“A sentir tanti critici, prodi in armeggiare e duri di testa se non saldi di braccio, l’attualismo sarebbe morto da un pezzo e seppellito. MA QUESTO MORTO NON LI LASCIA IN PACE […]” [maiuscolo nostro].
In questi termini, nella prefazione alla sesta ed ultima edizione della Teoria generale dello spirito come atto puro, Giovanni Gentile parlava del suo sistema filosofico, cioè l’attualismo. Sebbene effettivamente l’eco dell’attualismo non fosse - momentaneamente - affatto smorzata dalle critiche antidealistiche mosse più per avversione ideologica che per ardore filosofico, le summentovate parole potrebbero essere riferite idealmente alla persona stessa di Gentile. Dico “idealmente” perché, a causa del passato fascista di Gentile e della rivoluzionarietà del suo sistema filosofico che mette in crisi l’odierno realismo scientistico, in realtà la persona di Gentile e la sua memoria storica sono vittime di azioni di cancellazione perpetrate dagli obliatori che portano avanti la sterile retorica dell’antifascismo.
Lapide nei pressi della tomba di Giovanni Gentile, basilica di Santa Croce, Firenze |
Resta dunque ai pochi il compito di render giustizia al ricordo di Gentile, ma non nel modo in cui credevano di far giustizia quei partigiani comunisti che lo assassinarono vilmente e quei fascisti militanti che lo stesso Gentile criticò per le loro azioni crudeli e sanguinose rivolte contro degli italiani.
Un primo tentativo di restituire alla personalità di Gentile un sentimento di riconoscimento per la sua opera filosofica, culturale e politica, è quello che il prof. Davide Ciurnelli diede in un breve ma acuto saggio del 1958 rimasto sostanzialmente inedito, della cui lettura ho avuto l’opportunità di fruire. Ciurnelli parte col mettere in evidenza la propensione di Gentile al valore della responsabilità.
V’è una responsabilità nei confronti dell’Italia affinché essa sia grande ed immortale: la riforma scolastica del ‘23 e l’Enciclopedia Italiana Treccani vanno in questa direzione. Ma v’è anche una responsabilità che compare nell’opera filosofica del pensatore nato a Castelvetrano nel 1875: essendo l’uomo, in quanto individuo intelligente, il teatro principale in cui prende vita la trama dialettica del pensiero - il quale, nell’attualismo, è la sola realtà assoluta -, egli detiene la cosiddetta “responsabilità del vero”, la quale, posta l’identità fra sapere e volere, è tinta di una colorazione marcatamente etica.
L’identità fra sapere e volere, pensiero ed azione, porta Gentile ad interpretare fichtianamente il ruolo dell’intellettuale nella società. Ciò diviene, come mostra mirabilmente il prof. Ciurnelli, un fattore determinante per la graduale separazione fra Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Croce dimostra d’incarnare, nella figura dell’intellettuale “borghese” che egli impersona, quella incolmabile scissura da lui filosoficamente operata fra teoria e prassi. La prassi di Croce sarà perciò piena di oscillazioni ora politiche ora ideologiche: fino al gennaio del 1925 non prese posizione contro il fascismo, anzi lo celebrò prima della marcia su Roma e poi lo sostenne col voto, per poi scrivere su commissione di Amendola il Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti. D’altro canto Gentile, nonostante non si fosse prima iscritto al PNF, appena fu nominato ministro della Pubblica Istruzione da Mussolini, non perse tempo e, nel maggio 1923, varò la storica riforma che porta il suo nome, sulla quale lavorava da più di un decennio.
Un’altra qualità morale per cui Ciurnelli loda Gentile è la lealtà. Lealtà che andava scarseggiando in Italia: come sottolinea Renzo De Felice, la resistenza italiana era composta in gran numero di fascisti che, una volta compreso l’andazzo della guerra, cambiarono casacca. Gentile, invece - per la riconoscenza dovuta all’amico Mussolini e per la fede ideale in uno stato, le cui contraddizioni reali venivano però smascherate dalla guerra civile -, tornò a sostenere vigorosamente la causa fascista, aderendo alla Repubblica Sociale Italiana, benché la figura di Gentile fosse ormai diventata ostile ai fascisti intransigenti che infatti lo attaccarono per il liberalismo con cui interagiva con gli intellettuali non fascisti e per il suo nuovo appello alla “pacificazione degli animi”.
Ciurnelli pone accanto a Socrate e a Bruno (i martiri del pensiero) il nome di Gentile. E, se è vero che Gentile fu ucciso premeditatamente, come afferma De Felice, per l’adesione ed il consenso che la sua esortazione alla concordia fra italiani avrebbe potuto suscitare, allora è possibile affermare che Gentile sia stato martire piuttosto della fede, della fede cioè nell’unità spirituale del popolo italiano, la quale, iniziata nel Risorgimento, avrebbe dovuto superare “la mischia profanatrice e speculatrice” dei partiti politici (compreso quello fascista), per giungere ad uno Stato, inteso come volontà attuale di una nazione intera.
Tutta la vita di Gentile pare di fatto impegnata a far sì che il popolo italiano prenda coscienza del suo essere nazione, a partire dalla sua comunanza spirituale storicamente osservabile. I fatti storici mostreranno la natura illusoria della fede di Gentile nel fascismo, senza però offuscare la grandezza del pensiero di Gentile, della sua personalità e del suo inestimabile contributo culturale, i quali andrebbero recuperati appieno.
(Guglielmo Martinangeli per Agenzia Stampa Italia)