"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Salvagente di piombo

Anche grazie all'opzione pauperistica dell'attuale pontificato, si torna a parlare insistentemente di Teologia della Liberazione: "un salvagente di piombo per i poveri", definizione ironica del teologo gesuita Horacio Bojorge e anche titolo di un documentato libro di Julio Loredo.

Dove leggiamo: «Dopo l’Istruzione Libertatis Nuntius della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 1984, e il venir meno della prassi storica che gli serviva da vettore, cioè il socialismo reale, la Tdl entrò in un lungo crepuscolo. Mentre alcuni suoi alfieri, come Gustavo Gutiérrez e il brasiliano Clodovis Boff, facevano mezze mea culpa, altri si riciclavano in correnti teologiche più aggiornate. Al ruggente dinamismo degli anni Sessanta-Ottanta, seguì un lungo letargo, favorito anche dal mancato ricambio generazionale. Dopo anni di socialismo e di rivoluzioni, anche l’America Latina entrò in una nuova fase storica, con l’affermarsi in diversi paesi di sistemi economici in netto contrasto con quelli preconizzati dalla Tdl. Tali sistemi hanno determinato un forte sviluppo economico e, di conseguenza, un altrettanto forte calo della povertà, permettendo a queste nazioni, fra cui il Perù, di diventare “paesi emergenti”. L’immane crisi economica mondiale, però, sembra aver cambiato le carte in tavola».

Leonardo Boff, uno degli esponenti di spicco
della Teologia della Liberazione

Ecco, «la crisi, interpretata troppo in fretta come il fallimento del libero mercato, ha ridato vita a correnti socialiste da tempo fossilizzate. La sinistra è tornata a governare importanti paesi latinoamericani, rilanciando politiche stataliste che sembravano ormai superate. E, dalle brume del passato, viene riesumato anche lo spettro della Tdl. In pochi mesi, questa corrente rivoluzionaria è balzata dalla notte dei tempi alle pagine di Avvenire e dell’Osservatore Romano, insinuandosi perfino nella Curia romana. Non si tratta, è chiaro, della vecchia Tdl marxista, truculenta, amica della violenza guerrigliera e dei dittatori. Questa volta la Tdl si presenta senza Kalashnikov, unicamente come amica dei poveri. Si afferma che, depurata da alcuni aspetti del marxismo, essa potrebbe offrire risposte adeguate alle attuali situazioni di disagio. Ci si augura che essa possa ispirare una nuova coscienza sociale dopo anni di neoliberismo sfrenato che, se da un lato avrebbe aumentato la ricchezza di alcuni ceti sociali, dall’altro avrebbe creato estese sacche di povertà che non vanno dimenticate. “La teologia della liberazione sta vivendo una nuova primavera”, proclama il brasiliano Leonardo Boff, figura esponenziale della corrente».

Attenzione, però: «Per chi ha studiato, e ha anche “vissuto” sulla propria pelle la Tdl, la sua riesumazione, sia pure in versioni aggiornate, desta non poche perplessità e, perfino, apprensioni. Le perplessità ruotano su due assi:

– Si sente dire che il problema della Tdl sarebbe l’uso dell’analisi marxista. Rimosso il marxismo, o almeno una parte di esso, ecco che, invece di una Tdl “sbagliata”, ne avremmo una “corretta”. Niente di più riduttivo. In realtà, come vedremo nelle prossime pagine, l’uso dell’analisi marxista è quasi un “peccatuccio” di fronte a ben più gravi deviazioni teologiche e filosofiche. D’altronde, già dagli anni Ottanta gli stessi teologi della liberazione erano in procinto di riciclare il vecchio marxismo, completandolo con dottrine più consoni alla nuova stagione rivoluzionaria.

– Si sente anche dire che, nel contesto della grave crisi economica che stiamo attraversando, dopo anni di neoliberismo, una Tdl rinnovata sarebbe in grado di ispirare una nuova coscienza sociale che metta i poveri al centro delle attenzioni. Una tale coscienza sarebbe legittima, anzi auspicabile. Il problema è se la Tdl ne sia in grado. Un’analisi attenta dimostra, nella fattispecie, come la Tdl non sia tanto a favore dei poveri quanto della povertà stessa, ostinandosi nel proporre sistemi socio-economici rivelatisi, storicamente, fallimentari e gravemente nocivi nei confronti delle classi più disagiate, proprio quelle che si pretende di aiutare».

Per capire meglio cosa sia davvero la Teologia della Liberazione, riprendiamo per i nostri lettori questo articolo dalla rivista Tradizione Famiglia Proprietà dell'ottobre 2012.

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Le dottrine che poi avrebbero costituito la Teologia della liberazione sono state discusse nel corso di vari incontri internazionali negli anni Sessanta. Tra essi particolarmente emblematico è quello tenutosi a Cuba nell’agosto 1965 sotto l’egida di Fidel Castro.

L’espressione, già in uso dal teologo della liberazione uruguaiano Juan Luis Segundo dal 1959, è stata sdoganata dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez Merino, ritenuto perciò il “padre fondatore” della corrente, nel corso di un convegno dell’ONIS (Oficina Nacional de Información Social) a Chimbote, Perù, nel luglio 1968. Gutiérrez in pratica, ampliò e aggiornò la propria tesi di laurea che, sotto l’egida di Henri de Lubac, aveva presentato alla facoltà gesuita di Lyon-Fourvière e ne trasse un libro. Che col titolo «Una Teología de la Liberación. Perspectivas», divenne la pietra miliare della corrente. “Questo libro — commenta Segundo — è stato come un battesimo. Ma il bimbo era già alquanto cresciuto”.

Siamo alla vigilia della I Assemblea Generale del CELAM (Conferenza Episcopale Latino Americana) a Medellín, Colombia, in cui gli esponenti della corrente liberazionista ebbero un ruolo preponderante. La presenza di Papa Paolo VI conferì ulteriore autorevolezza all’incontro, che da più parti cominciò ad essere chiamato “il Vaticano II della Chiesa latino-americana” che avrebbe attuato una “svolta copernicana” nel continente.

L’assise è infatti considerata un evento spartiacque nella storia della Chiesa in America Latina, che avrebbe finalmente rotto col suo passato “medievale” lanciandosi nell’avventura progressista. Al di là del vero tenore dei documenti, lo “spirito di Medellín” comincia a soffiare fortissimo, spostando vasti settori ecclesiastici sempre più a sinistra.

Questo ‘68 ecclesiastico si innestava, dunque, in un processo politico rivoluzionario che, sotto l’influsso di Cuba, vedeva un certo numero di paesi latino-americani passare all’orbita sovietica. Nei paesi con governi non comunisti la Teologia della liberazione spingeva invece i cattolici all’opposizione, perfino armata. In Colombia, per esempio, emulando Camilo Torres Restrepo, un certo numero di sacerdoti si unirono al gruppo guerrigliero ELN (Ejército de Liberación Nacional), autodefinitosi “marxista-leninista-cristiano” (sic).

È in questo clima surriscaldato che viene alla luce, nel 1971, il capolavoro di Gustavo Gutiérrez «Una Teología de la Liberación. Perspectivas».

“Fare teologia”

Quali sono i cardini di questa teologia?

Rovesciando il metodo teologico, che parte dalla Rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione per dedurre principii poi applicati alla realtà, i teologi della liberazione partivano dall’analisi di situazioni concrete, nella fattispecie le lotte rivoluzionarie in America Latina. “La teologia della liberazione — dice Gutiérrez — è un tentativo di comprendere la fede partendo dalla prassi storica concreta, liberatrice e sovversiva, dei poveri di questo mondo”.

Il rovesciamento avveniva col seguente raziocinio:

— la Rivelazione pubblica non si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, bensì continua lungo la storia e, anzi, nella storia (immanentismo storicista);

— concretamente, Dio si rivela in quei fenomeni che sono all’avanguardia del processo storico, vale a dire nei movimenti rivoluzionari (socialismo, comunismo), eufemisticamente chiamati “movimenti di liberazione”; 

— per analizzare questi fenomeni serve uno strumento di analisi politico e sociologico;

— oggi, il miglior strumento di analisi è il marxismo. “Il marxismo, come cornice teorica di tutto il pensiero filosofico contemporaneo non può essere superato”, asseriva P. Gustavo Gutiérrez. “Oggi, per la teologia della liberazione — spiegava a sua volta Luis Alberto Gomes de Souza — non esiste strumento migliore che il marxismo, che è immerso nella praxis della realtà”.

I teologi della liberazione adottavano quindi l’analisi marxista, la applicavano ai fenomeni sociali e politici, salvo poi spacciare le conclusioni — ovviamente condizionate dal metodo di analisi — come “teologia”... 

D’altronde, la Teologia della liberazione non si presentava come una scuola di pensiero (questo sarebbe un “intellettualismo” assolutamente da rigettare) bensì come una “praxis”, e concretamente una praxis rivoluzionaria. “La teologia della liberazione suppone una situazione rivoluzionaria”, spiegava il liberazionista Gregory Baum. “Ciò che intendiamo per teologia della liberazione è il coinvolgimento nel processo rivoluzionario”, sentenziava Gustavo Gutiérrez.

Ecco perché i teologi della liberazione parlano di “fare teologia”, vantando il “primato della praxis sulla riflessione”, un concetto di chiara derivazione marxista (l’undicesima «Tesi su Feuerbach»). “Prima di fare teologia dobbiamo lottare per la liberazione — scrivono i fratelli Leonardo e Clodovis Boff — Il primo passo della teologia è il coinvolgimento nei processi di liberazione degli oppressi”.

La simbiosi col comunismo

Mossi dal desiderio di “fare teologia” partecipando ai processi di “liberazione”, i seguaci di questa corrente cominciarono a impegnarsi nelle lotte politiche della sinistra, a volte come protagonisti a volte come fiancheggiatori. Non pochi giunsero perfino a partecipare alla lotta armata. La manovra riusciva loro facile, visto che condividevano con Mosca lo stesso scopo: l’instaurazione del comunismo.

“Comunismo e Regno di Dio sulla terra sono la stessa cosa”, affermava P. Ernesto Cardenal. “Troviamo i valori del Regno di Dio nel socialismo reale sovietico”, rincarava a sua volta frà Leonardo Boff.

Lo stesso Gustavo Gutiérrez era piuttosto esplicito: “Dobbiamo attuare una rivoluzione sociale che rompa lo status quo e introduca la nuova società, la società socialista”.

In questo modo il comunismo, che di per sé sarebbe rimasto un fenomeno marginale in America Latina, ha visto convergere nelle sue fila masse di cattolici, con l’esplicita o implicita connivenza di non pochi presuli. Rimarrà tristemente celebre nella storia, per esempio, la protesta, nel 1985, di ben diciassette vescovi brasiliani contro le misure disciplinari inflitte dal Vaticano nei confronti di Leonardo Boff.

Da parte sua, Mosca apprezzava molto questi “compagni di viaggio”. A conferma di ciò si contano a centinaia gli interventi a loro favore da parte di organi legati al Komintern.

Impossibile elencare, nell’angusto spazio di un articolo, i casi di simbiosi fra cattolici e comunisti. Basti menzionare il deciso appoggio della corrente liberazionista alle dittature filo-comuniste dei generali Juan Velasco Alvarado in Perù e Juan José Torres in Bolivia, nonché al governo marxista di Salvador Allende in Cile. Più recentemente, appoggiano Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador.

Non furono pochi coloro che giunsero alla lotta armata. È nota, per esempio, la partecipazione di cattolici nel MIR (Movimiento de izquierda revolucionaria) in Cile, nell’ELN (Ejército de liberación nacional) in Colombia, nei Tupamaros (Movimiento de liberación nacional) in Uruguay, nell’ALN (Aliança libertadora nacional) in Brasile, e via dicendo. Ma forse il caso paradigmatico è costituito dalla massiccia partecipazione di cattolici provenienti dalle comunità ecclesiali di base nella guerriglia sandinista, in Nicaragua, che nel 1979 ha rovesciato il governo instaurando una dittatura filo-sovietica.

Il governo sandinista era sostenuto da alcuni vescovi. Uno di loro, mons. Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, in Brasile, partecipando ad una riunione con guerriglieri sandinisti non esitò ad indossare la loro divisa militare, dichiarando: “Vestito da guerrigliero mi sento parato da sacerdote. La guerriglia e la Messa sono la stessa celebrazione”.

In questo era appoggiato dal cardinale di San Paolo, Paulo Evaristo Arns, che incitava i cattolici brasiliani a trascorrere periodi di addestramento per la guerriglia in Nicaragua.

La condanna del 1984

Dopo anni di crescenti tensioni, il Vaticano finalmente si pronuncia in merito alla Teologia della liberazione, esprimendo un giudizio negativo largamente interpretato come una condanna. Parliamo della «Libertatis Nuntius. Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della liberazione», emanata il 6 agosto 1984 dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede e firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Dopo aver affermato che la liberazione è un tema cristiano, con fondamenti sia nelle Sacre Scritture che nel Magistero della Chiesa, il documento critica la deturpazione che ne fa la TdL, considerandola esclusivamente nei suoi connotati sociali, politici ed economici. In particolare viene stroncato l’uso dell’analisi marxista, definita “principio determinante” della TdL: “Questa concezione totalizzante impone anche la sua logica e trascina le teologie della liberazione ad accettare un insieme di posizioni incompatibili con la visione cristiana dell'uomo. In realtà, il nucleo ideologico, mutuato dal marxismo, al quale ci si riferisce, esercita la funzione di principio determinante”.

L’Istruzione censura poi il sovvertimento del concetto di verità, ritenuta dai teologi della liberazione non un valore in sé bensì qualcosa che va verificato nella prassi. “Proprio per il ricorso a queste tesi di origine marxista — afferma il documento — viene messa radicalmente in causa la natura stessa dell’etica. Infatti, nell’ottica della lotta di classe viene implicitamente negato il carattere trascendente della distinzione tra il bene e il male, principio della moralità”.

L’Istruzione vaticana conclude affermando che la TdL “si discosta gravemente dalla fede della Chiesa, anzi, ne costituisce la negazione pratica”.

Salutando l’Istruzione come un passo positivo, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira all’epoca scrive sul maggiore quotidiano brasiliano: “È per me un dovere di giustizia esprimere la gioia, la gratitudine e la speranza, per l’arrivo di questo getto d’acqua fresca in mezzo all’incendio. So che molti fratelli nella fede estrinseci alla TFP si astengono da simili sentimenti perché pensano che un solo getto d’acqua non è sufficiente per spegnere l’incendio. Anch’io credo che un solo getto non basta. Ma ciò non m’impedisce di salutarlo come un beneficio”.

L’illustre pensatore cattolico chiude l’articolo augurandosi che all’Istruzione seguano altri passi ugualmente positivi: “Tutto questo costituisce un buon auspicio. Sta nella logica stessa dell’Istruzione il timore per la diffusione degli errori della Teologia della liberazione. Ora, questi errori dilagheranno se non mettiamo ostacoli dottrinali e pratici. È nostro dovere sperare che questi ostacoli vengano messi”.

Purtroppo, questa speranza è stata solo in parte esaudita.

Liturgia e rivoluzione

Il 28 febbraio 1980 si tenne nel teatro della Pontificia Università Cattolica di San Paolo, Brasile, una “serata guerrigliera”, sotto l’alto patrocinio del cardinale Paulo Evaristo Arns, arcivescovo di San Paolo.

L’incontro faceva parte del IV Congreso Internacional Ecumenico de Teologia, al quale parteciparono 160 vescovi, sacerdoti, suore e laici impegnati nel movimento della Teologia della liberazione in America Latina. Il peruviano Gustavo Gutiérrez fu uno dei relatori principali.

Ospiti d’onore alla serata erano guerriglieri “sandinisti”, con a capo il presidente del Nicaragua Daniel Ortega, accompagnati da P. Uriel Molina, presentato come “cappellano della guerriglia”. I sandinisti avevano appena preso il potere in Nicaragua, dopo una sanguinosa guerra civile, e volevano insegnare ai cattolici latino-americani la formula di tale successo, affinché potessero replicarlo nei loro rispettivi paesi. Era un aperto incitamento alla lotta armata. Il clima era di rovente entusiasmo.

Al culmine della serata, l’avvocato Idibal Piveta presentò una divisa militare da guerrigliero a mons. Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, Brasile. Indossandola, il prelato entrò in una sorta di “estasi”, dichiarando: “Vorrei ringraziare questo sacramento di liberazione che ricevo con i fatti e, se ce ne fosse bisogno, anche col sangue! Vestito da guerrigliero io mi sento come parato da sacerdote. La guerriglia e la Messa sono la stessa celebrazione che ci spinge verso la stessa speranza. Dobbiamo testimoniare il nostro impegno fino alla morte!”.

Mons. Casaldaliga, però, contava su appoggi altolocati. Tre anni prima, tornando da Roma e rispondendo alle critiche dei cattolici brasiliani nei confronti del vescovo progressista, il cardinale Paulo Evaristo Arns aveva infatti dichiarato: “Ho sentito dallo stesso Paolo VI che toccare mons. Pedro Casaldaliga è come toccare il Papa”.

Una Madonna socialista?

Dopo aver creato una nuova cristologia (Gesù il leader rivoluzionario della Galilea, il liberatore politico del suo popolo), la Tdl crea una nuova mariologia. La Madonna è vista come una militante rivoluzionaria che si ribella al sistema oppressore che ha ammazzato suo Figlio.

La Madonna della Tdl è una rivoluzionaria che “disperde i superbi” e “rovescia i potenti dai troni”. Ella viene identificata come una leader nelle lotte politiche per la liberazione. Per esempio, parlando della Madonna di Guadalupe, il teologo della liberazione messicano Andrés Guerrero scrive: “Guadalupe è un simbolo che apre per noi, messicani, una nuova visione storica. Politicamente, Guadalupe è dalla parte degli oppressi. Economicamente, Guadalupe è contro il capitalismo. La Madonna di Guadalupe appoggia un governo socialista. Teologicamente, è la promessa del nuovo socialismo che sorgerà dalla nostra esperienza di liberazione”.

Un nuovo concetto di verità

La Teologia della liberazione non si presenta come una scuola di pensiero bensì come una “praxis”, nel senso marxista del termine, cioè un’attività tesa a trasformare la realtà. “Ciò che noi intendiamo per praxis è l’azione di trasformazione storica” spiega Gustavo Gutiérrez. Questo implica un nuovo concetto di verità, non più intesa come ortodossia, ma come ortoprassi.

Secondo la dottrina cattolica, dal punto di vista teologico la Verità è lo stesso Dio; dal punto di vista filosofico è adaequatio intellectus et rei; dal punto di vista morale è la virtù della veracità, sincerità o franchezza.

Il marxismo realizza una “rottura epistemologica” illustrata nell’undicesima «Tesi su Feuerbach» di Marx: “Finora i filosofi hanno cercato di spiegare la realtà. Adesso devono cominciare a cambiarla”. Nella seconda Tesi afferma Marx: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero”.

È proprio questo il senso adottato dalla Tdl. “La nozione di verità — scrive il teologo della liberazione Hugo Assman — si identifica con la nozione di praxis efficace. (...) Noi concepiamo la fede come praxis”. “Il criterio per una teologia vera — ribadisce Juan Luis Segundo — non consiste in un’ortodossia elaborata dalla stessa teologia, ma nell’efficacia concreta, reale, materiale della liberazione storica”.

Secondo la Tdl, la salvezza eterna non dipende dall’assenso alle verità della Fede e dalla conseguente pratica delle virtù cristiane, bensì dall’efficacia della praxis rivoluzionaria. “La verità che è pensata non ci salverà — scrive Frà Leonardo Boff — bensì la verità che è fatta e realizzata nella praxis”.

Difesa dei poveri? Solo di quelli “in lotta”

I teologi della liberazione affermano di voler difendere i poveri. Anzi, tutta la loro teologia avrebbe i poveri come origine, come soggetto e come destinatario. “La storia di Dio passa necessariamente per i poveri — scrive il teologo gesuita spagnolo Jon Sobrino — Lo spirito di Gesù si incarna storicamente nei poveri (...) I poveri sono il vero locus teologicus per la comprensione della verità e della praxis cristiana”.

Locus theologicus”, espressione coniata nel secolo XVI dal teologo domenicano spagnolo Melchior Cano, vuol dire fonte o sorgente della teologia. Sdegnando la Rivelazione e la Tradizione come fonti della teologia, i teologi della liberazione si concentrano quasi esclusivamente sui “poveri”, perfino conferendo loro ciò che l’uruguaiano Juan Luis Segundo definiva pomposamente “il privilegio ermeneutico dei poveri in lotta”.

E già questa espressione ci dovrebbe mettere la pulce nell’orecchio. Non si tratta semplicemente dei poveri, ma dei “poveri in lotta”. “La teologia della liberazione — secondo Gustavo Gutiérrez — è un tentativo di comprendere la fede dall’interno della praxis concreta, storica, liberatrice e sovversiva dei poveri di questo mondo, delle classi oppresse, dei gruppi etnici disprezzati, delle culture emarginate”.

In altre parole, i “poveri” — ossia qualunque categoria sia ritenuta “oppressa”, “disprezzata” o “emarginata” — sono il locus theologicus della Teologia della liberazione solo quando coinvolti in una “praxis storica sovversiva”, cioè quando agiscono come agenti delle trasformazioni rivoluzionarie, sia per le vie pacifiche sia per quelle della violenza.

Un’analisi più attenta rivela come, per i teologi della liberazione, il vero locus theologicus non siano tanto i poveri quanto gli agenti rivoluzionari. “La praxis della liberazione è il luogo privilegiato della nostra riflessione”, ammetteva il teologo italiano recentemente scomparso Giulio Girardi.

Cosa succede, invece, quando il “povero” si comporta in maniera conservatrice, cioè quando non vuole fare il rivoluzionario? Ebbene, perde il suo “privilegio ermeneutico”...

“Una delle esperienze più sconvolgenti — si lamentava Girardi — è quando la liberazione è reputata impossibile dallo stesso popolo, dalle stesse classi lavoratrici che, secondo la nostra prospettiva, dovrebbero invece essere l’asse delle trasformazioni”.

Ma questo non scoraggia minimamente i teologi della liberazione. Con i poveri, senza i poveri, o anche contro i poveri, loro continuano imperterriti. “Perseguire l’utopia popolare — continuava Girardi — significa, e questo è forse l’aspetto più drammatico, darsi alla causa popolare senza contare sull’appoggio, e nemmeno sul riconoscimento del popolo. (...) È come sentirsi straniero nel proprio ambiente”.

Quando i “poveri” non sono “in lotta”, bisogna addirittura diffidare di loro. “Concordo con Juan Luis Segundo che il teologo della liberazione deve essere molto critico riguardo alle aspirazioni dei poveri — ammetteva P. Alfred Hennelly — Nei miei anni nel Terzo Mondo ho avuto ampia, direi quotidiana, esperienza di quanto i poveri interiorizzino le credenze dei loro oppressori, e della profondità e tenacità con la quale difendono queste credenze”.

Ecco quindi il vero volto dei teologi della liberazione: stranieri nel proprio ambiente. Vale a dire, non paladini dei poveri e interpreti delle loro aspirazioni, bensì incuranti del loro sostegno, perfino sdegnosi nei loro confronti, e impegnati invece in una lotta ideologica per l’instaurazione dell’utopia socialista.

Sviluppo e ricchezza? No, rivoluzione e povertà

La più grande incongruenza della Teologia della liberazione è forse la sua sfacciata apologia della povertà come ideale sociale.

“Vergogna del nostro tempo”

Nel secolo XX si sono confrontati due sistemi socio-economici. Uno fondato sulla proprietà privata, il libero mercato e lo sviluppo; l’altro sulla loro negazione. Per ciò che riguarda il benessere materiale, bisogna ammettere che la storia ha dato retta al primo. Mentre l’Occidente conquistava il più alto livello economico e tecnologico mai raggiunto da una società nella storia, il mondo comunista sprofondava invece in uno squallore tale da indurre il cardinale Ratzinger a definirlo senz’alcuna esitazione: “vergogna del nostro tempo”.

Il fallimento del socialismo reale nell’Est era così palese che nemmeno i suoi massimi leader riuscivano a nasconderlo. “Prima o poi l’URSS sarebbe finita — dichiarava Mikhail Gorbaciov — Era impossibile continuare a vivere in quel modo. Stavamo diventando sempre più deboli nei confronti dell’Occidente. Il Paese non si sviluppava e c’era un enorme malcontento. Così l’URSS non sarebbe durata più di vent’anni”. 

Quanto a Cuba — l’URSS tropicale — il salario medio oggi è ancora di soli US$ 18,00 al mese, il più basso dell’America Latina, “insufficiente per soddisfare i bisogni più elementari della popolazione”, come ha dovuto concedere il presidente Raúl Castro in un recente discorso all’Asamblea Nacional.

Eppure — oh mistero! — proprio la “vergogna del nostro tempo” viene presentata dai teologi della liberazione come modello per l’America Latina.

Nel 1985, un trio di teologi della liberazione — i fratelli Leonardo e Clodovis Boff, insieme al dominicano Frà Beto — si recarono a Cuba. Le impressioni sul regime di Fidel Castro sono riportate, sinteticamente, in una insolita «Lettera teologica su Cuba», scritta da Frà Clodovis. “Anche se la presenza della Chiesa è molto debole — il teologo commentava — quella del Regno è, invece, molto forte. (...) Il Regno di Dio è scritto nelle strutture cubane”.

Non potendo negare l’estrema povertà in cui versava l’antica “Perla delle Antille”, Frà Clodovis cercò di conferirgli un carattere spirituale: “C’è una grande sobrietà e austerità. Mi è piaciuta la vita ridotta all’essenziale. Per me l’austerità è un ideale di vita sociale. (...) Cuba mi è sembrata un’immensa comunità di religiosi che vivono la povertà evangelica”.

Alla «Lettera teologica su Cuba» fece seguito una non meno insolita «Lettera teologica sull’URSS», frutto di un viaggio compiuto nell’Unione Sovietica nel 1987. E anche qui, i teologi della liberazione notarono i “valori del Regno”: “Troviamo valori del Regno nel socialismo reale sovietico. (...) Lo Spirito Santo mostra la sua presenza nei processi rivoluzionari di liberazione, come la rivoluzione bolscevica del 1917”. E sottolinearono anche la povertà: “È impossibile non paragonare l’Unione Sovietica a un immenso convento, dove le persone vivono una vita sobria”.

Curioso: quando la povertà è causata dal socialismo, i teologi della liberazione vi scorgono i “valori del Regno”. Quando, invece, è causata dal libero mercato, diventa un’“oppressione” dalla quale bisogna “liberarsi”...

Opzione preferenziale per la povertà

Nel settembre 1990 si tenne a Madrid il X Congreso Internacional de Teología, organizzato dall’Asociación de Teólogos Juan XXIII. Tema: il futuro della Teologia della liberazione di fronte al crollo del socialismo reale. Dopo aver registrato il “profondo fallimento del socialismo reale nei Paesi del centro e dell’est europeo”, il Mensaje Final affermava: “Questo configura per noi una sfida: andare oltre il socialismo”. Per superare il fallimento del socialismo reale, loro tanto caro, i teologi della liberazione proponevano nientedimeno che una “società orientata dal principio di povertà”.

Non si trattava più di criticare la società capitalista perché non realizza in modo adeguato l’ideale di progresso e di benessere materiale, o perché lo realizza soltanto in beneficio di pochi; non si trattava più di fare un’opzione preferenziale per i poveri, nel senso di innalzarli, permettendogli quindi di partecipare al banchetto dell’abbondanza; non si trattava più di criticare gli eccessi del lusso o del consumismo. Si trattava di fare una critica alla ricchezza, all’abbondanza e al consumo in quanto tali, ritenuti “alienanti” e “falsanti” della persona umana. Non era più un'opzione per i poveri, bensì per la povertà.

“Nel mondo di oggi — spiegava il teologo spagnolo Jon Sobrino — si impone non più un’opzione fra ricchi e poveri, ma fra due principi contrastanti: quello della ricchezza e quello della povertà. Noi dobbiamo fare un’opzione per la povertà, dobbiamo assumere il principio della povertà come fondamento di tutto”. E concludeva proponendo “una società austera, oltre il consumo”.

La relazione più applaudita fu, senza dubbio, quella di Suor Mari Conchi Puy, delle Piccole Sorelle di Charles di Foucauld, che proclamò come ideale sociale “una povertà totale (...) unica alternativa alla società di consumo”.

Fu compito di Alberto Giráldez, nella relazione conclusiva del convegno, esporre senza veli la meta dei teologi della liberazione: “Il Regno di Dio si realizza solo in una società assolutamente carente di denaro. (...) Una società nella quale non esista il benché minimo scambio economico”. Una siffatta società presuppone “un cambio radicale di mentalità, perfino dei nostri neuroni”. All’idea di “proprietà-usufrutto” si deve sostituire quella di “autogestione comunitaria”. Solo questa società “porterà quella libertà cui noi tutti aneliamo”. Giráldez concludeva proponendo come modello le “grandi tribù (...) dove tutto è di tutti”.

Difesa della dittatura e della povertà

Tale incontrollata bramosia di rivoluzione e di povertà potrebbe spiegare due vistose contraddizioni nei teologi della liberazione. Si proclamano difensori della libertà, ma appoggiano con entusiasmo dittature militari, a patto che siano comuniste. Si proclamano paladini dei poveri, ma si ostinano a rifiutare un sistema economico che si è dimostrato capace di produrre un ampio benessere materiale, proponendo invece un sistema fallimentare, che ha provocato unicamente inopia e oppressione. Potendo scegliere lo sviluppo e la ricchezza, scelgono al contrario la rivoluzione e la povertà.

“Parliamo di rivoluzione, non di riforma; di liberazione, non di sviluppo; di socialismo, non di modernizzazione”, scrive Gustavo Gutiérrez.

Un’analisi attenta dell’America Latina — paese per paese — mostra chiaramente che, laddove sono state applicate le politiche proposte dai teologi della liberazione, il risultato è stato un notevole aumento della povertà e del malcontento. Laddove, invece, sono state applicate le politiche socio-economiche da essi aborrite, il risultato è stato un generale incremento nel benessere. Ancor oggi, nei regimi socialisti affini agli ideali dei teologi della liberazione — Venezuela, Bolivia, Ecuador, ecc. — la situazione sociale ed economica è sempre più cupa. Laddove, invece, si applicano politiche opposte — Cile, Perù, Colombia, ecc. — l’economia vola, e con essa tutti gli indicatori sociali.

Prendiamo per l’appunto un caso: il Perù, la patria di P. Gustavo Gutiérrez, il “padre” della Teologia della liberazione.

Il 3 ottobre 1968, un colpo militare condotto dal generale Juan Velasco Alvarado (1910-1977) rovesciava il governo democratico di Fernando Belaúnde, instaurando una dittatura militare di carattere “rivoluzionario, socialista e nazionalista”, secondo quanto dichiarato da Velasco in uno dei suoi primi discorsi. Il nuovo Regime militare intraprese un ambizioso piano per sovvertire il Paese fino alle fondamenta.

Mentre una legge per la riforma agraria liquidava la proprietà rurale, trasferendola nelle mani di cooperative ispirate ai kolchoz sovietici, una legge per le industrie ne stabiliva l’autogestione e una legge per l’educazione imponeva un curriculum unico dettato dal Governo. Per soffocare qualsiasi voce discordante, una legge per i media espropriava tutti i mezzi di comunicazione sociale.

Il risultato non si fece aspettare. Mentre le carceri si riempivano di oppositori politici, gli scaffali dei supermercati si svuotavano. Chi può dimenticare le lunghe attese per ottenere mezzo chilo di zucchero o di riso? Per quindici giorni al mese c’era il divieto di mangiare carne. Con la proibizione delle importazioni, sparirono dal mercato i prodotti di qualità e il tenore di vita si abbassò vistosamente. Il Paese entrò in uno stato di prostrazione economica e psicologica dal quale non si risolleverà per molti anni.

Il fiore all’occhiello del Regime era, senza dubbio, la Riforma agraria, fatta per demolire l’odiata classe dei proprietari terrieri. Proprio questa riforma si trasformò, in poco tempo, nel suo peggiore fallimento.

Un esaustivo studio condotto nel 1980 dall’Instituto de Estudios Peruanos, di orientamento marxista e, quindi, per niente sospetto di partito preso contro il Regime, rivelava: “Dieci anni dopo, il programma di riforma agraria era già paralizzato”. Il 68% delle cooperative rurali si erano praticamente sciolte. Tra quelle ancora funzionanti, il 78% mostravano “gravi problemi strutturali”. Il 47% non mantenevano nemmeno una contabilità... Le cooperative di produzione di zucchero, “dalle quali, visto il loro grande sviluppo prima della riforma agraria, si aspettavano risultati positivi”, hanno visto invece i loro bilanci crollare: 1.659 milioni di deficit nel 1976; 2.758 milioni nel 1977; fino a superare i 3.000 milioni nel 1978. Insomma, un disastro.

Il movimento della Teologia della liberazione spicca il volo proprio negli anni della dittatura filo-comunista di Velasco Alvarado, come espressione dell’appoggio dei catto-comunisti al processo rivoluzionario. 

Nemmeno dopo il “limazo” del febbraio 1975, quando la dittatura soffocò nel sangue una protesta popolare, causando 86 morti, 155 feriti e 1012 incarcerati, il sostegno dei teologi della liberazione venne meno. Anzi, la dittatura militare difendeva Gustavo Gutiérrez, ritenuto uno dei suoi sostenitori chiave.

A metà degli anni 1990, col varo di una nuova Costituzione, il Perù riuscì finalmente a esorcizzare i demoni del socialismo velaschista, riprendendo quindi le vie dello sviluppo. I risultati sono lì per chiunque voglia vederli. In meno di due decenni, il reddito pro capite è più che raddoppiato, la povertà si è dimezzata e la distribuzione della ricchezza è molto migliorata. Il grande beneficiario è stato il popolo. Quello stesso popolo che i teologi della liberazione vorrebbero ricacciare nelle grinfie della miseria socialista.

Pace e armonia? Anzi, lotta e conflitto

“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Nel cuore del messaggio cristiano troviamo il richiamo alla pace. Per la loro stessa natura, gli esseri razionali anelano ardentemente alla pace. La nostra condizione naturale è quella della tranquillità nell’ordine. Nel seno della famiglia, per esempio, si aspira naturalmente all’armonia risultante dalla pacifica convivenza fra i suoi membri. Dice S. Agostino: “Come infatti non v’è alcuno che non voglia godere, così non v’è chi non voglia avere la pace”.

Questo presuppone un atteggiamento amorevole nei confronti del prossimo, che è alla base dell’essere cristiano. “Dobbiamo desiderare il bene non solo per noi, ma anche per gli altri”, esortava S. Tommaso d’Aquino.

Su queste verità basilari, la Chiesa ha costruito una dottrina sociale sorretta dai concetti di ordine, di armonia e di equilibrio. Armonia interiore nelle persone, armonia nella famiglia, armonia fra le istituzioni, armonia fra le classi sociali, armonia fra le nazioni. La Chiesa rigetta i sistemi fondati sull’odio, sull’invidia e sullo scontro. 

Perciò, ribadendo la “necessità della concordia”, Papa Leone XIII insegnava nella Rerum Novarum: “La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie”.

Rabbia e insurrezione

Tutt’altro è l’atteggiamento dei teologi della liberazione.“La teologia della liberazione nasce da una tintura di rabbia”, rivela il teologo della liberazione americano Alfred Hennelly. “La teologia della liberazione inizia con l’insurrezione”, afferma a sua volta la teologa femminista Sharon Welch, dell’Università di Harvard. “La teologia della liberazione nasce dalla praxis sovversiva degli oppressi”, rincara Gustavo Gutiérrez. Rabbia, insurrezione, praxis sovversiva... La loro teologia è tutt’altro che armoniosa.

Per instillare negli “oppressi” questa rabbia, spingendoli verso una praxis sovversiva, la Teologia della liberazione applica capillarmente tecniche di “conscientizzazione”. Inizialmente elaborate dal pedagogo brasiliano Paolo Freire, queste tecniche, che più di uno ha paragonato ad un “lavaggio di cervello”, trasformano un pacifico cittadino in un rivoluzionario militante. Il metodo è pensato per indurre il paziente a rigettare la “coscienza primitiva”, cioè l’atteggiamento mansueto di chi accetta l’ordine stabilito, e farlo acquisire invece una “coscienza critica” che sfocia in una militanza rivoluzionaria. Solo all’interno di questa militanza si potrà “fare teologia”.

In questo senso, la Teologia della liberazione si configura come un vasto movimento teso a instillare l’odio, che poi sarà indirizzato alla lotta di classe. L’esatto opposto della dottrina sociale della Chiesa.

Dialettica hegeliana

La rabbia e la sovversione sono l’anima della Teologia della liberazione. Alla base troviamo una visione hegeliana della storia, secondo cui la sua forza motrice sarebbero le lotte dialettiche. “La lotta è un bisogno oggettivo”, proclama Frà Clodovis Boff. “La teologia della liberazione suppone una lotta rivoluzionaria”, dichiara Gustavo Gutiérrez.

Si tratta proprio dell’“eterno conflitto” denunciato da Leone XIII che, invece di produrre pace e armonia, genera “confusione e barbarie”.

Per i teologi della liberazione ogni realtà andrebbe analizzata sotto il prisma della conflittualità, mai dell’armonia o dell’unità.

Esempio tipico ne è la loro ecclesiologia, fondata sul conflitto dialettico base-gerarchia, cioè: laici-sacerdoti, chiesa discente-chiesa docente, preti-vescovi e via dicendo. “La lotta di classe esiste nella stessa Chiesa — afferma Gutiérrez — l’unità della Chiesa va ritenuta, con ragione, un mito che deve scomparire”. “L’attuale chiesa porta la stessa contraddizione di classe della società capitalista — leggiamo in un documento del 1975 — C’è una vita ecclesiale che domina e opprime, e un’altra che è dominata e oppressa”.