendenza con cui il resto del mondo ha alimentato e continua ad alimentare l’illusione palestinese di voltare all’indietro le pagine della storia.
E ci informano che l’Olp definisce “inalienabile e individuale” il “diritto” dei profughi e dei loro discendenti a stabilirsi, non nel futuro stato di Palestina, bensì dentro Israele. Vale a dire che né Abu Mazen, né l’Autorità Palestinese, né la stessa Olp sono depositari di tale “diritto” e che pertanto non possono negoziarlo né tantomeno cederlo. Secondo questo punto di vista, Israele dovrebbe accettare di mettere la propria sovranità, a tempo indefinito, nelle mani di ogni singolo profugo o discendente di profugo palestinese, qualunque cosa si intenda con questo termine.
“Se Israele accettasse tale principio – notano Wilf e Schwartz – spalancherebbe la porta alla reiterata e illimitata richiesta della sua applicazione”. Sarebbe la realizzazione per via giuridica del progetto di creare sì due stati fra il Giordano e il mare: ma uno esclusivamente arabo, l’altro arabo con una (mal tollerata) minoranza ebraica. “E’ tempo che la comunità internazionale si renda conto che la visione palestinese di una terra esclusivamente araba dal Giordano al Mediterraneo è effettiva – scrivono Wilf e Schwartz – e che nessuna pace sarà possibile se questa visione non viene sostituita da un’altra che non neghi l’autodeterminazione ebraica”, cioè “non pretenda la fine di Israele”.
Il maggiore ostacolo a una autentica prospettiva di pace, secondo i due autori, è stata la creazione di questa sorta di perenne “profughismo”, al punto che “la convinzione dei palestinesi di essere profughi eterni, titolari per nascita di un diritto al ritorno dentro Israele, si è profondamente radicata nell’identità stessa palestinese e nel suo ethos collettivo”.
I loro movimenti differiscono su tempi e modi per realizzare l’obiettivo, ma non c’è una sola voce palestinese che esorti a superare questa forma di sterile revanchismo e andare oltre, come fece Willy Brandt nel famoso discorso del 7 dicembre 1970 quando disse ai profughi tedeschi orientali che i territori da cui erano stati brutalmente espulsi erano definitivamente perduti e il ritorno “una rivendicazione irrealizzabile”.
Bisogna capire, scrivono Wilf e Schwartz, che per i palestinesi “il ritorno non è una carta da usare nel negoziato per raggiungere l’obiettivo principale dell’indipendenza. Il ritorno è l’obiettivo principale”, in nome del quale hanno più volte rinunciato all’indipendenza. Perché “la guerra lanciata più di settant’anni fa per impedire il piano Onu di spartizione e la nascita di uno stato ebraico entro qualunque confine non è mai finita”.
Dunque, “la risoluzione del conflitto non sta nel trovare soluzioni tecniche su confini, insediamenti e nemmeno su Gerusalemme, ma innanzitutto nel convincere il mondo arabo-musulmano, e in particolare i palestinesi, ad accettare il diritto degli ebrei ad esercitare la loro sovranità” in Medio Oriente. Quando i palestinesi lamentano che “riconoscere la legittimità di uno stato ebraico” equivarrebbe a “rinunciare al diritto al ritorno”, la risposta internazionale dovrebbe essere: “Sì, significa proprio questo”. Solo così si potrà aprire la strada a uno stato palestinese che viva a fianco di Israele in pace e sicurezza reciproca. Poi tutto il resto è trattabile. Ma vallo a spiegare a Borrell e ai settanta parlamentari italiani.
(Marco Paganoni, direttore di Israele.net, via Informazione Corretta)