"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Sull'intolleranza dei tolleranti

Per rendere merito alla giornata odierna, nella quale si fa (o si dovrebbe fare) memoria della Trasfigurazione di Cristo, riprendiamo da L'Isola di Patmos, "il luogo dell'ultima rivelazione", questo contributo miliare (sottolineature e neretti ci appartengono).

I. UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO

Credo di non rivelare segreti inconfessabili se affermo che mantenersi cristiani cattolici, di questi tempi, non è affatto un’impresa semplice. Non si tratta tanto di conservare solamente una apparente identità tradizionale – per lo meno per quanto concerne il continente europeo – quanto il manifestare che Dio possiede ancora un certo diritto di cittadinanza nella vita degli uomini e che Cristo sia riconosciuto come evento fondativo e definitivo della rivelazione divina.

Secondo un sondaggio del Pew Research Center [cf. QUI] condotto nel 2017 su un campione di 1.804 rispondenti, l’80% degli italiani si dichiara cristiano, il dato preoccupante riguarda invece la frequenza, infatti il 23% partecipa alle funzioni religiose almeno una volta a settimana, il 20% una volta al mese e il 34% ha una pratica molto meno assidua. Secondo altri dati relativi a una ricerca Ipsos del 2017, sempre in Italia, su 60.000 intervistati, i cattolici sono in diminuzione. Si passa dall’85,4% del 2007 al 74,4% del 2017. Uno studio più recente del 2018 dell’European Values Study l’84,4% degli italiani afferma genericamente di credere in Dio senza ulteriori utili specificazioni.

Dati alla mano stiamo subendo una diminuzione drastica della fede cristiana ma quello che un sondaggio non potrà mai dire riguarda la motivazione teologica che rappresenta il vero motivo di tale diminuzione. La motivazione teologica che diventa pietra di scandalo su cui si infrangono le impietose statistiche risiede nel fatto che non si è più in possesso dello specifico del cristianesimo, cosicché siamo spesso smarriti, in balia di una forma di Alzheimer che ci rende incapaci di riconoscere la fede e di riconoscerci come credenti pronti a darne ragione, come esprime San Pietro nella sua prima epistola [cf. 1Pt 3,15-16].


Faccio un esempio per essere più chiaro. Nessun ebreo, di ieri come di oggi, si sognerebbe mai di disconoscere l’Alleanza tra Dio e Abramo e soprattutto l’evento fondativo che ha unificato il popolo eletto durante la Pasqua di liberazione in Egitto. Nessun ebreo, sano di mente, metterebbe in dubbio che Dio è il Goel liberatore e riscattatore del popolo e che in Mosè ha reso possibile la salvezza contro il dominio del faraone d’Egitto. Sebbene questa fede sia stata messa a dura prova davanti ai terribili fatti di Auschwitz, la fede dei nostri fratelli in Abramo resta sostanzialmente immutata da secoli e diventa motivo di identità etnica e religiosa da celebrare con orgoglio in ogni nucleo familiare.

Per noi cristiani, invece, avere una fede certa non è motivo di orgoglio ma di imbarazzo, spesso siamo i primi a considerarci intransigenti e fanatici quando proviamo ad elevarci al di sopra dalla mediocrità. Allora, per essere più digeribili agli occhi di chi ci guarda, preferiamo piuttosto colorarci di rosa e ostentare un amore universale che possiamo bellamente giustificare attraverso il discorso escatologico di Matteo 24,31-46 che – per inciso – secondo una corretta esegesi, non dovrebbe mai essere avulso dai successivi brani – narrati dal Santo Evangelista Matteo, prima la parabola delle Dieci Vergini [cf. Mt 25,1-13] e poi quella dei Talenti [cf. Mt 25,14-29] – con il rischio di far dire al testo sacro quello che proprio non intende dire.

A testimonianza di ciò, porto un esempio a sostegno delle mie parole. Quante volte ci è capitato di sentire predicare dai pulpiti sull’amore? Quante volte l’amore è stato usato come slogan e passe-partout per giustificare tutto anche l’ingiustificabile e l’irragionevole? Quante volte nel nome dell’amore si sono operate scelte del tutto scellerate espressione del più emotivo sentimentalismo e della più seducente passionalità? Il termine cristiano di charitas rimanda a Dio, secondo l’insegnamento dell’apostolo Giovanni: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» [cf. 1Gv 4,7-8]. Triste è la consapevolezza nel verificare che questo “amore” così fortemente pubblicizzato oggi viene deprivato della presenza di Dio Trinità e utilizzato come alibi attraverso cui si normalizza il peccato fino ad esaurirsi in atteggiamento esclusivamente filantropico e utilitaristico. Questo atteggiamento d’impoverire la charitas dalla persona di Dio non è un vizio moderno infatti, forti di quel detto sapienziale nihil novum sub sole [nulla di nuovo sotto il sole] la storia del cristianesimo ha già conosciuto questa degenerazione del concetto di amore fin dai suoi primi secoli.

Nel 361 d.C. l’imperatore Giuliano l’Apostata, si oppone strenuamente al cristianesimo operando una politica di paganizzazione del popolo e di ritorno al pensiero neoplatonico. Del cristianesimo conserverà solo l’attività caritatevole e l’attenzione al prossimo che cerca di innestare all’interno dell’anti-Chiesa pagana da lui progettata. La storia ci dice che il tentativo risultò inattuabile, il paganesimo decadente, così come l’ateismo moderno assunto a religiosità d’élite, non poté competere con l’autentico amore di Dio che in Cristo consta della caratteristica dell’eroicità fino al sacrificio della vita e nello Spirito Santo della caratteristica della missionarietà che è la causa prima di ogni azione virtuosa. L’amore, affinché sia autenticamente cristiano, non deve fare solo il bene, ma deve condurre al dono totale di sé, anche con quelle persone e in quelle situazioni non amabili, in virtù del fatto che se la giustizia del discepolo non supera quella del mondo, non c’è quel di più che è indice di perfezione e garanzia della presenza dello Spirito del Padre, come indica il Santo Evangelista Matteo [cf. Mt 5,20]. L’amore cristiano è quella virtù teologale che si riconosce in Dio e conduce a Lui, annuncia la salvezza all’anima, converte dal peccato e spalanca le porte del paradiso.

Dopo questa necessaria divagazione sulla relazione Dio-amore, ritorniamo alla ricerca delle domande di senso che interpellano la nostra fede. Chi è Gesù? Cosa è venuto a fare nel mondo? Sono le domande fondamentali eppure, nella maggioranza dei casi, restano degli interrogativi inevasi per tanti ragazzi che frequentano il catechismo e per tanti giovani cristiani. La situazione non muta di molto se dovessimo sottoporre tale quesito agli adulti, ai genitori di questi ragazzi, oppure ai loro nonni che, tragico a dirsi, si stanno avviando verso un analfabetismo religioso di ritorno che sfocia verso un vero e proprio ateismo pratico.

Ormai per sapere chi è Gesù Cristo ci rassegniamo ad interrogare i vari laicisti di tendenza che sui social e in televisione con aria sussiegosa dettano la nuova Cristologia à la page con l’aggravante che la Chiesa, quella ufficiale, quella deputata al controllo della retta dottrina, che dovrebbe confermare i fratelli nella fede, tace. E anche quando parla, cercando di mettere assieme una raffazzonata e pallida smentita, lo fa con poco convincimento tanto da far sospettare che certe affermazioni eretiche si siano guadagnate una certa simpatia anche all’interno dei sacri palazzi.

Possiamo dire, a questo punto, che il dogma è andato in crisi? Assolutamente no. Chi è andato in crisi è un certo établissement ecclesiastico fatto di pastori e teologi che hanno perso – loro sì – la bussola della fede e che fanno sempre più ricorso alla categoria di “mistero” cercando di nascondersi dietro a un paravento, visto che non sanno più dare ragione della fede e della speranza che è in loro, il tutto è racchiuso nella prima e seconda epistola di San Pietro e nel Vangelo di San Giovanni [cf. 1Pt 3,15; 2Pt 1,16-19; 1 Gv1, 1-4]. In questo modo, perse le due virtù teologali di fede e speranza, ciò che rimane, l’amore, assume i connotati della modernità e della ricerca del consenso a qualunque costo. Avete mai fatto caso che l’ammodernamento della persona di Cristo, della Chiesa, del Magistero, della morale, della formazione del clero e della sua identità è sempre stato portato avanti dai paladini dell’amore e nel nome dell’amore? Siamo arrivati al paradossale, in cui la corruzione dottrinale della Chiesa è all’insegna del vessillo dell’amore! Quell’Amore che, è necessario ribadire, si è fatto carne e ha dato la sua vita per l’uomo peccatore, insomma al danno anche la beffa. Al culmine di questo sbandamento dottrinale si somma anche l’atto sacrilego di voler confondere o associare Dio con il peccato. Ma se intendiamo restare fedeli a Cristo e alla Chiesa Cattolica, così come ha fatto San Thomas Becket con il suo martirio, dobbiamo resistere e la resistenza cristiana non si realizza al canto di “Bella Ciao”, ma dell’Exultet Pasquale che ci ricorda che Cristo è Dio, Signore e Sovrano, vincitore del peccato.

Se, in ultima analisi, essere cristiani significa entrare dentro la vita intima di Gesù Cristo, e lasciare che sia Lui a regnare come sovrano indiscusso della mia esistenza – verità ribadita ogni anno durante la solennità di Cristo Re al termine dell’anno liturgico – forse è bene riconoscere che qualche cosa è andato storto oppure ci troviamo davanti a un grande fraintendimento. La fede è innanzi tutto una adesione dell’uomo a Dio e al tempo stesso e in modo inseparabile, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato e che trova in Gesù Cristo la piena, definitiva e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio (cf. Dominus Iesus).

Perciò, riconosciamo candidamente che sia noi sacerdoti, così come i cosiddetti cristiani impegnati – quelli che per intenderci militano in movimenti ecclesiali, si riconoscono come attivisti all’interno della vita sociale e politica del paese, che aiutano in parrocchia, che praticano una certa carità – nella migliore delle ipotesi stiamo perseguendo un cristianesimo secondario, di confine o di periferia che agli occhi dei più maliziosi si palesa come un cristianesimo di facciata.

Con questo termine individuiamo una certa cultura cristiana estremamente variegata e complessa che trascura il fine ultimo e soprannaturale della fede che consta della salvezza dell’anima, ignora la lotta spirituale al peccato e l’apertura alla grazia divina insieme alla necessità di permanere all’interno di una fede divina cattolica osservata all’interno di una comunità di fede che si riconosce all’interno della Chiesa di Roma.

Tale cristianesimo secondario dissipa largamente la figura del sacerdote reinventandolo come manager, un solerte curatore di museo e impiegato sociale regolarmente retribuito e con orari di lavoro variabili. Stessa dissipazione si riscontra tra i laici, in coloro che non si identificano più nella categoria dei fedeli (fedeli poi a chi e a che cosa? mah!) e che per questo scelgono di ibridarsi in modelli di cristianesimo che trasformano tutti in figure mitologiche difficilmente conciliabili all’interno di un cammino di fede e di una vita che nel battesimo e stata consegnata a Dio.

È senza dubbio urgente ribadire una questione di principio: l’essenza del cristianesimo risiede all’interno di quella parolina che Gesù pronuncia diverse volte nel Vangelo di Giovanni [cf. Gv 8,24; 8,28; 8,58; 13,19; 18,5] per designare sé stesso: è quell’Io Sono – in greco ἐγὼ εἰμί, ego eimi –, che è garanzia di identità divina [cf. Es 3,14-15] e di salvezza per ogni creatura.

È la scelta totalizzante di quell’Io divino che mette in crisi e che, come si evince dalla lettura di Jacob Neusner nel suo libro «Un rabbino parla con Gesù», costituisce la grande differenza tra l’Israele Eterno e il Nuovo Israele costituito dal popolo dei battezzati redenti dalla Passione di Cristo e dalla sua Risurrezione.

Il mio io identitario deve essere in grado di riconoscere il mistero di Dio, quell’Io Sono a cui spetta il primo posto [cf. Lc 14,25-33] e che mi disarciona al suolo [cf. At 22,8] e atterrisce ogni qual volta presumo di possederlo e gestirlo a mio piacimento [cf. Gv 18,6], il tutto, si trova racchiuso nei vangeli di San Luca e San Giovanni.

Chi è Gesù? Gesù è Dio, come ci indicano vari passi delle sacre scritture, in particolare il Santo Evangelista Luca, per seguire con il Vangelo di San Giovanni e l’epistolario paolino [cf. Lc 22,70; Gv 1,1.14; Gv 5,18; Gv 8, 58; Fil 2,6; Col 2, 9; Col 1,15; Eb 1,3], è il Signore [cf. Rm 10,9; Gv 20, 28; Lc 23,39-43; Fil 2,11], è il rivelatore autentico del Padre [cf. Gv 10, 30; Gv 5,22-23; Gv 14,8-11], e per tali motivi nessuno può prescindere da tali verità rivelate senza consumare un tradimento, operare un rinnegamento, senza sentirsi scandalizzato o iniziare una guerra santa; il tutto sempre con riferimento al Vangelo di San Giovanni. Questo Uomo-Dio è venuto per salvare il mondo dai peccati [cf. Mt 1,21], affinché l’uomo abbia la vita bella e non una bella vita [cf. Gv 10,10] e nel vivere sul serio sia definitivamente privato dal cancro del peccato [cf. Eb 2,14-15] e reso giusto nel sangue di Lui [cf. Rm 5,9; 8,33]. Non ci sono alternative, la gelosia divina dell’Antico Testamento [cf. Dt 5,6-10] si coniuga con la scelta totalizzante di Cristo e la sua persona è l’unica scelta di comunione possibile che produce frutti di novità di vita [cf. Mt 12,30; Lc 5,38].

Gesù Cristo è così ingombrante che non è possibile metterlo a tacere, da duemila anni il suo nome risuona sulla terra e la sua fedeltà si dimostra stabile quanto il cielo [cf. Sal 89,3]. Tutto ancora parla di Lui: dal calendario alle feste, dalle tradizioni civili all’etica, dall’arte alla musica; la storia, la geografia, il modo di computare il tempo e perfino il vasto cosmo e la natura testimoniano che Egli è Dio e che è Signore. Anche davanti a coloro che intendono perniciosamente negarlo, rifiutarlo, fino a farlo scomparire del tutto si deve ammettere il merito involontario – così come è stato per i demoni [cf. Mc 5,6; Lc 4,34; At 19,15] – di un riconoscimento kerigmatico, in cui la sua maestà e potenza non vengono minimamente messe in discussione.

E mentre Cristo si proclama e si afferma, viene ribadita la sua maestà, il suo ruolo chiave che Egli svolge nella storia dell’uomo, sebbene quest’ultimo il più delle volte si nasconda dalla sua presenza come fece Adamo [cf. Gn 3,9-10] o desideri come Nietzsche compiere un parricidio che spezzi l’angosciosa dipendenza dal partner divino, promettendo più ampie libertà.

II. CRISI DI FEDE, CRISI DOTTRINALE, CRISI MORALE

La questione di principio che ho voluto affrontare nel primo paragrafo di questo articolo ci aiuta a capire meglio la condizione di crisi cronica che da cinquant’anni a questa parte intacca come tarlo la solidità della Chiesa. È una crisi su diversi fronti quella che interessa gli aspetti del credere nell’attuale contingenza storica. Dalla dottrina alla pastorale, dalla morale alla spiritualità, dalla testimonianza quotidiana al modo di interpretare il martirio, tutto poggia su una fede traballante, dove Cristo non è più Dio e il suo ruolo non è più quello di Salvatore. Attenzione bene, affermare l’esistenza di una fede malferma non equivale a dire che non esista più una fede in generale o che coloro che credono lo fanno in modo malizioso o interessato. Le statistiche ci testimoniano come ancora circa l’80% delle persone si dichiara cristiana, ma il fatto di dichiararsi non è ancora ragion sufficiente che conduce al credere. I beati apostoli Pietro, Andrea e Giovanni si sono visti più volte redarguire da Nostro Signore per la loro fede in Lui non ancora sufficientemente matura e aperta alla grazia. E tutti gli altri, sebbene identificati come i discepoli del Nazareno, non hanno esitato ad abbandonarlo al momento della Passione, sconfessando con le opere quello che proclamavano apertamente. Con altre parole possiamo dire che la registrazione del nome sul registro parrocchiale dei battesimi non ci rende cristiani credenti e credibili. Tali considerazioni ci conducono a capire come una fede di tal fatta e un credo di tal genere non aggiungono nulla e non tolgono nulla all’esistenza dell’uomo. Con le parole del Vangelo di Giovanni possiamo dire che la fede conduce essenzialmente verso un dimorare là dove Gesù è presente [cf. Gv 1,38; 15,4-ss]. Nel dimorare in Lui si verifica quel di più che conduce verso una cristificazione della vita che, sebbene opera della grazia, ha bisogno comunque del concorso umano e dell’esercizio del libero arbitrio.

Come non riconoscere in Karl Rahner e nella trovata dei “cristiani anonimi” la magistrale furbizia di una moderna religiosità apparente che, di fronte a una malferma proposta di fede, ha portato molti a ritenere che è molto meglio tenersi quanto più lontano possibile da tutto ciò che è cristiano (e forse anche cattolico) preferendo impiegare il tempo in modo più fruttuoso invece di ricorrere ad un Dio che non si conosce più per nome e che si è conservato solo come presenza formale. Queste persone più che “cristiani anonimi” – anonimi poi per chi visto che Dio chiama sempre tutti per nome [cf. Is 43,1; 45,4] – dovrebbero essere detti “atei dogmatici”, in quanto non sentendo l’esigenza di credere nel Dio di Gesù Cristo vivono già dentro una fede atea che si alimenta e campa di dogmatisti propri. Fateci caso, nessuno è più dogmatico e intransigente dell’ateo convinto, che afferma strenuamente ciò che per lui non dovrebbe esistere, e combatte ciò in cui non crede più. Così come nessuno e più attaccato alle tradizioni cristiane di colui che ha dismesso la pratica religiosa da anni e vive di lontani ricordi e nostalgie. Dogmatismi, rigidità, nostalgie e stili sclerotici di fede sono gli alimenti di scarto di cui il cristianesimo secondario voracemente si nutre, ma poiché indigesti vengono quanto prima rigurgitati all’approssimarsi di ogni evangelica novità.

Bisogna ribadire che la fede cristiana tout court è una pia illusione, se non consta di una teologia della salvezza ben consolida. Cristo non è solo il Dio verso cui credere ma è il Salvatore e il Redentore dell’uomo, colui per il quale la salvezza entra nel mondo e l’uomo si affranca dalla schiavitù del peccato [cf. Mt 1,21; Mc 2,7]. La fede priva della salvezza è mutilata e per sopravvivere viene indirizzata e identificata verso altre discipline del sapere umano, come la filosofia, la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la medicina, verso un nuovo umanesimo di impronta atea che manifesta la sua hýbris nel presumere di salvare la fisicità dell’individuo ― lotta alla povertà, alla fame, alle malattie, alle guerre ― e di conservare il creato ― gretinismo, ecologismo, pseudo francescanesimo comunista ― ricostituendo una verginità primigenia oramai perduta, tutto a scapito di un’anima divina immortale che è stata creata da Dio e che a Dio ritornerà dopo la morte. Anzi se vogliamo dirla tutta, questa falsa hýbris che ha combattuto in passato il peccato originale e ancora oggi lo combatte, sottrae all’uomo il senso stesso del peccato introducendo dei luoghi di controllo esterni in cui ricercare il capro espiatorio buono a giustificare ogni avversità e contrarietà. Purtroppo, l’uomo è creato per Dio e senza di lui il suo cuore non trova la pace [cf. Agostino, Le Confessioni, 1,1.5], senza senso del peccato e senza bisogno di redenzione, quello che avanza è il senso di colpa che schiaccia e deprime la povera umanità moderna. Molti deresponsabilizzati, sono incapaci di operare un vero e sincero esame di coscienza – anche in vista di una confessione sacramentale – che induca al riconoscimento della colpa e alla ricerca di redenzione dall’unico che è in grado di darla.

Alcuni preferiscono scaricare sul Diavolo la colpa di tutti i rovesci personali, liquidando ingenuamente la questione sulle spalle dello spirito del male ― che qui si assume come luogo di controllo esterno ― senza ricordarsi che il tentatore [cf. Gn 3, ss] per consumare la caduta dell’uomo ha avuto bisogno del suo consenso. Insomma, attenuanti su attenuanti, facili e improbabili per una umanità oltre il limite dello sbando.

Per distogliere l’attenzione da questa triste verità che conduce verso un pessimismo che definire leopardiano suonerebbe come un eufemismo, si inventano delle opposizioni, delle distrazioni di massa in lotta tra loro. E come al tempo degli antichi romani si gareggiava nel Colosseo per tenere buono il popolo affamato, così oggi si gareggia tra fazioni contrapposte per divagare le menti: i tradizionalisti contro progressisti, i papisti contro i sedevacantisti, i lefebvriani contro i modernisti, i guelfi contro ghibellini, i cristiani di destra contro i cristiani di sinistra, i sacerdoti secolari contro i sacerdoti regolari, insomma l’elenco potrebbe ancora allungarsi e continuare all’infinito con l’inclusione dei movimenti ecclesiali che concorrono per aggiudicarsi la palma del migliore se già la questione non fosse di per sé stessa sufficientemente tragica.

Davanti a questo panorama la Chiesa gerarchica, quella dei pastori con l’odore delle pecore, dei sacerdoti pauperisti, delle lobby che speculano su migranti, integrazione e accoglienza spinta cosa fa? L’esercizio della leadership più avvalorata oggi dal clero non poggia più sull’autorevolezza della fede ragionevole, che apporta motivazioni fondate sulla necessità credere e del perché è necessario credere. La leadership di molti tra noi sacerdoti – basta ascoltare qualche omelia o catechesi per rendersene conto – è infarcita da buonismo democratico e da uno stile che definirei “parlamentare” in cui le cose vengono decise per elezione attraverso l’autorità della maggioranza e se qualche cosa mette in pericolo il pensiero dominante è subito pronta una mozione o una interpellanza per ribaltare la situazione a proprio favore.

Stile politico parlamentare è anche quello dei nostri vescovi che sono pronti a dissociarsi dai propri sacerdoti, visti come battitori da inquisizione, quando cercano di educare i fedeli ai principi della dottrina e della morale, anche semplicemente citando il catechismo. Accanto agli atti di dissociazione spinta si annoverano le scuse facili verso tutte quelle categorie di persone che non collimano con il pensiero del Vangelo. La tecnica di tramutare il nemico in amico attraverso un love bombing [bombardamento d’amore] che si fa carico dell’assunzione di colpe facili e inesistenti è il nuovo paradigma per essere inclusivi nella carità. Poco importa se l’apostolo ci ricorda che la carità deve fuggire le finzioni [cf. Rm 12,9] ed esercitarsi nella Verità anche quando questa risulta scomoda e inopportuna ai più.

Noi sacerdoti 3.0 nella nuova versione aggiornata, assorbiti dal ruolo manageriale di curatori di museo con stipendio fisso, senza la paternità da parte dei nostri pastori e senza una fede solida che ci contraddistingua come profeti davanti al mondo, siamo facile preda del fomite della sensualità. I sensi obnubilati da una vita più in sintonia con il mondo che con Cristo Salvatore del mondo, ci espongono a delle criticità che si individuano attraverso l’esercizio di una sessualità disordinata, di una possessività che esprime il peggio di sé nella gestione del denaro, e nell’incapacità di portare avanti relazioni significative con le persone senza contare il mantenimento dispotico del potere che si avvicina molto alla conservazione dei privilegi della peggior casta.

Parlando di sessualità è necessario fare un distinguo. Ho parlato di sessualità proprio per diversificarla dalla genitalità, infatti i due termini nella morale cristiana si ascrivono a due aspetti diversi. Sebbene gli aggettivi sessuale e genitale vengono oggi usati come sinonimi, non lo sono. Identifichiamo con il termine sessuale la persona nel suo essere maschio o femmina, nei suoi comportamenti maschili o femminili, nel suo modo di esprimere la mascolinità o la femminilità e nel differente e originale stile di comunicare l’amore. Con il termine genitale, invece, si intende ciò che si riferisce più propriamente agli apparati genitali, alla loro anatomia e fisiologia, al compito unitivo e procreativo che la dottrina cattolica continua risolutamente a considerare uniti.

La realtà genitale, così osannata dalla modernità, è compresa in quella sessuale la quale è più ampia, completa e tipicamente umana. Siamo troppo preoccupati di cogliere in fallo i sacerdoti per un abuso riguardante la genitalità da non accorgerci che esiste un grande scollamento nella pratica di quella sessualità che è parte integrante e imprescindibile della figura del presbitero. Tanto è vero che il termine “padre”, con cui chiamiamo comunemente i sacerdoti del clero regolare, è indice proprio dell’esercizio di una sana sessualità maschile come dimostrazione di una paternità spirituale che è tesa all’accompagnamento e alla santificazione del popolo di Dio. Ecco perché dai sacerdoti si richiede anzitutto una acclarata e comprovata mascolinità che permetta loro di esprimere al meglio l’esercizio della loro sessualità nell’essere padri amorosi e autorevoli.

Il modo di amare che conosce nella sessualità e nella mascolinità il proprio linguaggio, può esprimersi attraverso due modi differenti e antitetici: attraverso una possessività asfissiante che vuole consumare l’altro e operarne un controllo oppure attraverso una libertà dialogante che non teme l’altro e si propone di amarlo così com’è, tanto da farlo maturare e crescere così come vediamo accadere nell’incontro tra Gesù e la Samaritana [cf. Gv 4,1-26]. Gesù nel relazionarsi con il sesso femminile è diverso dalla maggioranza degli uomini del suo tempo che usano, abusano e oggettivizzano la donna per avere da lei qualcosa in cambio. In Cristo si concretizza quell’amore libero e liberante del Padre che testimonia il vero amore per ogni realtà creata. Il prete, come alter Christus, non può mortificare questo amore liberante e libero che è costituzionale alla propria sessualità e natura. È necessario evitare i compromessi che alternano tra sublimazioni compensative, disordini e deviazioni patologiche. La libertà del sacerdote nell’amore, che è esplicitazione di una vita celibataria, casta, povera e obbediente ad immagine del Redentore, è condizione teologica e profetica che non si può comprendere se non in funzione del Regno e di quella vita escatologica piena in cui tutte le relazioni saranno assunte e trasfigurate in Dio [cf. Mt 19,12; Mc 12,25].

Anche nell’utilizzo del denaro e nell’esercizio del potere è possibile rintracciare un’espressione della sessualità umana che può rivelarsi equilibrata, matura e informata dalla grazia oppure dispotica, narcisistica e assoggettata ai desideri egoistici del mondo. Il modo di gestire e custodire i beni che ci sono stati affidati – dalla cura del creato al modo di lavorare all’interno del creato – comunica o meno l’incontro totalizzante con Dio che si ama e serve a partire da tutto ciò che c’è stato affidato in funzione del bene comune. Ostentare il successo e il potere, attraverso un uso disumano e strumentale delle ricchezze, è una costante che ritroviamo abbastanza diffusa nella storia dell’uomo, a volte si tratta di una gratificazione immediata, altre volte di un vero e proprio culto idolatrico verso le cose e verso il proprio io. Tra i discepoli di Gesù Cristo, però, non vige la logica del regno umano ma sovrasta incontrastato l’imperativo: «Fra voi non è così» [cf. Mc 10,43]. Non dobbiamo essere così ingenui da pensare che la ricchezza e il potere costituiscano oggettivamente dei mali in sé – così come è avvenuto in alcuni movimenti pauperistici o in certe ideologie dell’Ottocento e del Novecento –, è necessario valutare con attenzione l’utilizzo che se ne fa. Il Vangelo non accusa mai il ricco in quanto tale, se non in riferimento a una non condivisione e a un uso solipsistico che dimentica i gemiti del povero [cf. Lc 16,19-31], e gli stenti della vedova [cf. Mc 12,41-44]. Così, mentre la ricchezza umana diviene funzionale all’onesto sostentamento e mantenimento, la ricchezza del Regno spalanca le porte del paradiso e assicura il possesso di Dio [cf. Lc 12,16-21].

Ogni potere e autorità deriva da Dio ed è dono suo [cf. Sir 33,23; Ger 1,10; Gv 19,10-11; Rm 13,1-2; Ap 2,28]. Questo concetto era piuttosto conosciuto nell’antichità tanto da avvalorare la tesi – che alcuni autori hanno sostenuto [cf. S. Paolo, S. Agostino, De Civitate Dei, Jacques-Bénigne Bossuet] – secondo la quale era possibile costruire un vero e proprio principio giuridico che legittimasse i governanti a governare sugli uomini facendo le veci di Dio. Sia nel governo civile come in quello religioso l’obbedienza a colui che deteneva il potere era interpretata come obbedienza diretta a Dio. Questa tesi così formulata consta di due imprecisioni. La prima consiste nel non considerare il fatto che qualunque potere e autorità terrena non è immune da quella ferita del peccato originale che corrompe ogni potere e autorità in dispotismo e dittatura. La seconda imprecisione consiste nel tralasciare l’aspetto trinitario della questione considerando solamente la persona del Padre come detentore esclusivo dell’autorità e del potere escludendo la partecipazione del Figlio e dello Spirito Santo.

Solo facendosi obbedienti al Padre, così come lo è stato Cristo, è possibile trovare la strada sicura per evitare le corruzioni del potere e le deviazioni dell’autorità [cf. Mt 4,1-11]. Il sacerdote, partecipando dell’autorità di Cristo derivante dalla sacra ordinazione, è anch’esso ammesso al governo e all’esercizio di un potere che esprime un’autorità. Così come, dopo il battesimo, Cristo è condotto nel deserto dallo Spirito Santo per divenire messia di salvezza secondo lo Spirito del Padre e non secondo lo spirito del mondo, così il sacerdote nell’esercizio del potere e dell’autorità è chiamato ad imitare il Maestro che nel servire l’altro si è reso servo, culminando la sua diaconia con il sacrificio della vita a favore degli uomini [cf. Mc 10,42-45] e rimettendo nell’orto degli ulivi qualsiasi potere nelle mani del Padre [cf. Mt 26,39; 26,42; Mc 14,36; Lc 22,42] dando compimento a quella kenosis che iniziò con l’incarnazione. L’autorità sacerdotale ripercorre la diaconia del Figlio, si alimenta della volontà del Padre e possiede l’unzione dello Spirito Santo per la santificazione dei fratelli e per la conferma della fede ricevuta con il battesimo.

III. UNA SOCIETÀ LIQUIDA, DEBOLE E IMPERFETTA

La società occidentale in cui viviamo, dove il cristiano è chiamato a compiere il suo pellegrinaggio terreno e dove manifesta la sua coraggiosa testimonianza di fede, assomiglia sempre più a un terribile Moloch che domanda l’appagamento di continui sacrifici e che si auto attribuisce il diritto di essere adorato come una divinità. Poco importa se poi tali sacrifici si pagano attraverso il prezzo di vite umane sconclusionate e di anime oramai frammentate e smarrite, perse nel non senso dell’esistenza. Una società strana, la nostra, che si compiace di essere narcisisticamente contemplata tanto da assomigliare a una terribile matrigna che pretende dai suoi figli molto di più di quanto riesce effettivamente a dare.

Una matrigna anaffettiva, perché di grembo sterile, che si adorna di parole così come farebbe con monili che sbrilluccicano di significati altisonanti come nel caso dell’amore, della tolleranza, della benevolenza, della comprensione e dei diritti. Tale visione fallimentare di mondo era stata già preannunziata da Cristo ai suoi discepoli nel Vangelo: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia» [cf. Gv 15,18-19]. Cristo e i suoi discepoli non sono del mondo, pur vivendo la dimensione temporale del mondo ma non la sua essenza. Il segno efficace consiste nel fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne [cf. Gv 1,14], la Parola divina si è resa umana, al contrario di quanto capita oggi in cui molte delle parole umane vengono divinizzate e assolutizzate. Tuttavia, questo Moloch societario apparentemente invincibile e divinizzato possiede già un termine stabilito, proprio per il semplice fatto che il “principe e dio di questo mondo” [cf. Gv 12,31; 2Cor 4,4] è stato definitivamente sconfitto.

A questo punto del discorso è utile introdurre il tema dell’idolatria, questo ci servirà a comprendere alcune criticità societarie importanti che quotidianamente viviamo. Parlare di idolatria, nel tessuto sociale, non è per nulla secondario, anzi possiamo dire che tale atteggiamento si ripresenta ciclicamente e sistematicamente proprio quando diminuisce il senso del “Sacro” che include orizzonti molto più ampi e diversificati rispetto al semplice riferimento al divino. A questo proposito sarebbe interessante studiare la decadenza dei popoli proprio in relazione alla crisi e alla scomparsa del “Sacro” dalla vita dell’uomo. Per il momento è sufficiente solo accennarlo in attesa di un più puntuale e competente approfondimento futuro.

Chiariamo subito un fatto: l’idolatria, in realtà, è una delle tante maschere con cui l’ateismo si dissimula davanti alla società e al mondo. Parlare di idolatria e ateismo sembra un controsenso ma non lo è. Nella Bibbia, per esempio, si conosce bene il peccato di idolatria ma non quello di ateismo, come mai? La risposta è semplice: l’uomo antico così come quello biblico non è assolutamente un uomo ateo. È necessario partire della lapalissiana constatazione che nessun’uomo nasce naturalmente ateo, la scintilla della sua origine divina pungola l’uomo dalla sua nascita, fino alla sua morte e lo spinge alla ricerca del senso della propria esistenza e di una verità che lo trascende.

L’ateismo visibile, quello praticato di questi tempi, è la degenerazione dell’idolatria che dismette le vesti del sacro. L’ateismo è il frutto ingannevole che si è costituito all’interno di alcune epoche storiche e che attraverso la Rivoluzione Francese, l’Età dei Lumi, il pensiero Positivista si è andato sempre più concretizzando attraverso le filosofie dell’Ottocento e del Novecento assieme a ben determinati movimenti gnostici che hanno dichiarato guerra al Cristianesimo e in modo specifico al Cristianesimo Cattolico.

L’ateismo, paradossalmente, si nutre di quel modo di vivere dissociato che è ben visibile ai nostri giorni e che sempre più assume dei tratti patologici, illudendosi di condurre tutti verso un progresso illimitato. L’uomo moderno occidentale si trova ad annaspare in questo modello societario ― illudendosi spesso e volentieri di aver raggiunto traguardi eccelsi di civiltà e di umanizzazione ― un volto di una comunità umana che si delinea sempre più nitidamente come il volto di una societas imperfecta e che ha già iniziato a presentare un conto salatissimo.

Questa società imperfetta che si definisce e si fa conoscere proprio a partire dai suoi dogmatisti così intransigenti e dalle sue consapevolezze marcatamente fideistiche da rivelarsi spesso scriteriate. Lo sdoganamento del relativismo gnoseologico ed etico con cui leggere e interpretare la realtà che ci circonda, l’ottimismo diffuso di una certa tipologia di scienza che pretende di rispondere ai gemiti di senso più intimi del cuore dell’uomo, le rivoluzioni nell’ambito della tecnologia e della comunicazione, insieme alla presunzione di costituire un nuovo ordine mondiale che possa unificare ogni credo, conducono inesorabilmente al fallimento poiché di fatto si ripercorre in chiave moderna quel peccato antico che commisero i costruttori della Torre di Babele (cf. Gn 11,1-9). L’ateismo è così il distillato di una volontà idolatrica privata del senso del sacro che pretende di farsi un nome prescindendo dal proprio Creatore [cf. Gn 11,4].

Questa panoramica sociale, così dolorosamente concreta ma purtuttavia reale, si può spiegare attraverso una frase del teologo domenicano p. Réginald Garrigou-Lagrange [1877-1964] che dice: «La Chiesa è intransigente sui principi, perché crede, è tollerante nella pratica, perché ama. I nemici della Chiesa sono invece tolleranti sui principi, perché non credono, ma intransigenti nella pratica, perché non amano. La Chiesa assolve i peccatori, i nemici della Chiesa assolvono i peccati» [cf. Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923, p. 725]. Quale senso dare a queste parole del buon p. Réginald Garrigou-Lagrange in relazione a una società liquida e destabilizzata come la nostra? Quale filo conduttore unisce i tratti della debolezza, dell’imperfezione, dell’idolatria atea tanto da produrre una realtà apparentemente liberale ma segretamente intransigente e a tratti spietata e contraddittoria?

Il ragionamento del teologo domenicano ci aiuta a comprendere come questa società prima di essere nemica di Dio e della Chiesa è anzitutto nemica di sé stessa. Difatti, è più propensa ad intraprendere più facilmente la ricerca di una tolleranza che uniforma e appiattisce i propri simili che non una ricerca della verità che conduce verso differenti alterità, fino a raggiungere l’alterità trascendentale che rappresenta l’autentico nucleo della fede e del rapporto con Dio. Oggi, se avete fatto caso al modo di condurre alcuni dibattiti e discussioni, il modo più sicuro per mettere l’avversario alle corde e quindi farlo tacere, consiste essenzialmente nel tacciarlo di intolleranza. L’accusa di mancata tolleranza è quel capo d’imputazione che non ammette verità oggettiva, che non tiene conto del vissuto personale, della storia e della tradizione dei popoli. L’accusa di intolleranza si declina attraverso la censura, il divieto su realtà che non possono essere dette, conosciute o semplicemente testimoniate. Oggi, è possibile essere considerati intolleranti in molti modi ed essere provocati su diversi ambiti quali ad esempio la fede e la religione, la razza e l’etnia, la sessualità e la genitalità, i costumi e le tradizioni, la politica e il mondo civile e tanto altro ancora.

Nel gioco delle contrapposizioni, escamotage che ho già avuto modo di analizzare in questo articolo, professare la fede mi rende ad esempio una persona intollerante e violenta. Affermare la legge morale naturale sul matrimonio mi dona una visibilità da fanatico integralista medievale, coltivare e potenziare le radici tradizioni e culturali di un popolo mi rende un pericoloso nemico della globalizzazione e dell’inculturazione. Coloro che noi oggi chiamiamo con l’appellativo di intolleranti sono in realtà dei divergenti, eroi che non si allineano al pensiero unico e perciò necessitano di essere visti come nemici da neutralizzare. Se ci fate caso i migliori esponenti del pensiero liberale, tollerante e garantista peccano innumerevoli volte di atteggiamenti illiberali, violenti e intransigenti degni del miglior regime dispotico dittatoriale.

Il “tollerante” moderno, invece, non si sacrifica per le proprie idee come farebbe l’idealista, anzi non si fa scrupoli a immolare chi ha idee contrarie alle sue, così come farebbe un dittatore nei riguardi dei suoi oppositori. Quanti martiri della tolleranza e dei diritti oggi esistono? Ma forse i martiri più numerosi sono coloro che vengono additati quali inconsapevoli seminatori d’odio proprio perché divergenti, portatori di un odio che non si vede perché presente solo nello sguardo del tollerante di turno che ha interesse a usare l’odio come strumento ideologico di controllo delle masse. La tolleranza moderna non rivendica perciò solo i diritti ma anche la dispersione dell’odio. Da meno di un decennio, la tolleranza ha contratto un felice matrimonio con il termine di derivazione greca fobìa. Attraverso questo termine vengono generati i migliori cavalli di battaglia della tollerante societas imperfecta quali l’omofobia, l’islamofobia, la xenofobia e altri ancora. Cito questi tre esempi solo perché sono quelli più praticati dai mezzi di comunicazione sociale, televisione, radio e giornali … Ci rendiamo conto che tutto questa impalcatura non ha il minimo senso è che non è possibile portare avanti un discorso di tolleranza che sia legato esclusivamente a un diritto deprivato dei doveri e di un timore che sia antidoto all’odio? Invocare la tolleranza facendo leva sui diritti ed escludendo i doveri costituisce una visione di mondo che si regge sull’egocentrismo, in cui tutto diventa lecito basta che assecondi i diritti personali veri o presunti.

Testa di Giano bifronte, II sec. a.C.

D’altro canto, chiamare in causa la tolleranza davanti all’odio facendo leva sul sentimento del timore dell’altro è da stolti, in quanto questo significherebbe dire che basta generare un allarme per scongiurare un male. In questo imponente zibaldone è difficile riuscire a trovare il bandolo della matassa tanto da ricondurre tutto a un’origine certa e sicura. Il prospetto di una cultura sociale intransigente che mentre condanna santifica e santificando condanna appare più simile a un paradosso che rammenta il dio romano Giano il quale, avendo una “doppia faccia”, è l’immagine perfetta del compromesso, del trasformismo, dell’unione degli opposti.

Oggi la maschera di Giano trionfa sui volti del mondo che percorrono le strade delle nostre città e paesi, delle nostre piazze e centri commerciali, dei palazzi del potere e delle chiese. Un Giano senza età che si veste in abiti maschili e femminili o all’occorrenza neutri, che indossa il velo, la talare, il saio, la sottana filettata di viola o di rosso ma che è sempre lui, il serpente antico che non si stanca di muovere guerra con l’empia pretesa di dimostrare che Dio si è sbagliato nel dare fiducia all’uomo. .

(Ivano Liguori, Dal disorientamento dottrinale della Chiesa al peccato dei preti e al riciclo dei laici. Prospetto di una cultura intransigente che mentre condanna santifica e mentre santifica condanna, Isola di Patmos)