"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Quel latino vissuto

La gente in mezzo alla quale sono nato e cresciuto non sapeva il latino. Stentava anche a parlare l’italiano, sostituito, in caso di bisogno, dal veneto di terraferma, confinante col friulano, parlato a molti nelle sue ultime propaggini occidentali.

Non sapeva il latino, quella popolazione fatta perlopiù di contadini, operai, artigiani (e, naturalmente, braccianti e manovali, e disoccupati quasi sempre involontari) che raramente varcava la soglia della scuola post-elementare ma aveva riguardo e stima per la gente "studiata". Non sapeva, dunque, il latino, ma c’era nata dentro.

Missale Romanum risalente all'anno 1959

Dalle formule del battesimo a quelle dell’estremo saluto ("Proficiscere, anima christiana..." "Parti anima cristiana...) la Chiesa usava il latino, vecchio e consunto dall’uso, ma assimilato, per quanto possibile, dal popolo che partecipava ai riti. Nessuna nostra chiesa, oggi, si riempie di popolo come avveniva nella settimana santa, dal mercoledì sera al venerdì, quando si leggevano o cantavano "notturni" (tre di tre salmi ciascuno, più le "lodi" fatte di cinque salmi) e si leggevano le profezie antiche. E la gente in piedi, se non trovava posti a sedere, per due ore e più.

Uomini come mio padre (classe 1894, terza elementare) partecipavano come potevano al canto e all’ascolto, alla fine di dure giornate lavorative, senza dar segni di stanchezza.

So che dicendo cose come queste corro il rischio di sembrare nostalgico, passatista, retrogrado: ma mancherei ad un preciso dovere se tacessi i valori (o disvalori) della civiltà nella quale le generazioni nate nel primo Novecento (e, a maggior ragione, nell’ultimo Ottocento) si sono bene o male formate. Considero ancor oggi un valore l’uso, invalso per quasi venti secoli nella Chiesa latina, di quella lingua che aveva lasciato preziose relique nelle opere dei classici, e umili ma non insignificanti reliquie in tanta parte del linguaggio ufficiale, e nelle professioni liberali.

Ricordo l’impressione che mi fece, quando andai in Norvegia, l’abbondanza delle lapidi scitte in latino e il gusto che provavamo noi, popolo non scolarizzato, seguendo come potevamo il linguaggio ufficiale che la Chiesa usava anche in cerimonie semplici, in occasioni ordinarie della vita. Mia nonna cantava "Tantum ergo sacramentum", un verso (di Tommaso d’Aquino, probabilmente), intuendo che sotto stava un serio mistero, ma senza cedere all’uso, invalso specialmente tra gli uomini, di estrapolare dagli inni, parole, che portate in altro contesto, diventavano da precatorie imprecatorie. Il buon popolo veneto usa ancora punteggiare i discorsi con "ostia" e "sacramento", termini già pertinenti al culto eucaristico. La messa, com’è noto, è centro, fondamento e culmine della liturgia cattolica.

A me fa un po' specie il cantar prodottosi, di recente, dopo il breve documento di Papa Benedetto che autorizza il riuso del formuario latino invalso fino al Concilio ecumenico Vaticano Secondo. Non è proibito pensare che l'abolizione di quel formulario non sia stata, dopo tutto, una gran bella invenzione. Chi conosce, per esempio, la "prece eucaristica" n. 1 detta anche Canone Romano, sa di quanta bellezza sia stato privato, per decenni, il popolo dei fedeli.

Giova comunque ricordare che il latino non va idolatrato. Anche nelle scuole ginnasiali e liceali il declino di esso ha accompagnato la desuetudine ecclesiastica: con quali vantaggi reali, nessuno è in grado di dire.

La preghiera "pro perfidis judasis" inserita fra quelle del venerdì santo era stata potata da tempo della sua aggressività non caritatevole, che del resto sarebbe apparsa attenuata se i conciliaristi assoluti avessero avuto cura di spiegare il senso del termine latino "perfidus", che non è ben reso dall’italiano "perfido".

(Pietro Nonis, 1927-2014, vescovo di Vicenza dal 1988 al 2003, Il Giornale di Vicenza, martedì 24 luglio 2007, pagina 7)