"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Tutto il resto è commento

Due articoli meritevoli sulla meritevole figura di Amos Luzzatto, 1928-2010. Il primo da Riforma.it (qui), il secondo da moked (qui).


Amos Luzzatto fotografato a Venezia

Il 9 settembre, a 92 anni, si è spento Amos Luzzatto: medico, scrittore, esegeta ma soprattutto esponente di spicco dell’ebraismo italiano e, dal 1998 al 2006 presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei). In quegli anni collaborava anche alla rivista Confronti che si era ormai accreditata come la testata di riferimento del dialogo interreligioso in Italia e della battaglia politica e culturale per riconoscere e valorizzare il nuovo pluralismo religioso che si era consolidato anche nel nostro Paese. Di quella battaglia, che nonostante alcune apprezzabili successi non è stata mai pienamente vinta, Luzzatto fu un alfiere di prima fila. Con la sua storia personale e il peso della tradizione religiosa che si portava dietro, esprimeva – direi fisicamente – quale fosse il “posto degli ebrei” nella società italiana. «Il posto degli ebrei» è infatti il titolo di un suo libro pubblicato con Einaudi nel 2003: meno di cento pagine per scolpire l’identità degli ebrei della diaspora, che non sono “meno ebrei” di quanti scelgono di vivere in Israele; sta a loro testimoniare la vocazione universalistica dell’ebraismo e monitorare come sentinelle vigili quei rigurgiti di antisemitismo e di razzismo che attraversano anche le democrazia occidentali.

Ad affermarlo era un sionista convinto che, ancora minorenne, a seguito delle leggi razziali del 1938 aveva dovuto lasciare gli agi della vita borghese in Italia per fare l’aliyah, la “salita” in Israele. Erano gli anni tumultuosi del mandato britannico in Palestina. Ed è tra i libri del nonno Dante Lattes, uno dei più raffinati e noti intellettuali ebrei del Novecento, e la scavatrici dei kibbutz di una nazione che stava nascendo, che Amos plasmò la sua personalità. Lo studio e la pratica, la teologia e l’azione politica, la fede e la medicina, Israele e la sinistra. Binomi non sempre facili, anzi talvolta veri e propri ossimori che associano termini incompatibili tra loro. Ma proprio questa fu la battaglia culturale e politica di Amos, combattuta per dimostrare che si può essere sionisti e di sinistra, che si può sostenere Israele e persino combattere nel suo esercito avendo a cuore, allo stesso tempo, i valori della solidarietà sociale, della giustizia e della pace. Che fosse nelle sessioni del Segretariato per le Attività ecumeniche (Sae), nei convegni di Confronti o nei seminari accademici alla Sapienza, erano questi i temi sui quali Luzzatto insisteva con i toni pacati e fermi del raffinato intellettuale che citava la Bibbia in ebraico e che impreziosiva i suoi discorsi ricorrendo alla tecnica narrativa ed esplicativa del midrash.

Negli anni della sua presidenza dell’ebraismo italiano, Luzzatto ha dovuto affrontare la crisi seguita all’attentato alle Torri gemelle del 2001. Per gli ebrei si trattò di un passaggio difficilissimo alla fine del quale molti di loro si spostarono su posizioni radicali, per approssimazione potremmo dire con la destra israeliana. Gli effetti di questo riposizionamento si avvertirono anche nella comunità italiana che, però, aveva un presidente che restava fermo nei suoi convincimenti politici di uomo “di sinistra”, convinto della necessità della pace tra israeliani e palestinesi e pronto a spendersi per il dialogo interreligioso. Furono anni di incontri importanti – primo tra tutti quello di Assisi del 2002, fortemente voluto da Giovanni Paolo II – in cui, attraverso le parole della fede, si cercava di tracciare vie di pace, a iniziare da quella nel Medio Oriente.

Sul piano interno vi fu un altro passaggio difficile e controverso della presidenza Luzzatto a capo dell’Ucei: nel 2003 Gianfranco Fini, leader di Alleanza nazionale e vicepresidente del Governo Berlusconi, annunciò la sua intenzione di visitare Israele. A buona ragione, in molti ritennero che fosse una mossa strumentale, tesa ad affrancare lui e il suo partito dall’eredità neofascista e implicitamente negazionista della Shoah che aveva caratterizzato quel Movimento sociale italiano in cui si era formato e di cui era stato segretario nazionale. La reazione degli ebrei italiani si divise tra l’indignazione per la strumentalità della visita che sarebbe arrivata allo Yad Vashem, il sacrario delle vittime, e la valorizzazione della buona intenzione di un leader di destra che voleva liberare se stesso e il suo partito dalle scorie di un neofascismo fuori tempo e irrimediabilmente giudicato dalla storia. Luzzatto si mise in mezzo ai due gruppi avanzando una proposta rischiosa e temeraria: Fini sarebbe andato in Israele ma accompagnato da Luzzatto, che gli avrebbe “spiegato” luoghi e contesti, pronto a bilanciare, correggere, smentire il suo autorevole ospite. Tutto filò liscio alla fine Fini dichiarò che il fascismo era stato parte del “male assoluto del XX secolo”. Frase con un timbro assai diverso dall’affermazione pronunciata pochi anni prima per cui le leggi razziali erano state un semplice “errore” che aveva prodotto un “orrore”. Traghettare la destra neofascista al conservatorismo liberale non è un’impresa semplice o esente da rischi ma Luzzatto la ritenne possibile e, in qualche modo, volle provarci. E crediamo ebbe ragione.

Amico del mondo protestante e della testata Confronti, nel 2003 Luzzatto partecipò a una tavola rotonda svoltasi nella classica serata “del lunedì” del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste. Nel tempio di Torre Pellice gremito di persone lanciò un’idea che suona ancora attuale, quella di un «forum permanente per le religioni, un luogo di incontro e discussione per conoscersi, dialogare e lavorare insieme per il bene comune. Insieme le religioni devono combattere stereotipi e pregiudizi, insieme devono promuovere la reciproca conoscenza». Ci piace considerarlo il testamento di un uomo di fede che credeva nel dialogo come strada per la pace e la giustizia. 

*** 

 “Il mio nome esatto è Amos Michelangelo Luzzatto, figlio di Leone Michele e di Emilia Lina Lattes. La mia famiglia è molto composita. I Luzzatto sono originariamente ebrei veneti, giunti, pare, dalla Lusazia, rintracciabili alla fine del XV secolo fra Venezia, il Friuli e il Veneto orientale. La lapide della tomba sul punto più elevato del cimitero ebraico di Conegliano Veneto appartiene a un Luzzatto e ne presenta lo stemma: un gallo che tiene tre spighe in una zampa, sormontato da una mezzaluna e da tre stelle a cinque punte. Il tutto dovrebbe essere verde su campo bianco”.

In Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra, pubblicato nel 2008 da Mursia, Amos Luzzatto fa il bilancio di una vita appassionante e piena di sfide. Una vita nel segno delle radici, delle molte straordinarie storie e dei molti straordinari antenati di cui conserva la memoria. Dal nonno materno, il rabbino e intellettuale Dante Lattes, al poeta, esegeta ed ebraista Samuel David Luzzatto, suo trisavolo, che fu conosciuto anche come Shadal. Tra i suoi cugini il grande intellettuale triestino Giorgio Voghera. Il racconto privato e l’impegno civile di un protagonista a tutto campo della società italiana. Amos Luzzatto, sia il suo ricordo di benedizione, ci ha lasciato in queste ore: aveva 92 anni. La Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni ha immediatamente preso contatto con la Comunità di Venezia e i suoi familiari, esprimendo vicinanza e partecipazione al lutto.

L’occasione di quel libro memorabile era il traguardo degli 80 anni, che compiva proprio in quei giorni. Fresco il ricordo dell’esperienza alla guida dell’Unione, di cui era stato presidente per due mandati consecutivi. Una stagione di intenso lavoro a difesa del pluralismo e delle libertà di tutti. Un impegno per il quale non si è mai risparmiato. “Rappresentare politicamente gli ebrei italiani – racconterà a Pagine Ebraiche – ha significato per me difendere e valorizzare l’Intesa con lo Stato. Ma anche dare significato al nostro essere minoranza, una realtà che assieme ad altre minoranze possa offrire concretezza in Italia al pluralismo democratico non sempre adeguatamente sostenuto”. E poi, aggiungeva l’ex presidente UCEI, “fare ogni sforzo per poter esprimere in maniera unitaria il vissuto e le opinioni così diverse fra loro del pubblico ebraico”. E ancora “coltivare la realtà ebraica europea, mantenere uno stretto rapporto con la realtà di Israele, religiosa e laica, senza atteggiarsi a rappresentanti della politica israeliana, funzione che in un mondo democratico ed evoluto spetta ai cittadini israeliani e agli organi che si sono dati”.

Medico e scrittore, Luzzatto era nato nel 1928 a Roma e nel ’39 era emigrato con madre e nonni nell’allora Palestina mandataria, il futuro Stato di Israele. Sarebbe tornato in Italia solo nel 1946. Ha guidato l’Unione dal 1998 al 2006 e, tra i vari impegni in campo ebraico, è stato anche presidente della Comunità di Venezia e direttore della Rassegna Mensile d’Israel. Tra i libri di cui è autore, oltre all’autobiografia uscita con Mursia, ci sono “Ebrei moderni” (Bollati-Boringheri, 1989); “Sinistra e questione ebraica” (Editori Riuniti, 1989); “Oltre il Ghetto” (con David Bidussa e Gadi Luzzatto Voghera) (Morcelliana, 1992); “Annali Einaudi – Storia degli ebrei d’Italia, vol. II” (Einaudi, 1997); “Leggere il Midrash” (Morcelliana, 1999); “Una vita tra ebraismo, scienza e politica” (Morcelliana, 2003); “Il posto degli ebrei” (Einaudi, 2003); “La leggenda di Concobello” (Mursia, 2006); “Hermann” (Marsilio, 2010).

Intervenendo in occasione di un Giorno della Memoria di 15 anni fa, davanti all’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, ebbe a sottolineare: “La violenza, l’incitamento all’odio fra popoli, culture, religioni diverse, l’omologazione, per quanto riguarda il passato, dei carnefici e delle loro vittime, tutto questo è tragicamente nella cronaca quotidiana. Saremo capaci di reagire a questa marea? Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere consapevolmente fra il bene e il male, fra la lotta di sopraffazione e la convivenza civile nel rispetto dell’altro? Hillel, un grande Maestro dell’ebraismo diceva: ‘Non fare agli altri ciò che non vorresti per te. Tutto il resto è commento. Va’ e studia’”.

Una riflessione e un pensiero che non sembrano aver perso d’attualità.

"L'inselvaggiamento"

Riprendiamo da Maurizio Blondet (qui):


Una estate da Arancia Meccanica ha vissuto la Francia nel silenzio dei media (ma lo stesso si può dire della Svezia, per non parlare degli Stati Uniti): caterve di aggressioni e di omicidi ultra-violenti e poco motivati, stupri collettivi, profanazione di chiese e cimiteri, innumerevoli atti di vandalismo, incendi – compiuti sistematicamente da “migranti” o di etnia non francese. Un fenomeno che viene chiamato “ensauvagement”, inselvaggimento del vivere sociale; termine adottato anche da un ministro degli Interni. Ma gli appelli dei cittadini allo Stato restano inascoltati. La polizia non interviene, le mani legate dai giudici. Sicché a Bordeaux, a Nantes, in località più piccole, i cittadini, esasperati dal degrado del loro ambiente quotidiano, hanno formato collettivi per farsi carico della propria sicurezza. Fra la condanna unanime dei media e dei politici al governo.

Il punto è capire se e quando questa “criminalità molecolare” diventa “guerra”, magari “ibrida”: lo dice Eric Werner, docente di filosofia a Ginevra dopo essersi laureato a Parigi, polemologo, ossia capace di “pensare la guerra”. Una distinzione intellettuale preliminare e chiarificante: se è guerra., i metodi da adottare sono diversi da quelli della polizia e della magistratura. E l’autodifesa è legittima. Werner ha scritto Légitimité de l’autodéfense : Quand peut-on prendre les armes ? – In cui si riconosce la specifica chiarezza di pensiero civile del soldato-cittadino elvetico, che ha l’arma di Stato nell’armadio , pronto alla chiamata, e con la precisa nozione che i diritti della libertà collettiva nascono dal dovere di difenderla.

“La criminalità, in sé, non è guerra. Lo diventa quando diventa mezzo della politica; ma allora lo diventa molto chiaramente. Ci si può chiedere se oggi non sia così”, dice Werner nell’intervista che gli ha fatto un blog studentesco.

E’ già così?

“La risposta è resa confusa dal fatto che proprio la questione se si è in pace o in guerra che, oggi, sembra superata. È per una semplice ragione, e cioè che tutto oggi è guerra. La guerra è diventata “Senza Limiti” (per usare il titolo del capitale trattato dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione). Non c’è quindi più dubbio se si è in pace o in guerra. Perché a priori siamo in guerra. Questo è particolarmente vero all’interno”.

A questo punto va ricordato che nel 1998, Werner aveva pubblicato “L’avant-guerre civile – Le chaos sauvera-t-il le Système?”dove descriveva con anni di anticipo le conseguenze del crollo dell’URSS. Una volta sparito il Grande Nemico, cosa avrebbe fatto il sistema di potere occidentale per legittimarsi? Reinventarsi un nemico, prendendolo se occorre dal proprio pollaio. “Il potere incoraggia il disordine, addirittura lo sovvenziona, ma non per sé; lo sovvenziona per l’ordine di cui è il fondamento, al cui mantenimento contribuisce. Ordine attraverso il disordine, questa è la formula”: governare con la paura ed il caos si dimostra estremamente efficace, come prova la dittatura terapeutica in corso. I jihadisti francesi che coi loro attentati hanno insanguinato la Francia (la cui dirigenza li aveva formati e mandati in Siria) sono lì a dimostrarlo.

Il punto è che oggi, contrariamente a 20 anni fa, Werner non è più sicuro che il potere ci voglia mantenere nello stato di “avant-guerre civile”. Che punti alla guerra civile vera e propria.

“Lo Stato sembra non prendere la misura la gravità della situazione, si dice. Al contrario, l’ha capito benissimo, poiché lui stesso è all’origine di questo stato di cose, se non altro per avergli permesso di svilupparsi come lui. Certo è che non ha fatto nulla per impedirne o anche solo frenarne l’instaurazione – mediante un migliore controllo delle frontiere, ad esempio, o garantendo che teppisti, violentatori e delinquenti siano soggetti alle sanzioni previste dalla legge: che, come sappiamo, non è mai il caso.

“Quanto al patto sociale tra lo Stato e i suoi cittadini, non esiste più da molto tempo alcun patto: lo Stato ha da tempo cessato di proteggere i propri cittadini. Ma questo non è solo il caso della Francia: è anche il caso di molti altri paesi europei”. Il potere non a caso è sovrannazionale e detta le regole.

“Personalmente, non sono un anarchico. Riconosco pienamente l’utilità dello Stato e la sua necessità. Ma non lo considero “amico a prescindere”. Lo è solo se si comporta secondo il patto sociale, che lo obbliga a tutelare il cittadino. Altrimenti no, non lo è. Lo è ancora meno quando mi attacca, come sempre di più oggi. Allora è mio nemico e, che gli piaccia o no, prendo tutte le misure che ritengo utili e necessarie per proteggermi da lui”.

“Si potrebbe anche dire che lo Stato è oggi il nemico prioritario. Non è l’unico nemico: ce ne sono molti altri. Ma è il nemico prioritario. Se prima non lo escludiamo, non escluderemo nemmeno gli altri, se non altro perché è loro alleato e li protegge “legalmente” ”.

Il governo Macronista sbaglierebbe a non ascoltare queste riflessioni che si stanno espandendo in un popolo che ha rivoluzioni, insurrezioni e jacqueries nella sua esperienza storica.

Tanto più che un ufficiale superiore della Gendarmeria (ovviamente anonimo), l’8 settembre, ha postato su un sito molto seguito una denuncia contro “la deriva estremamente grave riguardo alla democrazia delle istituzioni di polizia di paesi apparentemente democratici. Dove lo Stato le strumentalizza “usandole per aggredire i cittadini onesti risparmiando teppisti meno docili”.

Ora, aggiunge il dirigente della polizia, “con l’inizio dell’anno scolastico, si presenta un mondo inverosimile, con un controllo delle maschere da parte di uomini muniti di armi da guerra davanti alle scuole, che traumatizzano bambini e genitori e con minacce di multe di 270 € se negli autobus scolastici la maschera non è usata nel modo corretto o la cintura di sicurezza non è allacciata.“

“Nell’attuale crisi, in cui sono seriamente messe in discussione le libertà, tra cui quella di respirare normalmente, il principio stesso della vita, dall’obbligo di indossare una maschera la cui inefficacia tutti gli studi dimostrano contro un virus le polizie sono usate contro le persone. L’azione della Polizia e della Gendarmeria sulla pubblica strada legittimamente contestabile, perché martirizza la popolazione innocente vittima di questa crisi – e gradiremmo che lo stesso ardore fosse posto nella ricerca dell’origine del male, dei suoi autori, collaboratori, finanzieri…”.

Qualcosa dice che in Francia la misura è colma. (Il lettore avvertito ricorderà ciò che disse il veggente bavarese di Parigi: la città sarà distrutta dalla sua popolazione).

Invece, “In Italia le cose vanno selvaggiamente”. Il selvaggio non è il primitivo; è il degenerato, e decaduto da una civiltà superiore, di cui non ha saputo – o voluto – fare la manutenzione. Una “influencer” ha decretato che il delitto di Colleferro deriva dalla “cultura fascista”. L’errore sta nella parola “cultura”. E’ invece la teppaglia degradata che vive di discoteche, di estetica da discoteche (tatuaggi e palestrati, donne “seduttive”, vuoto mentale, fatti e strafatti) alla quale l’influencer partecipa non meno dei teppisti assassini. Le opposte tifoserie che si sono immediatamente formate attorno al vile fatto di sangue, rivelano lo stesso scadimento dal livello di civiltà minimo per vivere all’altezza dei tempi: gli “antifascisti” del web insultano e minacciano fisicamente gli avvocati difensori dei teppisti omicidi, dimostrando di voler anch’essi la giustizia sommaria, il linciaggio. E peggio: l’ignoranza del più elementare principio del diritto, che dovrebbe essere nozione comune fin dei bambini.

Da qui comincia per l’Italia la tragedia – che non può essere guerra civile, per insufficienza culturale, mentale e civile di tutti; sarà una rissa da discoteca, come ne accadono ogni notte fra strafatti ubriachi, ma allargata all’intero territorio nazionale. L’inselvaggiamento all’italiana come voluttuosa discesa nello stato di bestie, dimentiche di ogni cultura.

Pochi, molti, tutti?

I nostri lettori ricorderanno (e, se no, glielo ricordiamo noi) lo slogan elettorale del laburista britannico Jeremy Corbyn: for the many, non the few cioè per i molti, non per i pochi. Sfortunatissimo, visto con il senno di poi dei risultati politici ottenuti. Ebbene, una questione simile sta riguardando la (ex) chiesa cattolica e il suo (nuovo) messale inventato, come gustiamo in questo puntuale articolo della FSSPX: Papa Francesco prende in contropiede Benedetto XVI.

Jeremy Corbyn con alle spalle il suo slogan elettorale:
"per i molti, non i pochi"

Papa Francesco ha approvato la nuova edizione del Messale Romano in lingua italiana. Ciò include una traduzione che Benedetto XVI, allora Papa, considerò - giustamente - errata, e di cui aveva chiesto la rettifica.

La consacrazione del preziosissimo Sangue del canone della Messa include, sia nel messale tradizionale che nel nuovo messale, questa formula: "Hic est calix sanguinis mei, (…) qui pro vobis et pro multis effundetur - Questo è il calice di il mio Sangue (…) versato per voi e per molti".

Tuttavia, dopo la promulgazione del Novus Ordo, molte versioni in volgare tradussero: "versato per voi e per tutti". Così in inglese - for all, in tedesco - für alle, e in spagnolo - por todos. In francese c'è una certa ambiguità, la traduzione più comune è: "pour la multitude".

L'intervento di Benedetto XVI

A tre mesi dalla sua elezione, Benedetto XVI si è impegnato a correggere questo punto. In primo luogo ha richiesto una consultazione dei vescovi del mondo che è stata effettuata dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.

Il 17 ottobre 2006 il Cardinale Arinze, Prefetto di detta Congregazione, ha indirizzato una lettera a tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali. Ha riscontrato che molte traduzioni in volgare usavano "per tutti" e ha dichiarato che questo non minava la validità della Messa. Tuttavia, ha fornito sei ragioni per tradurre "per molti":

- il fatto che queste parole siano tratte dal santo Vangelo - Mt 26, 28 e Mc 14, 24. (In greco il termine è "polloi" , che significa "molti");

- il rito romano ha sempre detto "pro multis";

- i riti orientali hanno termini uguali o equivalenti;

- la traduzione esatta di "pro multis" è "per molti";

- le ripetute richieste del Vaticano per garantire l'accuratezza delle traduzioni;

- l'argomento più importante ricordava - senza nominarla - la distinzione tra redenzione oggettiva e soggettiva.

Per redenzione oggettiva si intende il fatto che il sacrificio di Cristo è sufficiente per salvare tutta l'umanità. È quanto esprime san Tommaso nell'Adoro Te: "cujus una stilla salvum fácere, totum mundum quit ab omni scélere - di cui una sola goccia [del prezioso Sangue] è sufficiente a salvare il mondo intero da tutte le colpe".

Ma la salvezza non è qualcosa di automatico: l'anima deve parteciparvi, pentendosi delle sue colpe e aderendo al suo redentore. La redenzione soggettiva è quindi la redenzione effettiva di un'anima alla quale si applicano efficacemente i meriti di nostro Signore. Ma non tutti saranno salvati, come afferma Gesù Cristo nel Vangelo, parlando del giudizio finale, in Mt 25: 31-46.

Le illuminanti spiegazioni del Catechismo del Concilio di Trento

Ecco come il Catechismo del Concilio di Trento spiega queste parole: "Le altre parole: “per voi e per molti” sono prese, alcune da San Matteo, altre da San Luca. Ed è stata la Chiesa che, ispirata dallo spirito di Dio, le ha riunite. Servono per esprimere i frutti e i benefici della Passione.

"Se consideriamo davvero la sua virtù ed efficacia, siamo obbligati a confessare che il Sangue del Signore è stato versato per la salvezza di tutti. Ma se esaminiamo i frutti che ne derivano gli uomini, è evidente che solo molti, e non tutti, ne beneficiano. Quando Gesù Cristo disse: “per voi”, intendeva con questo coloro che, eccetto Giuda, erano presenti e a cui stava parlando; oppure gli eletti tra gli ebrei, come i suoi discepoli. Aggiungendo: "per molti" voleva designare tutti gli altri eletti, sia tra gli ebrei che tra i gentili".

"Quindi è a ragione che non è stato detto: “per tutti”, poiché vi si intendeva il frutto della Passione, che ha portato la salvezza solo agli eletti. È in questo senso che dovremmo intendere queste parole dell'Apostolo: “Gesù Cristo è stato immoltato una sola volta per togliere i peccati di molti” (Eb 9:26); e quello che dice Nostro Signore in San Giovanni: “Prego per loro, non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi”. (Gv 17, 9)"

Dopo l'intervento di Benedetto XVI, alcune traduzioni in volgare hanno corretto la loro scelta e hanno ripreso la formula "per molti": così in Germania, in Spagna, in Ungheria, negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in diversi paesi dell'America Latina. L'Austria e l'Italia, tuttavia, hanno rifiutato. Oggi quel rifiuto è sostenuto da Papa Francesco.

Quest'ultimo prende in contropiede l'azione del suo predecessore, e rafforza una traduzione che possiamo giustamente qualificare come errata, poiché non rispetta né il testo del messale, né il testo del Vangelo, ispirato da Dio, da cui è tratta. La traduzione "per tutti" evoca pericolosamente l'idea che tutti siano salvati, indipendentemente dal loro atteggiamento verso Dio.

La misericordia di Dio non è resa più manifesta da una tale manipolazione, che anzi la maschera e ci fa dimenticare che è sempre legata alla giustizia. Bisogna ricordarsi sempre del già citato passo del vangelo sulla fine dei tempi.

Il soggettivismo dei "diritti"

"Purtroppo siamo a questo punto: tutti - i sindacati, le donne, i disabili - hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche" (Michel Villey, Le droit et les droits de l’homme, Presses universitaires de France, Paris, 1983).

Su La retorica contemporanea dei diritti dell’uomo (tema, ahinoi, di strettissima attualità) a partire dalla lezione del filosofo Michel Villey, proponiamo ai nostri lettori questo saggio di Giuseppe Viggiani pubblicato su Diritto.it. Neretti nostri.

Michel Villey (1914-1988)

ABSTRACT

Il seguente elaborato si prefigge di condurre una breve disamina (di tenore storico-giuridico) su quel complesso fenomeno contemporaneo rappresentato dai “Diritti dell’Uomo”, realtà di punta e baluardo concettuale estremo del moderno soggettivismo giuridico, dando risalto alla impostazione critica assunta, in tale campo, dallo storiografo e filosofo del diritto francese Michel Villey (1914-1998).

Villey fu uno dei più estremi avversari teorici della concezione dirittumanista, a suo parere impregnata di correnti filosofiche, religiose e morali che poco hanno a che fare con il diritto in senso stretto e quindi carente di ogni parvenza di giuridicità. La loro essenza si baserebbe su delle promesse e mere dichiarazioni di principio difficili da mantenere ed anzi irreali, illusorie e contraddittorie.

Seguendo, pertanto, quella che è la costruzione filosofico-giuridica villeyana e partendo preliminarmente dai capisaldi teoretici, dall’oggetto e dai metodi del c.d. “diritto naturale classico”, si cerca di enucleare la genesi storica e filosofica di queste formule giuridiche internazionalmente accettate (nate grazie al contributo intellettuale di Locke ed altri giusnaturalisti continentali, per arginare le conseguenze negative sull’individuo del modello positivo legal-statualistico) ed, in seguito, di evidenziarne tutte le aporie a partire dal relativo linguaggio, in ciò non misconoscendo affatto quella che è la naturale dignità e libertà dell’uomo ma cercando di far emergere come il sistema attuale dei diritti fondamentali sia, ad uno sguardo realista, incapace di mantenere ed esplicare le sue promesse programmatiche e garanzie retoriche.

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Nell’ambito del complesso e frastagliato dibattito contemporaneo sui c.d. “Diritti dell’Uomo” o dei c.d. “diritti fondamentali o universali”, uno dei detrattori o, quantomeno, uno dei critici più arguti ed agguerriti dell’architettura complessiva di codesto insieme di principi e norme internazionalmente accettati ed imperanti, appare senz’altro il giusfilosofo francese Michel Villey (1914-1998).

Filosofo e storico del diritto, in special modo di quello romano classico, Villey nacque a Caen nel 1914. Figlio e nipote di già illustri docenti ed accademici di Francia [1], professore dapprima all’Università di Strasburgo (1949) e poi, per lungo tempo, all’Università Paris II Panthéon-Assas, dal 1959 fonda e dirige gli « Archives de Philosophie du droit ».

Cattolico lungimirante, uomo di dialogo, “mosca bianca” in un contesto accademico-culturale, quale quello francese degli anni ’60 del novecento, dominato dalle egemonizzanti mode contestatarie, sociologiche ed esistenzialiste, Villey fu amico del protestante J. Ellul, dell’ebreo C. Perelman, del tomista G. Kalinowsky, dell’aristotelico A. Giuliani e dell’agostiniano S. Cotta. Muore a Parigi nel 1998 e qualche tempo dopo la sua dipartita, giusto nel decennale della sua scomparsa, Stéphane Rials, in suo onore, muta il nome del Centre de Philosophie du droit del succitato Ateneo parigino in « Institut Michel Villey pour la culture juridique et la philosophie du droit ».

Tra le sue maggiori pubblicazioni sulla storia della filosofia del diritto (oltre ad una gran messe di articoli monografici, trascrizioni di dibattiti, saggi brevi, appunti e spigolature prodotta in circa mezzo secolo di attività di ricerca) si possono annoverare: « Philosofie du droit. Définitions et fins du droit »; « Les moyens du droit » (Dalloz 1986); « Critique de la Pensée juridique moderne » (Dalloz 1973); nonché, il suo opus magnum « La Formation de la Pensée juridique moderne » (Jaca Book 1986).

Per comprendere, innanzitutto, le ragioni che hanno mosso le istanze di problematizzazione villeyana nei riguardi di queste attuali tipologie di formulazioni giuridiche ed i suoi ponderati attacchi contro la conseguente costruzione dirittumanista, sarà necessario, in via preliminare, accennare a quella che è stata la cifra filosofico-concettuale di tutto il suo lavoro di storico ed ermeneuta del diritto. Bisognerà, cioè, esplicare in una breve sintesi i capisaldi teoretici di base della visione giuridica villeyana.

Da tale prospettiva, dunque, potrà certamente affermarsi che la sua opera globale di riscoperta dei fondamenti, categorie, metodi e dei fini del diritto – e del diritto classico in particolare – si alimenti incessantemente di quello che egli stesso definì, con una formula riassuntiva alquanto felice ed efficace, “diritto naturale classico”. Ed i tre paradigmi fondamentali che fungono da pietra di paragone nello studio del giuridico, sono rappresentati rispettivamente dall’opera di osservazione e di conoscenza di Aristotele, dalla giurisprudenza romana d’età repubblicana e dal realismo di San Tommaso d’Aquino.

Segnatamente, sarà proprio nell’Etica dello Stagirita (libro V), così come nell’insegnamento giurisprudenziale romano tardo-repubblicano ( rappresentato dallo ius civile casistico e la quasi-dialettica) e in alcuni passi della Summa dell’Aquinate (il Trattato sulle Leggi ed il Trattato sulla Giustizia nella Secunda Secundae), che Villey rintraccerà quella Weltanschauung classica che gli fornirà le risposte sostanziali all’attanagliante e da sempre problematico quesito circa la definizione di che cosa sia veramente il giusto.

Villey perviene e fonda la sua indagine su di una nozione eminentemente oggettiva del diritto. O, per meglio dire, di iustum, o di dikaion, o di res iusta, rintracciabile a partire dalla natura (cosmica) delle cose e della realtà sociali: il diritto in senso proprio consisterà, allora, in una relazione, in una giusta ed armonica proporzione fra le parti ed in una successiva, coerente opera di attribuzione delle relative “frazioni” di tali cose agli uomini che vivificano e assumono il ruolo di nodi di tali relazioni: il diritto è suum cuique tribuere.

« Dare a ciascuno il suo » significa classicamente implicare che il diritto abbia una realtà oggettiva permanente, sensibile, esterna agli uomini. L’id quod iustum non ha, contrariamente a quanto affermato a partire da tutti i successivi filoni giusfilosofici moderni, una scaturigine soggettivistica ed astratta ma si situa nelle cose e si manifesta prima nella loro individuazione ed, in seguito, nella loro suddivisione entro il corpo sociale (anche se in tale opera successiva di divisione dei beni o jura, sia corporali che incorporali, tace prudentemente sui relativi criteri di ripartizione, poiché si tratta di una ricerca dialettica sempre in fieri, sempre inesausta e dipendente dalle specificità dei casi concreti e dalle circostanze esterne)[2].

Nondimeno, emerge l’importanza della interpretazione e della deduzione filosofica nel metodo che Villey utilizza per stabilire un rapporto di contiguità tra una data situazione di fatto e la relativa lettura tramite l’inferire dalla situazione di partenza, delle regole generali per definire il diritto che la caratterizza. Questo rapporto è quindi una fusione armonizzata tra la natura emergente delle cose (to dikaion phusikon) e il diritto positivo (to dikaion nomikon) che con linguaggio aristotelico si può definire diritto politico (to dikaion politikon).

Il diritto naturale classico è e si traduce, in ultima istanza, attraverso i passaggi ermeneutici del ceto professionale dei giureconsulti, in diritto politico, diritto che informa e regola la vita associata della polis. E l’essenza ipotetica del diritto si dice osservando la natura delle cose, rinvenendo nei complicati e ramificati rapporti sociali la proporzione di beni, oneri e di incarichi da attribuire. Il processo, inoltre, è quel momento simbolico, corale e basilare in cui si dice il diritto: ius dicere.

Il francese si pone quindi come continuatore diretto di concezioni che Francesco D’Agostino, nella prefazione introduttiva all’opera principale dello storiografo, suole descrivere come « atemporali » ed « anonime », sottolineandone il carattere eminentemente universale e perenne [3] ed in tutto il suo lavoro cerca di difenderle dall’attacco sferrato dall’eccessiva formalizzazione positivista, legalistica e volontaristica, dall’influenza dei costrutti etico-religiosi e dalle ultime mode sociologiche che, in qualità di fattori estrinseci destabilizzanti, prenderanno piede epoche successive fra gli autori ed i metodi del diritto.

Si è appena detto del carattere di « perennialità » di certe vedute o concezioni giuridiche. Per Villey, è proprio codesto carattere che informa di sé lo sfondo mobile di tutta la storia della filosofia del diritto: quest’ultima si viene a configurare come un insieme alternato, vario e cangiante di movimenti, di imprevedibili andirivieni, di ricorsività fluttuanti di concezioni del diritto che si ritrovano in gradi diversi nei nelle elaborazioni dei diversi giuristi nelle diverse epoche.

Come si è accennato, nella riflessione del giurista di Caen appaiono rilevanti, l’adozione di un metodo di osservazione della « natura » – termine notoriamente polisemico [4] – il più ragionevole ed obbiettivo possibile ed, in successione, una calibrata e verosimile elaborazione concreta del diritto, tratta dai dati estrapolati dell’esperienza delle cose (delle realtà fenomeniche sociali e cittadine) mediante un procedimento dialogico, o, per meglio dire, dialettico costantemente in fieri, necessariamente parziale e fisiologicamente incompleto, giammai, tuttavia, destinato a divenire sistema fisso, sclerotizzato ed astratto.

Durante il primo momento osservativo, il diritto non è detto a priori, cioè non viene dedotto da una mera apodittica cristallizzazione legalistico-normativa (à la Kelsen, per intenderci) ma viene pronunciato a posteriori [5].

Esso deriva da una visione finalistica o onto-teleologica della natura, che postula la presenza di una disposizione (hexis) spontanea e ordinata di equilibri sia tra le persone che fra le cose e le persone. Ma tale disposizione, tuttavia, non è un ordine perfetto nelle sue manifestazioni, in quanto richiede di essere riequilibrato dall’intervento del giudice nel momento in cui dice a ciascuno quale è il suo diritto peculiare. Il giudice, in tal caso, non fa altro che derivare, a partire dalla contingenza dei fenomeni naturali e sociali, un ordine strutturale (cosmos) di elementi naturali che da « forma » alla contingenza stessa del fatto particolare. In altre parole, il giurisperito rintraccia in un dato sottoinsieme delle cose naturali, costituito dai fatti sociali, le relative « cause finali ».

E questa operazione, com’è prevedibile, dato il carattere limitato della sfera conoscitiva umana, sarà sempre incompleta e parziale: il giurista estrapolerà dalla natura delle cose alcuni elementi ipoteticamente ricorsivi, denotativi, senza tuttavia mai conoscere a fondo tutto ciò che costituisce in toto l’ordine finalistico di cui supra il quale rimarrà, giocoforza, perlopiù nascosto. E lo farà attraverso l’ausilio della ragione, attitudine naturaliter comune a tutti gli uomini. La stessa ragione perverrà alla constatazione che il diritto naturale ricavato dalla natura delle cose è una realtà flessibile, transeunte, che si evolve e diversifica secondo i luoghi, le datazioni temporali e le istituzioni socio-politiche umane.

Iustum non è (soltanto) un termine frutto delle sensazioni, dei sentimenti astratti o delle aspirazioni ideali umani. Costituisce un oggetto esistente ed inserito nelle pieghe della tela complessa della società civile e che dev’essere ricercato. E rientra proprio nelle prerogative del giurista, l’immersione totale nelle dinamiche della società o comunità, dovendo percepire e studiare pragmaticamente l’intreccio delle relazioni in cui è calato, nonché, a partire da questo coinvolgimento attivo, l’utilizzo dirimente della vista (a carattere cognitivo-intellettuale), dell’osservazione analitica per la comprensione teorica dell’insieme dei rapporti sociali, fungendo questi ultimi da luogo privilegiato dove scoprire – secondo le circostanze, i luoghi e le epoche – gli elementi concreti, i fattori strutturali del giusto.

Ma, soprattutto, la concezione villeyana parte dal cruciale presupposto di fondo che la natura di una cosa è direttamente connessa al suo specifico valore. Il giurista deve essere capace di cogliere, come primo compito del suo ufficio, l’essenza valoriale delle realtà giuridiche che si presentano al suo sguardo, o quelle che vengono portate alla sua attenzione durante una qualsiasi controversia processuale.

Il diritto di marca villeyana, dunque, non può che avere, in primis, una preponderante componente assiologica, dal momento che l’essere o l’ontologia che si ricava dalle realtà sociali contemplate, contiene ipso facto anche il valore, ciò per cui esse sussistono. Più espressamente, la concezione giuridica classica implica la non separazione e l’assenza di qualsivoglia scarto dimensionale fra l’essere ed il dover-essere di un ente o di una cosa. L’argomento stesso della celebre « fallacia naturalistica » (ulteriore prodotto della ragione dei moderni che, com’è noto, separa questi due poli) è, perciò, recisamente rifiutata. L’ontico od il descrittivo del diritto, per il professore francese, è intimamente collegato al deontico o prescrittivo dello stesso.

Circa il successivo momento del « dia-lektos », dell’attribuzione del giuridico su basi dialettiche, si deve chiarire che nessun giurista possiede, da solo, premesse e informazioni sufficienti per pronunciarsi unilateralmente e dire quella che è l’essenza del diritto o l’oggetto del giusto. Conseguentemente, conoscere i connotati e la misura di questa relazione necessiterà di una controversia fra i giuristi con l’intento di addivenire ad una conoscenza obiettiva della fattispecie disputata, la meno incompleta possibile e priva di retorica persuasione.

Tale dinamica dialettica si caratterizzerà, inoltre, per essere una ricerca collettiva sotto la forma di una discussione fra operatori del diritto che si pone il proposito di superare le varie divergenze teoriche su di uno stesso tema e di raggiungere una definizione, ovvero una conclusione comune verosimile accettabile da tutte quelle le parti che hanno effettuato lo scambio dei loro punti di vista. Il contenuto particolare di questa conclusione interesserà la definizione delle realtà giuridiche emerse e la loro divisione nell’ambito della relazione. Come afferma Bauzon, allievo di Villey: « il frutto della dialettica dei giuristi è opera comune su contingenze » [6].

L’oggetto precipuo e non retorico su cui i giuristi tentano di mettersi d’accordo nelle loro discussioni è l’equità (o epeikeia). Nell’accezione aristotelica di criterio di divisione o di attribuzione proporzionato, armonico e commisurato dei beni, degli oneri e degli incarichi tra i consociati. Corrisponde all’uguaglianza geometrica (ison) da ricercare nei rapporti sociali e costituisce perciò lo scopo della giustizia particolare. L’equità appare come « l’elemento dinamico della iurisdictio, una fonte sottile, mobile e diversa che verte sull’ordine delle cose » [7].

Villey, utilizzando le parole di Aristotele, la definisce proprio « metro lesbio » o « regola lesbiaca » (proprio come lo strumento utilizzato nelle costruzioni antiche in uso a Lesbo): cioè una regola di piombo che si adegua ai contorni di ciò che si misura.

L’autorità abilitata a prendere le fila del discorso conclusivo della disputa dei giuristi (cioè, in primis, della dottrina) è il giudice stesso. Egli, nella predisposizione della pronuncia finale, potrà liberamente riferirsi a fonti positive quali le leggi formali, i precedenti giudiziari, le osservazioni della dottrina e la consuetudine ma, si badi, tale insieme di fonti non sarà in alcun caso un criterio precostituito, cogente e obbligatorio per dare una soluzione cui attenersi in maniera rigida.

Nella ricerca e nella pronuncia giudiziale dell’equità o dello iustum, vale la pena precisare il ruolo che deve pur avere la statuizione legislativa. Secondo Villey, il giurista può seguire le indicazioni di legge, ma solo il ricorso alla disputa dialettica (in quanto permetterebbe di comprendere l’essenza del diritto nelle situazioni particolari) dev’essere ritenuto la « stella polare » cui attenersi in maniera prioritaria. Ed il dettato di legge, dovrà, nel caso, essere adattato e armonizzato a questo processo prioritario.

Difatti il giurista, riflettendo sullo scopo della legge, dovrà pervenire a rintracciarne la convergenza di questa con le finalità del diritto politico. La disputa con gli altri giuristi lambisce i fini impliciti nella legge in rapporto ad una situazione particolare. Quella di cui si controverte. L’orizzonte e l’operatività della norma scritta, dunque, dovranno sempre essere messi in relazione e ricollegati al caso concreto [8]. Realizzare il contrario (partire cioè da una formula giuridica astratta e imbrigliare la concretezza del fatto all’interno di essa) non permetterebbe di pervenire al giusto, al diritto naturale oggettivamente inteso.

Nel discorso villeyano, di cui si sono esposti testé i nodi fondamentali, si parte, com’è evidente, da una ontologia del diritto, dalla scoperta delle fonti tramite il metodo dell’osservazione esteriore (che Aristotele indicava come theorein), per poi approdare alla teleologia, cioè al discernimento, date le fonti, degli scopi del diritto particolare entro l’insieme dei rapporti del tutto sociale. Ed il giudice (dikastes) nella sua attività lavorativa nella/per la città, dovrà necessariamente basarsi sui risultati di codesta osservazione effettuata e disputata dalla dottrina, dai prudentes, per poter procedere meglio e più realisticamente alla giusta (equa) ripartizione – le « juste partage » come dirà sovente lo stesso Villey – di quelli che sono gli oggetti propri del diritto: beni, cariche, responsabilità ed oneri.

Ecco che il diritto civile, proprio della polis, assurge a particolare metodo giuridico che ha come precipuo campo di studio e d’applicazione le città ove si svolge la vita esterna in comune, le realtà che si sogliono definire sociali, la comunità civica o koinonia politiké e non lambisce mai l’ambito morale dell’interiorità umana soggettiva, del « foro interno ».

E sarà proprio su questo aspetto che si giocherà l’equivoco o, se si vuole, il ribaltamento moderno, imbevuto di agostinismo, stoicismo ed individualismo di marca volontaristica, dello slittamento semantico, dal piano del diritto dall’esterno dei fatti visibili prodotti dall’uomo, a quello interno, presuntivamente assiologico, della ragione, della volontà o della morale astratte.

Ogni velleità esplicativa in chiave soggettivistica ed individualistica della genesi giuridica è difatti messa all’angolo e definita nei termini di un « robinsonnata », cioè di un goffo tentativo di far sorgere il diritto a partire dall’individuo-monade isolato dagli altri (appunto come il Robinson del celebre racconto di Defoe) ed escludere quindi l’orizzonte « creativo » del tessuto dei rapporti sociali esteriori, vera dimora del dikaion in questione.

Da questa prospettiva, lo si deve specificare e ripetere, il giuridico non si identifica in alcun modo con realtà interiori, soggettive, corredanti e caratterizzanti l’essere-individuo, così come non vi è alcun sottofondo o sostrato etico o morale nella genesi giuridica classica. La virtù etica della « giustizia » la stessa nozione di giustizia generale, com’è ovvio, – così come le ulteriori finalità che connotano il vivere sociale collettivo quali il benessere, felicità, libertà, dei cittadini – hanno un loro non indifferente peso quali scopi degni da realizzare ed onorare nell’assetto sociale ma tali realtà sono appunto relegate alla sfera generale del buon funzionamento dell’organismo politico-sociale ed il diritto particolare preso qui in considerazione ha un dominio ed un compito separati e diversi, che si possono definire settoriali, in quanto implicano l’interesse e l’attenzione per realtà particolari che solo in maniera indiretta possono riferirsi ad esse.

Coerentemente, quindi, con la sua critica alla generalità e vaghezza della legge morale, Villey denuncia la natura astratta dei diritti dell’uomo, frutto della corrente giusnaturalista dei moderni.

Per Villey, i diritti dell’uomo appartengono al dominio della giustizia generale (lo iustum essendo, come si è detto, l’oggetto di quella particolare). Subordinare e, anzi, confondere le soluzioni giuridiche con apodittici precetti e assiomi morali o all’idea-cardine di Ragione, dal punto di vista del diritto naturale villeyano, non corrisponde all’essenza del diritto e non aiuta il giurista a ritrovare il diritto nelle circostanze di fatto del contenzioso.

Villey, da filosofo del diritto attento ai collegamenti storici, alle derivazioni, ai portati ed alle influenze di un particolare pensiero, non può pertanto esimersi dall’affrontare anche la tematica delicata della genealogia e delle finalità del discorso dirittumanista, registrando le conseguenti riflessioni in uno dei suoi ultimi scritti, intitolato « Il diritto ed i diritti dell’uomo » [9].

In esso egli conduce criticamente e sempre a partire da una prospettiva che si è definita classica, una disamina sul contenuto ed i fini specifici di tale realtà, cogliendo quelle che possono apparire come le aporie di fondo ed i nodi irrisolvibili della relativa struttura.

Nella prospettiva villeyana, i diritti dell’uomo, la loro sistematica, le loro finalità e il loro linguaggio, si costituiscono non solo, strumentalmente, come « antidoto al positivismo giuridico »[10] ma anche come avanzata punta di diamante dell’elaborazione ultrasecolare del diritto soggettivo. Si impongono, cioè, come una sorta di ultima frontiera del soggettivismo giuridico moderno.

Difatti, si potrebbe dire che essi incarnano, potenziano e moltiplicano all’estremo tutte quelle pretese istanze di potere, facoltà e libertà “naturalmente” scaturenti dall’individuo stesso, fino ad arrivare a farsi sistema ed ideologia sociale contemporanea.

Sul punto, con l’intento di far emergere il sostrato ideologistico, Villey si esprime in questi termini: « Purtroppo siamo a questo punto: tutti – i sindacati, le donne, i disabili – hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche » [11].

Ancora una volta l’individualismo e l’idealismo delle dottrine giuridiche moderne finiscono sul banco degli imputati. Egli perciò non può fare a meno di sottolineare, da subito, la componente e la radice schiettamente giusrazionalista di tali costruzioni: è, infatti, la suddetta corrente che, per lo meno dalla fine del XVII° secolo in poi e fino al XX°, reagisce a quei menzionati eccessi castranti del giuspositivismo legalista, opponendovi tutte le conseguenze ricavabili da un’idea astratta ed aprioristica di Uomo.

In particolare, saranno la Scuola del Diritto Naturale di Wolff [12] e soprattutto Locke a fornire le basi teoriche necessarie per il diffondersi e l’affermarsi del concetto, fino ad arrivare, parallelamente alla creazione di codici pubblicistici e privatistici, alla messa a punto delle cosiddette Dichiarazioni Universali (quella del 1789 a latere della Rivoluzione francese e quella del 1948 delle Nazioni Unite), delle Convenzioni o dei Preamboli alle varie costituzioni e trattati internazionali, appunto omaggianti e riportanti i principi fondamentali su cui questi diritti poggiano e si alimentano.

Nell’epoca attuale, il francese può agilmente notare come le pubblicazioni giuridiche in merito siano diventate vaste e sterminate. Tuttavia, ed in decisa controtendenza a ciò, egli rileva anche come l’ « human-right-talk » [13] sia stato messo sotto accusa dai filosofi inglesi del linguaggio e scrupolosamente smontato onde metterne in luce la sua « meaningless », la sua mancanza di un senso di fondo, specie nell’attività di derivazione di precise norme o statuti giuridici certi ed effettuali.

Tornando però al momento della loro genesi e comparsa nella storia, i diritti in questione, pur essendo prodotto della filosofia moderna razionalista, hanno ricevuto un forte impulso al loro sviluppo anche da parte della teologia cristiana ma, come si affretta subito a chiarire Villey, una teologia degradata e deviata, sotto più punti di vista. I contenuti, infatti, furono laicizzati (si sostituì al Dio trascendente il deismo o il « dio dei filosofi » colto dalla sola Ragione); le forme espressive abbandonarono la logica dialettica per approdare alla sistematica deduttiva e non più induttiva che da un’idea metafisica di ragione naturale, pretendeva di costruire tutto la morale e, di conseguenza, le norme di condotta giuridiche; inoltre, le stesse finalità di pura ricerca speculativa della verità della vecchia teologia, deragliarono in direzione di un’attività pragmatica, di utilità pratica per l’individuo umano, il solo osservabile ed agente nel mondo.

Oltre al retaggio teologico-cristiano di cui si è detto, ve ne fu sicuramente un altro, molto più incisivo e prolifico, sorto nel tardo XVII° secolo e che contribuì più direttamente alla nascita di questa tipologia di diritti ed è rappresentato dalla dottrina giusrazionalistica di John Locke.

Sebbene l’inglese non elaborò direttamente un catalogo di diritti umani, il suo sforzo si diresse, contro ogni esito assolutistico della costruzione hobbesdiana-positivistica ed a vantaggio del ceto borghese liberale, verso il perfezionamento di un diritto di libertà negativa e di un diritto di proprietà confacentisi al regime di ragione naturale.

Nei suoi due Trattati sul governo civile (1690) egli intese poggiare questi diritti – che altro non sono che situazioni soggettive d’origine sia consuetudinaria che giurisprudenziale sulla falsariga dei Bills of rights inglesi [14] – ancora una volta sugli assiomi della ragione umana immutabile e proprio nel capitolo V del secondo Trattato, intitolato appunto « Of Property », tenta di dimostrare (mescolando abilmente, la proprietà di elaborazione scolastica con la teoria hobbesiana del right of nature pre-pattizio e gli artifici della scuola groziana e giusrazionalista sul dominium) come nello stato di natura, situazione che, contrariamente a quella di Hobbes, era pacifica e caratterizzata da « a state of perfect freedom », uno stato, cioè, di perfetta libertà, sussistessero già diritti naturali distinti e dai contorni delimitati e non un unico diritto soggettivo. In primis il diritto all’autoconservazione (tema stoico-groziano) e poi quello di ricevere le cose concesse dalla Natura o da Dio (una sorta di diritto “a” qualcosa): la proprietà, allora, sarà su questa scia il diritto che ciascun individuo ha ottenuto sulle sue cose personali (actuum suorum della scolastica), ergo sull’attività di lavoro e (ecco la novità lockiana) sui frutti di tale attività. La proprietà ingloberà i risultati del lavoro come parte integrante della persona: una « teoria del valore-lavoro » ante-litteram, fa notare Villey.

Codesti diritti di proprietà « frazionati » vengono fondati dall’inglese su di uno stato naturale, o meglio, su di una « legge comune » [15] di natura che impone alla ragione umana di rispettare la proprietà altrui.

Il contratto sociale lockiano è quindi un patto dove questi diritti vengono garantiti mediante la creazione dello stato ma non si abdicherà più, contrariamente ad Hobbes, alla naturale libertà di cui godono gli uomini. Dalla medesima fonte naturale di libertà, Locke farà procedere una seconda generazione di diritti liberali, non-proprietari: quello di coscienza e libertà di culto, di opinione (si noti il tratto soggettivo, empirista ed antidogmatico lockiano) e soprattutto, di resistenza contro l’oppressione sovrana.

Ad ogni modo, quello che è importante sottolineare, è che questo piccolo nucleo di proto-diritti naturali funse da base teorica e materiale per le futura stesura, dopo circa un secolo e per mano della Costituente, della « Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino ».

Le stesse libertà, proprietà e resistenza furono innalzate a principi formali e fini fondamentali della nuova configurazione di Stato liberale borghese [16].

E fu proprio un altro celebre intellettuale britannico del tardo XVIII° secolo, Edmund Burke, politico e pubblicista irlandese, che divenne il principale critico contemporaneo di quei diritti universali che si andavano affermando. Specie nelle sue « Reflections on the revolution in France » (1790) egli attaccherà sistematicamente ed aspramente le istanze sovvertitrici della Rivoluzione, considerate moralmente degradate, per la sostituzione di grandi virtù concrete secolari con nuove e vuote parole d’ordine come « Libertà », « Umanità » e « Coscienza » e colme d’ipocrisia, per la sostituzione violenta della monarchia con un oligarchia borghese affarista. Ma soprattutto, egli si esprime contro la « metafisica » irrealistica (chiaramente non di matrice classica ma propria del modo di procedere della filosofia moderna) alla base dei diritti fondamentali espressi nella Dichiarazione.

Sarà proprio questo carattere mistificatorio, astratto ed idealistico [17], dei diritti inalienabili, formulato degli intellettuali rivoluzionari a fare da basamento teorico per le proclamazioni universali ed a dedurre un’idea falsata della giustizia e della sovranità popolare (già in questa sua critica al sistema democratico e nella contestuale analisi dei pregi del regime misto, Villey fa notare come Burke sia genuinamente « aristotelico »).

Burke, inoltre, oppone alla concezione astratta dirittumanista, il modello tradizionale di quelli che possono essere chiamati diritti comuni inglesi, le « libertà del popolo inglese » ed in tale contesto egli può sottolinearne i caratteri in un certo « senso naturali e classici »: al contrario di essere dedotti da assiomi ideali sono « hérités e prescrits » [18], vale a dire ereditati (dalla tradizione antica) e prescritti dalla consuetudine. Essi non sono pretestuosamente assoluti ma sono limitati, cioè proporzionati, misurati all’interno di un contesto sociale complessivo e diversificati secondo il ruolo e la condizione personale. Non integrano solo poteri ma anche responsabilità ed oneri. Non sono estesi universalmente alla categoria umana generale ma sono situati e relativi [19]: appartengono solamente ad un dato contesto, appunto quello della comunità inglese.

In definitiva, il professore francese sottolinea come Burke sia, più che un reazionario, un continuatore ed un estimatore, nel pieno secolo dei Lumi, del paradigma perenne del diritto naturale. Egli non è razionalista e non concepisce il diritto o i diritti a partire da un’Idea di Uomo o dalla Ragione ma, con il metodo proprio dello Stagirita, si limita ad osservare il diritto contenuto naturalmente entro un dato e situato contesto socio-culturale ed a riscoprirlo mediante il discorso dialettico e la prudenza dei giuristi.

Villey, dunque, continua, pur con le sue modalità, il discorso critico iniziato da Burke. In particolare, fonda la sua analisi ancora una volta sul tenore del linguaggio e sul suo ruolo nodale nell’essere traduzione discorsiva e manifesta di una filosofia (« il linguaggio condiziona il pensiero » [20] – affermerà il francese).

In principio, si concentra pertanto sul termine. Nota, infatti, come questo sia stato surrettiziamente composto dall’unione di « Uomo », o idea generale ed astratta di uomo, più la parola, che si è vista essere ben reale, concreta di diritto: combinazione confusa e quindi inammissibile e fuorviante.

Altra moda che dev’essere necessariamente ridimensionata sarà inoltre la concezione dei diritti dell’uomo come frutto del paradigma storico-progressivo ed evolutivo-migliorativo dell’umanità, mentre le concezioni filosofiche e giuridiche dell’antichità e del medioevo sarebbero sterili residui sorpassati ed inattuali.

Villey cerca di scardinate quest’ulteriore ed illusorio dogma avvertendo che di progresso si può parlare solo limitatamente al campo delle conoscenze tecniche e scientifiche mentre nella storia del pensiero filosofico-giuridico, come si è già accennato, egli ha osservato sostanziali fenomeni di continuità circa i tratti antropologici essenziali e di ricorsività, lungo la storia, di concezioni filosofiche e filosofico-giuridiche identiche nella sostanza ma anche di « alternativamente, periodi di sviluppo e lunghi periodi di decadenza » [21].

E i diritti dell’uomo, molto probabilmente, sono da vedersi qui quale manifestazione dell’ « incultura giuridica » attuale, un regresso rispetto al vero concetto di diritto naturale.

Il professore francese può così iniziare ad abbozzare un catalogo dei loro punti deboli e degli aspetti più paradossali.

Egli evidenzia come, in primis, suddetta specie di diritti sia irreale e quindi impotente (con un’efficace battuta, fa notare il fatto che la mera proclamazione, entro la costituzione nazionale, del diritto al lavoro sicuramente non cambierà realmente le condizioni effettuali della moltitudine di disoccupati esistenti). Essi sono visti quali vaghe ed idealistiche petizioni di principio, ottativi, purposes, promesse, alla lunga, indeterminate ed inconsistenti.

Villey ironizzerà in proposito: « È bellissimo vedersi promettere l’infinito, ma poi, come stupirsi se la promessa non è mantenuta! »[22].

Nel loro intento egalitaristico ed universalizzante (quasi simile all’azione livellatrice dei socialismi reali per Villey) non tengono affatto conto delle specifiche e diversificate situazioni concrete che si possono incontrare. Il loro contenuto, soprattutto, risulta essere eterogeneo e contraddittorio poiché si sono stratificati in essi diritti formali, quali il diritto alla libertà e alla proprietà, con successivi diritti sostanziali frazionati, ossia il diritto alla salute, al lavoro, alla cultura, al tempo libero, alla felicità, alla diversità.

A tal proposito, Villey segnala come tale contraddittorietà si possa trasformare in aperta conflittualità nell’ambito della loro realizzazione. Egli si sofferma proprio su questa loro paradossale tendenza: per realizzare un certo diritto, bisogna sacrificare e negare l’altro, sicché ciò può portare ad ingiustizie [23] (il diritto all’aborto negherà il diritto alla vita, così come il diritto al lavoro dei genitori sarà incompatibile con il diritto all’educazione della prole o il diritto alla privacy con quella della libera informazione).

Ecco l’implacabile “aut-aut” villeyano che rivela il carattere alternativo ed escludente di tali posizioni: « Attrezzo tuttofare. […] Ma attenzione! Bisogna scegliere: o il bene degli uni o il bene degli altri. Non si è mai visto nella storia che i diritti dell’uomo fossero esercitati a vantaggio di tutti. Il problema con i diritti dell’uomo è che nessuno potrebbe servirsene se non a detrimento di certi uomini » [24].

Anche Bauzon ha sottolineato come i diritti dell’uomo non abbiamo il carattere intrinseco di giuridicità ma questo viene loro applicato a posteriori dall’attività sistematizzante dei giusnaturalisti contemporanei e dalle pronunzie giurisprudenziali [25]. E come essi siano soltanto ambigue « petizioni di principio » [26] derivanti dalla morale che non apportano nulla di concreto e preciso, in quanto formule ampie derivanti da una generica ed astratta natura dell’uomo, al contenuto del giuridico ed alle soluzioni di questo nella pratica.

Anch’egli evidenzia il carattere potenzialmente conflittuale di questo genere di norme: « […] La Dichiarazione dei diritti dell’uomo si muove su di un doppio registro; procede per un verso dall’assolutismo delle leggi morali e dall’altra parte, tenta di adeguarle in vista delle circostanze di fatto. Per conciliare l’inconciliabile, ad esempio, il grado assoluto della libertà d’espressione e la necessità di salvaguardare l’ordine pubblico, il giurista deve forse difendere un partito preso ideologico? In realtà il suo ruolo non si presenta in questi termini binari » [27].

Solo partendo dal solito metodo giuridico iniziale di osservazione dei valori e dei fini iscritti nelle cose stesse, si potrà distinguere cosa è diritto da ciò che gli è estrinseco, come nel caso delle leggi morali.

In sostanza, nota la nozione di diritto villeyana quale relazione multilaterale fra uomini che si scorge nella realtà sociale, il concetto di « diritti dell’uomo » ha preteso inferire tale relazione e quindi il significato del termine, solamente dall’unico termine generale ed impreciso di « uomo ».

Villey nota a tal proposito come la creazione dirittumanista da parte di « non-giuristi » [28] abbia, in tal senso, contribuito soprattutto a sovvertire l’idea e la funzione della giustizia classica quale metodo per determinare i giusti rapporti entro una comunità: « […] il sistema individualista ha fabbricato una contraffazione di giustizia […]. Si tratta della Giustizia-Uguaglianza. L’individualismo non può finire che all’uguaglianza: perché, se non esistono che esseri individuali, ne consegue che tutti sono chiamati ad una « perfezione » identica. Nell’ideale, tutti dovranno avere i medesimi diritti, precisamente i diritti « dell’uomo »: stessi diritti di tutti alla salute, all’informazione e alla cultura. È molto razionale. Ma poco praticabile […] Ma ciò che questo sogno d’uguaglianza non può assolutamente essere – se si tratta di un’uguaglianza assoluta ed « aritmetica » – è l’obbiettivo dell’arte del diritto: il giudice lavora nel mondo così come esso è » [29].

L’attacco contro quelle che Villey ritiene essere le istanze uniformanti e livellanti dei pretesi diritti universali è quanto mai palese. Esse è come se conducessero e riducessero la realtà ad un’idea (o ideologia) della realtà, in senso trasformativo, piuttosto che cercare di rinvenire e riconoscere il dato giuridico intrinseco alle forme ed istituzioni sociali, politiche e culturali dei vari popoli.

E ciò, tuttavia, avviene senza il minimo disconoscimento della dignità propria di ogni persona. Villey qui fuga ogni dubbio allorquando afferma che: « sono pronto a “rispettare la persona umana” […] ma relativamente in rapporto a certi beni, spirituali, che non si suddividono e di cui il diritto non si occupa » [30].

La dignità della persona umana, dunque, per il cattolico Villey, esiste, va naturalmente garantita ma appartiene addirittura ad un dominio di valori o istanze travalicanti i normali confini fattuali del diritto, del giusto rapporto nel tutto sociale, rimanendone così accuratamente distaccata ed altra.

In ultima analisi, nell’ottica del professore francese, ciò che i fautori dei diritti fondamentali hanno cercato di fare è stato di mescolare al diritto un fattore, quello estrinseco della legge morale, che dovrebbe rimanergli estraneo.

Ancora una volta si tratta di un linguaggio alieno al diritto che può solo divenire l’argomento retorico di ultima istanza nelle difese processuali degli avvocati e come tale, costituente una prospettiva di carattere persuasivo-retorico, limitato ed unilaterale (in quanto esprimente gli interessi di una sola parte) e non il risultato di una mediazione giudiziale dialettica e realistica che tenga conto delle ragioni e degli aspetti complessi di ciascuna delle parti in causa.

NOTE:

[1] Padre del filosofo fu lo storico della letteratura francese Pierre Villey (1879-1933). Nonno materno fu il filosofo Émile Boutroux, ed inoltre ebbe come zio il matematico Henry Poincaré (cfr. Bauzon S., Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano, Giuffre, 2001, pp. 228-230).

[2] I romanisti moderni, constata Villey, hanno sostituito tribuere con reddere ma in questo caso sbagliando: non si può infatti, in una prospettiva di giusto particolare, sapere a priori quanta parte precisa di beni, responsabilità e debiti deve essere “resa” automaticamente a ciascuno. Il giudice dovrà “attribuire” o determinare preliminarmente quelli che sono gli iura dei litiganti: vale a dire effettuare un lavoro di qualificazione/chiarificazione della fattispecie giuridica per entrambe le parti. Cfr. sul punto, Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 79.

[3] Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano, Jacabook,1986; Prefazione di F. D’Agostino, p. XI.

[4] Cfr. Bauzon S., Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano, Giuffre, 2001, p. 27.

[5] Bauzon, S. L’essenza del diritto secondo Michel Villey. FORUM & Supplement to Acta Philosophica, 5, 467-484.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Sempre da una prospettiva classica, Paolo, uno dei più insigni giuristi d’epoca imperiale, affermava che il diritto non si ottiene dalle regole generali e astratte (ius non a regula sumatur), ma è la regola che è fabbricata dal diritto esistente (sed a iure quod est regula fiat); cfr. Digesto, 50.17.1.

[9] Michel Villey, Le droit et les droits de l’homme, Presses universitaires de France, Paris, 1983.

[10] Ibidem, p. 21.

[11] Ibidem, cit., p. 117.

[12] Il tedesco Christian Wolff (1679-1754) fu uno studioso membro della Scuola del Diritto Naturale e la sua opera si concentrò sulla specificazione, a partire dalla « natura di uomo » razionale, dei vari diritti sostanziali dell’individuo utili alla « perfezione » del suo essere: diritto alla felicità, alla salute ed alla ricchezza. Cfr. sul punto, Il Diritto e i diritti dell’uomo, p. 181.

[13] Ibidem, p. 19.

[14] Ibidem, p. 171.

[15] Ibidem, cit., p. 177

[16] Cfr. l’art. 2 della suddetta Dichiarazione: « Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà e la resistenza all’oppressione» e l’art 17: « […] La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato ».

[17] Lo stesso francese, di rincalzo, dirà infatti che essenzialmente i diritti « dépendent des circonstances. Il ne s’agit pas d’abstractions ». Cfr. Le droit… cit,, p. 133.

[18] Ibidem, p. 131.

[19] Da questo punto di vista, Burke si pone quale campione dei “diritti” specifici degli indiani, degli americani delle colonie e degli irlandesi. Solo questi, egli giustifica, hanno un contenuto pieno e calibrato rispetto al popolo o nazione che li ha creati per diverse esigenze ed in diversi contesti di spazio e tempo. Cfr. Ibidem, p. 132.

[20] Ibidem, cit., p. 29.

[21] Ibidem, p. 32.

[22] Ibidem, p. 24.

[23] Ibidem, p. 26.

[24] Ibidem, p. 182.

[25] S. Bauzon, Il mestiere del giurista…, cit., p. 129.

[26] Ibidem, p. 131.

[27] Ibidem, p. 130.

[28] Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 183.

[29] Michel Villey, Philosophie du droit, cit., t. 1, pp. 164-165.

[30] Ibidem, p. 167.

La pietra dei filosofi

"Sarebbe bello trovare la pietra filosofale, ma non è possibile" dice in sostanza il pilota Sebastian Vettel commentando i funesti risultati ottenuti fin qui dalla sua scuderia Ferrari.

A beneficio dei profani (non di sport automobilistici ma di miscele alchemiche) consentiteci dunque di ricordare di che si stratta (voce Pietra filosofale in Enciclopedia Italiana, Treccani).

Il chimico, alchimista, astronomo, astrologo,
filosofo e farmacista Abu Musa Jabir
ibn Hayyan, noto come Geber (721-815)

Dunque: la fabbricazione o la scoperta della pietra filosofale era lo scopo supremo dell'alchimia, cioè di quel complesso di teorie e tecniche che assumevano la loro ispirazione dalle pratiche tendenti a ottenere la trasmutazione dei metalli vili in oro, la pietra filosofale appunto, l’elisir di lunga vita. Il termine deriva dall’arabo kīmiyā’, uno dei nomi del reagente per la trasformazione dei metalli, detto in Occidente lapis philosophorum o pietra filosofale. Elementi di cultura alchimistica sono presenti sia nell’antica civiltà cinese sia in quella indiana, ma l’alchimia che ha più influenzato la cultura occidentale nacque in Egitto nel 1° secolo d.C. Attraverso il centro culturale di Alessandria e la cultura siriaca, l’alchimia ellenistica si trasmise alla civiltà islamica. Fondatore dell’alchimia araba viene considerato Giābir ibn Ḥayyān, il Geber della tradizione medievale europea (vissuto, pare, nel sec. 8°).

Bene, che cosa propriamente fosse la pietra filosofale è arduo dire, soprattutto perché l'interpretazione del linguaggio alchemico segue vie divergenti: per gli uni, i più, la pietra filosofale è una fantasiosa composizione chimica, invano cercata dagli alchimisti, la quale avrebbe dovuto possedere straordinarie virtù, come quella di trasformare qualsiasi metallo vile in oro. Altri, però, non sono di questo parere, e notano come in molti testi alchemici si affermi esplicitamente che l'"opus magnum" non è opera materiale. Da essi il detto di Basilio Valentino "Visita interiora terra, rectificando invenies occultum lapidem" è interpretato nel senso che la "terra" indichi l'individuo corporeo, e che il "trovare la pietra nascosta", al pari del diventare "immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale", di cui parla un testo attribuito al Campanella, corrisponda simbolicamente a un'esperienza interiore, cercata e vissuta per fini di sviluppo spirituale.

La "pietra dei filosofi" così intesa (e conferme di questa interpretazione vengono arrecate in base ai più diversi testi, dal Geber al Cosmopolita ad Agrippa al Della Riviera) non è però la "pietra filosofale", a cui essa sta come la materia prima all'opera perfetta: per giungere a questa, occorre una lunga serie di operazioni, che, secondo la tesi qui esposta, vengono parimenti descritte sotto il velame del simbolismo alchemico.

Grandi opere

Non ditelo ai grillini, teorici politici della fede senza le opere. Ma a breve distanza da noi la situazione dei trasporti cambia, evolve, migliora. I cantieri funzionano, i lavori partono e terminano, si scava e si realizza. Una lezione rossocrociata che andrebbe magari imparata (come quella tricolore, ma destinata probabilmente a restare soltanto una lodevole eccezione, del nuovo Ponte di Genova).

Dunque: s'inaugura tra pochi giorni, il 4 settembre, la Galleria di base del Monte Ceneri: tassello fondamentale nell'ambito dei collegamenti ferroviari tra Nord e Sud e ancor più tra la Svizzera d’oltre San Gottardo e la Svizzera italiana.

La galleria di base del Monte Ceneri: infografica

L'opera segna di fatto il completamento di Alptransit, il corridoio che attraversa le Alpi da Nord a Sud. A livello regionale è il collegamento destinato a cambiare il Ticino con una rete celere per i passeggeri in viaggio nel triangolo Bellinzona-Locarno-Lugano.

La cerimonia seguirà di 4 anni l’apertura ufficiale del tunnel di base del San Gottardo. Ovvio l'entusiamo della televisione della Svizzera italiana RSI che ne darà ampiamente conto attraverso tutti i suoi canali. Il momento centrale è previsto a mezzogiorno davanti al portale nord della Galleria, a Camorino (agglomerato urbano di Bellinzona), con il tradizionale taglio del nastro in presenza della Presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga, il Consigliere federale Ignazio Cassis e il Presidente del Governo ticinese Norman Gobbi.

Test e collaudi del tunnel di base lungo 15,4 km sono già in corso. Dopo una prima fase di rodaggio, il 13 dicembre 2020 alle 6.03 il primo treno regolare percorrerà ufficialmente la galleria di base del Ceneri. Da quel momento il Ticino diventerà più piccolo, trasformandosi in una realtà metropolitana. Da Lugano a Bellinzona in treno ci vorranno 19 minuti (contro la mezz'oretta attuale), mentre fino a Locarno ne basteranno 29 (attualmente ci vuole più di un'ora e spesso bisogna cambiare convoglio a Bellinzona).

Quinta galleria della Svizzera per quanto concerne la lunghezza, il tunnel si compone di due canne a binario unico a distanza di circa 40 metri, che ogni 325 metri sono collegate tra loro con 48 cunicoli trasversali. I lavori sono durati 12 anni, a Camorino sono state realizzate diverse opere edili, come viadotti, strade e ponti.

Dal 5 aprile la tratta ferroviaria si allungherà fino a Milano, passando da Como. Tagliati i tempi di percorrenza anche da Lugano a Zurigo, serviranno meno di due ore; mentre da Zurigo fino a Milano basteranno 3 ore e 17, contro le 3 ore e 40 di oggi.

L’Alptransit, ambizioso progetto svizzero concepito per permettere il trasferimento delle merci da strada alle rotaie, approvato nel 1992, orgoglio dei cittadini elvetici, permetterà ai treni di viaggiare sostanzialmente in pianura, con pendenze limitate, attraverso tre tunnel, oltre al Ceneri, quelli già operativi del Lötschberg (34,6 km) e del Gottardo (57 km).

Quel latino vissuto

La gente in mezzo alla quale sono nato e cresciuto non sapeva il latino. Stentava anche a parlare l’italiano, sostituito, in caso di bisogno, dal veneto di terraferma, confinante col friulano, parlato a molti nelle sue ultime propaggini occidentali.

Non sapeva il latino, quella popolazione fatta perlopiù di contadini, operai, artigiani (e, naturalmente, braccianti e manovali, e disoccupati quasi sempre involontari) che raramente varcava la soglia della scuola post-elementare ma aveva riguardo e stima per la gente "studiata". Non sapeva, dunque, il latino, ma c’era nata dentro.

Missale Romanum risalente all'anno 1959

Dalle formule del battesimo a quelle dell’estremo saluto ("Proficiscere, anima christiana..." "Parti anima cristiana...) la Chiesa usava il latino, vecchio e consunto dall’uso, ma assimilato, per quanto possibile, dal popolo che partecipava ai riti. Nessuna nostra chiesa, oggi, si riempie di popolo come avveniva nella settimana santa, dal mercoledì sera al venerdì, quando si leggevano o cantavano "notturni" (tre di tre salmi ciascuno, più le "lodi" fatte di cinque salmi) e si leggevano le profezie antiche. E la gente in piedi, se non trovava posti a sedere, per due ore e più.

Uomini come mio padre (classe 1894, terza elementare) partecipavano come potevano al canto e all’ascolto, alla fine di dure giornate lavorative, senza dar segni di stanchezza.

So che dicendo cose come queste corro il rischio di sembrare nostalgico, passatista, retrogrado: ma mancherei ad un preciso dovere se tacessi i valori (o disvalori) della civiltà nella quale le generazioni nate nel primo Novecento (e, a maggior ragione, nell’ultimo Ottocento) si sono bene o male formate. Considero ancor oggi un valore l’uso, invalso per quasi venti secoli nella Chiesa latina, di quella lingua che aveva lasciato preziose relique nelle opere dei classici, e umili ma non insignificanti reliquie in tanta parte del linguaggio ufficiale, e nelle professioni liberali.

Ricordo l’impressione che mi fece, quando andai in Norvegia, l’abbondanza delle lapidi scitte in latino e il gusto che provavamo noi, popolo non scolarizzato, seguendo come potevamo il linguaggio ufficiale che la Chiesa usava anche in cerimonie semplici, in occasioni ordinarie della vita. Mia nonna cantava "Tantum ergo sacramentum", un verso (di Tommaso d’Aquino, probabilmente), intuendo che sotto stava un serio mistero, ma senza cedere all’uso, invalso specialmente tra gli uomini, di estrapolare dagli inni, parole, che portate in altro contesto, diventavano da precatorie imprecatorie. Il buon popolo veneto usa ancora punteggiare i discorsi con "ostia" e "sacramento", termini già pertinenti al culto eucaristico. La messa, com’è noto, è centro, fondamento e culmine della liturgia cattolica.

A me fa un po' specie il cantar prodottosi, di recente, dopo il breve documento di Papa Benedetto che autorizza il riuso del formuario latino invalso fino al Concilio ecumenico Vaticano Secondo. Non è proibito pensare che l'abolizione di quel formulario non sia stata, dopo tutto, una gran bella invenzione. Chi conosce, per esempio, la "prece eucaristica" n. 1 detta anche Canone Romano, sa di quanta bellezza sia stato privato, per decenni, il popolo dei fedeli.

Giova comunque ricordare che il latino non va idolatrato. Anche nelle scuole ginnasiali e liceali il declino di esso ha accompagnato la desuetudine ecclesiastica: con quali vantaggi reali, nessuno è in grado di dire.

La preghiera "pro perfidis judasis" inserita fra quelle del venerdì santo era stata potata da tempo della sua aggressività non caritatevole, che del resto sarebbe apparsa attenuata se i conciliaristi assoluti avessero avuto cura di spiegare il senso del termine latino "perfidus", che non è ben reso dall’italiano "perfido".

(Pietro Nonis, 1927-2014, vescovo di Vicenza dal 1988 al 2003, Il Giornale di Vicenza, martedì 24 luglio 2007, pagina 7)

Agostino, conversione in musica

Riprendiamo da La Nuova Bussola Quotidiana, il bell'articolo del direttore d'orchestra Massimo Scapin: La conversione di Agostino in Opera. Guida all'ascolto (versione in inglese qui: Hasse's Conversion of St. Augustine).

Filippo Lippi, Visione di Sant'Agostino, 1452-1465,
Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo

Fu come oggi, 1590 anni or sono, che a 76 anni non ancora compiuti morì ad Ippona, l’odierna Bona in Algeria, un ricercatore appassionato della verità, il più illustre dei Padri della Chiesa occidentale: sant'Agostino, Vescovo e dottore della Chiesa (354-430).

Africano di origine (è nato nel 354 a Tagaste nella Numidia proconsolare, oggi Souk-Ahras in Algeria), ma romano per eloquenza, Agostino trascorse un’adolescenza inquieta. Fu battezzato da sant’Ambrogio a 32 anni, ordinato sacerdote a 37 e consacrato Vescovo a 41. Fino alla morte nella sua immensa produzione letteraria, dalle Confessioni alla Città di Dio, fronteggiò le eresie del suo tempo, come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo. «Il grande vescovo univa in sé l’energia creatrice di Tertulliano e la larghezza dello spirito di Origene con il senso ecclesiastico di Cipriano, l’acutezza dialettica di Aristotele coll’idealismo alato e la speculazione di Platone, il senso pratico dei Latini e la duttilità spirituale dei Greci. Fu il massimo filosofo dell’epoca patristica e, senza dubbio, il più importante ed importante ed influente teologo della Chiesa in generale» (B. Altaner, Patrologia, Marietti, Torino 19686, p. 308).

Secondo il nostro solito, avviciniamoci per la via della musica al Dottore della Grazia. Non parleremo qui del suo De musica, un’opera, giunta più o meno completa, che egli scrisse tra il 388 e il 390 proprio sulla musica, anzi sul suo aspetto teorico, dove egli confessa: «Num possumus amare nisi pulchra?», Che altro si può amare se non le cose belle? (VI, 13, 38).

Accenneremo piuttosto alle sue celebri Confessiones, «un’opera che è insieme autobiografia, filosofia, teologia, mistica e poesia, in cui uomini sitibondi di verità e consapevoli dei propri limiti, hanno ritrovato e ritrovano se stessi» (Giovanni Paolo II, Augustinum Hipponensem, 28 Agosto 1986, § 4). Questo classico dell’autobiografia, soprattutto la parte dedicata alla mirabile conversione dell’autore, ha trovato largo favore anche nella drammaturgia: in particolare ha interessato quella composizione drammatico-musicale di argomento religioso (ma extra-liturgico) per voci e orchestra, senza scene e costumi, che si chiama oratorio. 

Direttamente dalle «Confessioni» viene La conversione di Sant’Agostino, l’ultimo oratorio scritto dal tedesco Johann Adolph Hasse (1699-1783), il maggiore dei non pochi compositori stranieri che, prima di Gluck e Mozart, brillarono nell’opera italiana. L’oratorio fu eseguito per la prima volta alle quattro pomeridiane del Sabato Santo 28 Marzo 1750, nella cappella del Palazzo Reale di Dresda. Il libretto, scritto dalla principessa bavarese Maria Antonia Walpurgis (1724-1780), si basa sul dramma in cinque atti Idea perfectæ conversionis sive Augustinus del gesuita Franz Neumayr (1687-1765). A giudicare dalle numerose esecuzioni dopo la prima nelle odierne Germania, Lettonia, Repubblica Ceca e Italia, l’oratorio guadagnò una certa popolarità nel XVIII secolo.

La partitura, divisa in due parti per circa un’ora e tre quarti di musica, è concepita per cinque personaggi (Sant’Agostino, contralto; Simpliciano, un sacerdote, tenore; Monica, madre di Agostino, soprano; Alipio, un amico di Agostino, contralto; Navigio, fratello di Agostino, basso), un coro misto e un’orchestra (2 flauti, 2 oboi, 2 corni, 2 fagotti, archi e basso continuo).

Tutto inizia con un’Introduzione orchestrale, dall’andamento «Allegro non troppo però, ma con molto spirito». «Più non t’affliger tanto, madre dolente e pia. […] Speriamo in Dio», dice Simpliciano per consolare Monica, che gli confida: «Ah quanto è lieve, Padre, la mia speranza» che «il figlio reo» possa cambiare vita. Si aggiungono Alipio e poi Navigio che, insieme a Simpliciano e Monica, per tutta la prima parte parlano con Agostino della sua «pugna così grave», il suo conflitto interiore tra bene e male, e lo invitano a ravvedersi, a sciogliere «queste infami catene», a negarsi «almen per poco al reo veleno». Agostino vorrebbe intraprendere il cammino di conversione, ma il suo cuore, dice, «giammai cambiar non si potrà. Troppo son dolci gli oggetti del suo amore». Egli si dispera: «Il rimorso opprime il seno, / Ama il core il suo delitto; / Son dubbioso e son afflitto / E risolvermi non so. // Del mio stato gemo e peno; / Vorrei volgermi al mio Dio; / Ma da’ lacci del cor mio, / Come sciogliermi potrò». La prima parte si conclude con un coro che, alternandosi a Monica e Alipio, intercede per Agostino: «Inspira, o Dio clemente / A lui più degno affetto; / D’ogni terreno oggetto / Rendilo vincitor. // Ah’ non sia sparso in vano / Per esso il Divin Sangue, / quell’anima che langue / Rinforzi il tuo favor».

La seconda parte si apre con Monica, «sola fra tante angustie; so che il figlio combatte, ma non so, s’egli vinse». Ma Simpliciano e poi Alipio la rassicurano che «la grazia l’assiste» e che egli «forte resiste ai moti del suo cor». Al vedere arrivare Agostino, «si ritirano tutti in disparte» per ascoltare il suo soliloquio. Durante il suo combattimento spirituale una voce (soprano) lo invita: «Prendi e leggi, Agostin». Egli si trova tra le mani «i fogli […], che delle genti il grande Apostolo vergò»; sappiamo dal dramma di Neumayr (e dalle Confessioni VIII,12,29) che si tratta del passo della Lettera ai Romani, dove san Paolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13,13-14).

Dopo la lettura, Agostino sente dileguarsi le tenebre del dubbio e, pieno di gioia, canta: «Or mi pento, oh Dio, che tardi / Ad amarti incominciai: / Or condanno, e tu lo sai, / I deliri del mio cor. // Ah’ pietoso a me consenti / Un de’ teneri tuoi sguardi, / che conforti, che alimenti, / che avvalori il nuovo amor». Simpliciano lo raggiunge e lo avverte: «T’inganni forse, troppo fidando in te»; ma lo trova ormai certo della sua conversione, cosa di cui anche Monica e gli altri si rallegrano. Alla fine dell’oratorio, prima Sempliciano e poi il coro finale esortano rispettivamente tutte le «alme infelici» e «ogni timido cor» a seguire l’esempio di questo grande convertito.