"Purtroppo siamo a questo punto: tutti - i sindacati, le donne, i disabili - hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche" (Michel Villey, Le droit et les droits de l’homme, Presses universitaires de France, Paris, 1983).
Su La retorica contemporanea dei diritti dell’uomo (tema, ahinoi, di strettissima attualità) a partire dalla lezione del filosofo Michel Villey, proponiamo ai nostri lettori questo saggio di Giuseppe Viggiani pubblicato su Diritto.it. Neretti nostri.
Michel Villey (1914-1988) |
ABSTRACT
Il seguente elaborato si prefigge di condurre una breve disamina (di tenore storico-giuridico) su quel complesso fenomeno contemporaneo rappresentato dai “Diritti dell’Uomo”, realtà di punta e baluardo concettuale estremo del moderno soggettivismo giuridico, dando risalto alla impostazione critica assunta, in tale campo, dallo storiografo e filosofo del diritto francese Michel Villey (1914-1998).
Villey fu uno dei più estremi avversari teorici della concezione dirittumanista, a suo parere impregnata di correnti filosofiche, religiose e morali che poco hanno a che fare con il diritto in senso stretto e quindi carente di ogni parvenza di giuridicità. La loro essenza si baserebbe su delle promesse e mere dichiarazioni di principio difficili da mantenere ed anzi irreali, illusorie e contraddittorie.
Seguendo, pertanto, quella che è la costruzione filosofico-giuridica villeyana e partendo preliminarmente dai capisaldi teoretici, dall’oggetto e dai metodi del c.d. “diritto naturale classico”, si cerca di enucleare la genesi storica e filosofica di queste formule giuridiche internazionalmente accettate (nate grazie al contributo intellettuale di Locke ed altri giusnaturalisti continentali, per arginare le conseguenze negative sull’individuo del modello positivo legal-statualistico) ed, in seguito, di evidenziarne tutte le aporie a partire dal relativo linguaggio, in ciò non misconoscendo affatto quella che è la naturale dignità e libertà dell’uomo ma cercando di far emergere come il sistema attuale dei diritti fondamentali sia, ad uno sguardo realista, incapace di mantenere ed esplicare le sue promesse programmatiche e garanzie retoriche.
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Nell’ambito del complesso e frastagliato dibattito contemporaneo sui c.d. “Diritti dell’Uomo” o dei c.d. “diritti fondamentali o universali”, uno dei detrattori o, quantomeno, uno dei critici più arguti ed agguerriti dell’architettura complessiva di codesto insieme di principi e norme internazionalmente accettati ed imperanti, appare senz’altro il giusfilosofo francese Michel Villey (1914-1998).
Filosofo e storico del diritto, in special modo di quello romano classico, Villey nacque a Caen nel 1914. Figlio e nipote di già illustri docenti ed accademici di Francia [1], professore dapprima all’Università di Strasburgo (1949) e poi, per lungo tempo, all’Università Paris II Panthéon-Assas, dal 1959 fonda e dirige gli « Archives de Philosophie du droit ».
Cattolico lungimirante, uomo di dialogo, “mosca bianca” in un contesto accademico-culturale, quale quello francese degli anni ’60 del novecento, dominato dalle egemonizzanti mode contestatarie, sociologiche ed esistenzialiste, Villey fu amico del protestante J. Ellul, dell’ebreo C. Perelman, del tomista G. Kalinowsky, dell’aristotelico A. Giuliani e dell’agostiniano S. Cotta. Muore a Parigi nel 1998 e qualche tempo dopo la sua dipartita, giusto nel decennale della sua scomparsa, Stéphane Rials, in suo onore, muta il nome del Centre de Philosophie du droit del succitato Ateneo parigino in « Institut Michel Villey pour la culture juridique et la philosophie du droit ».
Tra le sue maggiori pubblicazioni sulla storia della filosofia del diritto (oltre ad una gran messe di articoli monografici, trascrizioni di dibattiti, saggi brevi, appunti e spigolature prodotta in circa mezzo secolo di attività di ricerca) si possono annoverare: « Philosofie du droit. Définitions et fins du droit »; « Les moyens du droit » (Dalloz 1986); « Critique de la Pensée juridique moderne » (Dalloz 1973); nonché, il suo opus magnum « La Formation de la Pensée juridique moderne » (Jaca Book 1986).
Per comprendere, innanzitutto, le ragioni che hanno mosso le istanze di problematizzazione villeyana nei riguardi di queste attuali tipologie di formulazioni giuridiche ed i suoi ponderati attacchi contro la conseguente costruzione dirittumanista, sarà necessario, in via preliminare, accennare a quella che è stata la cifra filosofico-concettuale di tutto il suo lavoro di storico ed ermeneuta del diritto. Bisognerà, cioè, esplicare in una breve sintesi i capisaldi teoretici di base della visione giuridica villeyana.
Da tale prospettiva, dunque, potrà certamente affermarsi che la sua opera globale di riscoperta dei fondamenti, categorie, metodi e dei fini del diritto – e del diritto classico in particolare – si alimenti incessantemente di quello che egli stesso definì, con una formula riassuntiva alquanto felice ed efficace, “diritto naturale classico”. Ed i tre paradigmi fondamentali che fungono da pietra di paragone nello studio del giuridico, sono rappresentati rispettivamente dall’opera di osservazione e di conoscenza di Aristotele, dalla giurisprudenza romana d’età repubblicana e dal realismo di San Tommaso d’Aquino.
Segnatamente, sarà proprio nell’Etica dello Stagirita (libro V), così come nell’insegnamento giurisprudenziale romano tardo-repubblicano ( rappresentato dallo ius civile casistico e la quasi-dialettica) e in alcuni passi della Summa dell’Aquinate (il Trattato sulle Leggi ed il Trattato sulla Giustizia nella Secunda Secundae), che Villey rintraccerà quella Weltanschauung classica che gli fornirà le risposte sostanziali all’attanagliante e da sempre problematico quesito circa la definizione di che cosa sia veramente il giusto.
Villey perviene e fonda la sua indagine su di una nozione eminentemente oggettiva del diritto. O, per meglio dire, di iustum, o di dikaion, o di res iusta, rintracciabile a partire dalla natura (cosmica) delle cose e della realtà sociali: il diritto in senso proprio consisterà, allora, in una relazione, in una giusta ed armonica proporzione fra le parti ed in una successiva, coerente opera di attribuzione delle relative “frazioni” di tali cose agli uomini che vivificano e assumono il ruolo di nodi di tali relazioni: il diritto è suum cuique tribuere.
« Dare a ciascuno il suo » significa classicamente implicare che il diritto abbia una realtà oggettiva permanente, sensibile, esterna agli uomini. L’id quod iustum non ha, contrariamente a quanto affermato a partire da tutti i successivi filoni giusfilosofici moderni, una scaturigine soggettivistica ed astratta ma si situa nelle cose e si manifesta prima nella loro individuazione ed, in seguito, nella loro suddivisione entro il corpo sociale (anche se in tale opera successiva di divisione dei beni o jura, sia corporali che incorporali, tace prudentemente sui relativi criteri di ripartizione, poiché si tratta di una ricerca dialettica sempre in fieri, sempre inesausta e dipendente dalle specificità dei casi concreti e dalle circostanze esterne)[2].
Nondimeno, emerge l’importanza della interpretazione e della deduzione filosofica nel metodo che Villey utilizza per stabilire un rapporto di contiguità tra una data situazione di fatto e la relativa lettura tramite l’inferire dalla situazione di partenza, delle regole generali per definire il diritto che la caratterizza. Questo rapporto è quindi una fusione armonizzata tra la natura emergente delle cose (to dikaion phusikon) e il diritto positivo (to dikaion nomikon) che con linguaggio aristotelico si può definire diritto politico (to dikaion politikon).
Il diritto naturale classico è e si traduce, in ultima istanza, attraverso i passaggi ermeneutici del ceto professionale dei giureconsulti, in diritto politico, diritto che informa e regola la vita associata della polis. E l’essenza ipotetica del diritto si dice osservando la natura delle cose, rinvenendo nei complicati e ramificati rapporti sociali la proporzione di beni, oneri e di incarichi da attribuire. Il processo, inoltre, è quel momento simbolico, corale e basilare in cui si dice il diritto: ius dicere.
Il francese si pone quindi come continuatore diretto di concezioni che Francesco D’Agostino, nella prefazione introduttiva all’opera principale dello storiografo, suole descrivere come « atemporali » ed « anonime », sottolineandone il carattere eminentemente universale e perenne [3] ed in tutto il suo lavoro cerca di difenderle dall’attacco sferrato dall’eccessiva formalizzazione positivista, legalistica e volontaristica, dall’influenza dei costrutti etico-religiosi e dalle ultime mode sociologiche che, in qualità di fattori estrinseci destabilizzanti, prenderanno piede epoche successive fra gli autori ed i metodi del diritto.
Si è appena detto del carattere di « perennialità » di certe vedute o concezioni giuridiche. Per Villey, è proprio codesto carattere che informa di sé lo sfondo mobile di tutta la storia della filosofia del diritto: quest’ultima si viene a configurare come un insieme alternato, vario e cangiante di movimenti, di imprevedibili andirivieni, di ricorsività fluttuanti di concezioni del diritto che si ritrovano in gradi diversi nei nelle elaborazioni dei diversi giuristi nelle diverse epoche.
Come si è accennato, nella riflessione del giurista di Caen appaiono rilevanti, l’adozione di un metodo di osservazione della « natura » – termine notoriamente polisemico [4] – il più ragionevole ed obbiettivo possibile ed, in successione, una calibrata e verosimile elaborazione concreta del diritto, tratta dai dati estrapolati dell’esperienza delle cose (delle realtà fenomeniche sociali e cittadine) mediante un procedimento dialogico, o, per meglio dire, dialettico costantemente in fieri, necessariamente parziale e fisiologicamente incompleto, giammai, tuttavia, destinato a divenire sistema fisso, sclerotizzato ed astratto.
Durante il primo momento osservativo, il diritto non è detto a priori, cioè non viene dedotto da una mera apodittica cristallizzazione legalistico-normativa (à la Kelsen, per intenderci) ma viene pronunciato a posteriori [5].
Esso deriva da una visione finalistica o onto-teleologica della natura, che postula la presenza di una disposizione (hexis) spontanea e ordinata di equilibri sia tra le persone che fra le cose e le persone. Ma tale disposizione, tuttavia, non è un ordine perfetto nelle sue manifestazioni, in quanto richiede di essere riequilibrato dall’intervento del giudice nel momento in cui dice a ciascuno quale è il suo diritto peculiare. Il giudice, in tal caso, non fa altro che derivare, a partire dalla contingenza dei fenomeni naturali e sociali, un ordine strutturale (cosmos) di elementi naturali che da « forma » alla contingenza stessa del fatto particolare. In altre parole, il giurisperito rintraccia in un dato sottoinsieme delle cose naturali, costituito dai fatti sociali, le relative « cause finali ».
E questa operazione, com’è prevedibile, dato il carattere limitato della sfera conoscitiva umana, sarà sempre incompleta e parziale: il giurista estrapolerà dalla natura delle cose alcuni elementi ipoteticamente ricorsivi, denotativi, senza tuttavia mai conoscere a fondo tutto ciò che costituisce in toto l’ordine finalistico di cui supra il quale rimarrà, giocoforza, perlopiù nascosto. E lo farà attraverso l’ausilio della ragione, attitudine naturaliter comune a tutti gli uomini. La stessa ragione perverrà alla constatazione che il diritto naturale ricavato dalla natura delle cose è una realtà flessibile, transeunte, che si evolve e diversifica secondo i luoghi, le datazioni temporali e le istituzioni socio-politiche umane.
Iustum non è (soltanto) un termine frutto delle sensazioni, dei sentimenti astratti o delle aspirazioni ideali umani. Costituisce un oggetto esistente ed inserito nelle pieghe della tela complessa della società civile e che dev’essere ricercato. E rientra proprio nelle prerogative del giurista, l’immersione totale nelle dinamiche della società o comunità, dovendo percepire e studiare pragmaticamente l’intreccio delle relazioni in cui è calato, nonché, a partire da questo coinvolgimento attivo, l’utilizzo dirimente della vista (a carattere cognitivo-intellettuale), dell’osservazione analitica per la comprensione teorica dell’insieme dei rapporti sociali, fungendo questi ultimi da luogo privilegiato dove scoprire – secondo le circostanze, i luoghi e le epoche – gli elementi concreti, i fattori strutturali del giusto.
Ma, soprattutto, la concezione villeyana parte dal cruciale presupposto di fondo che la natura di una cosa è direttamente connessa al suo specifico valore. Il giurista deve essere capace di cogliere, come primo compito del suo ufficio, l’essenza valoriale delle realtà giuridiche che si presentano al suo sguardo, o quelle che vengono portate alla sua attenzione durante una qualsiasi controversia processuale.
Il diritto di marca villeyana, dunque, non può che avere, in primis, una preponderante componente assiologica, dal momento che l’essere o l’ontologia che si ricava dalle realtà sociali contemplate, contiene ipso facto anche il valore, ciò per cui esse sussistono. Più espressamente, la concezione giuridica classica implica la non separazione e l’assenza di qualsivoglia scarto dimensionale fra l’essere ed il dover-essere di un ente o di una cosa. L’argomento stesso della celebre « fallacia naturalistica » (ulteriore prodotto della ragione dei moderni che, com’è noto, separa questi due poli) è, perciò, recisamente rifiutata. L’ontico od il descrittivo del diritto, per il professore francese, è intimamente collegato al deontico o prescrittivo dello stesso.
Circa il successivo momento del « dia-lektos », dell’attribuzione del giuridico su basi dialettiche, si deve chiarire che nessun giurista possiede, da solo, premesse e informazioni sufficienti per pronunciarsi unilateralmente e dire quella che è l’essenza del diritto o l’oggetto del giusto. Conseguentemente, conoscere i connotati e la misura di questa relazione necessiterà di una controversia fra i giuristi con l’intento di addivenire ad una conoscenza obiettiva della fattispecie disputata, la meno incompleta possibile e priva di retorica persuasione.
Tale dinamica dialettica si caratterizzerà, inoltre, per essere una ricerca collettiva sotto la forma di una discussione fra operatori del diritto che si pone il proposito di superare le varie divergenze teoriche su di uno stesso tema e di raggiungere una definizione, ovvero una conclusione comune verosimile accettabile da tutte quelle le parti che hanno effettuato lo scambio dei loro punti di vista. Il contenuto particolare di questa conclusione interesserà la definizione delle realtà giuridiche emerse e la loro divisione nell’ambito della relazione. Come afferma Bauzon, allievo di Villey: « il frutto della dialettica dei giuristi è opera comune su contingenze » [6].
L’oggetto precipuo e non retorico su cui i giuristi tentano di mettersi d’accordo nelle loro discussioni è l’equità (o epeikeia). Nell’accezione aristotelica di criterio di divisione o di attribuzione proporzionato, armonico e commisurato dei beni, degli oneri e degli incarichi tra i consociati. Corrisponde all’uguaglianza geometrica (ison) da ricercare nei rapporti sociali e costituisce perciò lo scopo della giustizia particolare. L’equità appare come « l’elemento dinamico della iurisdictio, una fonte sottile, mobile e diversa che verte sull’ordine delle cose » [7].
Villey, utilizzando le parole di Aristotele, la definisce proprio « metro lesbio » o « regola lesbiaca » (proprio come lo strumento utilizzato nelle costruzioni antiche in uso a Lesbo): cioè una regola di piombo che si adegua ai contorni di ciò che si misura.
L’autorità abilitata a prendere le fila del discorso conclusivo della disputa dei giuristi (cioè, in primis, della dottrina) è il giudice stesso. Egli, nella predisposizione della pronuncia finale, potrà liberamente riferirsi a fonti positive quali le leggi formali, i precedenti giudiziari, le osservazioni della dottrina e la consuetudine ma, si badi, tale insieme di fonti non sarà in alcun caso un criterio precostituito, cogente e obbligatorio per dare una soluzione cui attenersi in maniera rigida.
Nella ricerca e nella pronuncia giudiziale dell’equità o dello iustum, vale la pena precisare il ruolo che deve pur avere la statuizione legislativa. Secondo Villey, il giurista può seguire le indicazioni di legge, ma solo il ricorso alla disputa dialettica (in quanto permetterebbe di comprendere l’essenza del diritto nelle situazioni particolari) dev’essere ritenuto la « stella polare » cui attenersi in maniera prioritaria. Ed il dettato di legge, dovrà, nel caso, essere adattato e armonizzato a questo processo prioritario.
Difatti il giurista, riflettendo sullo scopo della legge, dovrà pervenire a rintracciarne la convergenza di questa con le finalità del diritto politico. La disputa con gli altri giuristi lambisce i fini impliciti nella legge in rapporto ad una situazione particolare. Quella di cui si controverte. L’orizzonte e l’operatività della norma scritta, dunque, dovranno sempre essere messi in relazione e ricollegati al caso concreto [8]. Realizzare il contrario (partire cioè da una formula giuridica astratta e imbrigliare la concretezza del fatto all’interno di essa) non permetterebbe di pervenire al giusto, al diritto naturale oggettivamente inteso.
Nel discorso villeyano, di cui si sono esposti testé i nodi fondamentali, si parte, com’è evidente, da una ontologia del diritto, dalla scoperta delle fonti tramite il metodo dell’osservazione esteriore (che Aristotele indicava come theorein), per poi approdare alla teleologia, cioè al discernimento, date le fonti, degli scopi del diritto particolare entro l’insieme dei rapporti del tutto sociale. Ed il giudice (dikastes) nella sua attività lavorativa nella/per la città, dovrà necessariamente basarsi sui risultati di codesta osservazione effettuata e disputata dalla dottrina, dai prudentes, per poter procedere meglio e più realisticamente alla giusta (equa) ripartizione – le « juste partage » come dirà sovente lo stesso Villey – di quelli che sono gli oggetti propri del diritto: beni, cariche, responsabilità ed oneri.
Ecco che il diritto civile, proprio della polis, assurge a particolare metodo giuridico che ha come precipuo campo di studio e d’applicazione le città ove si svolge la vita esterna in comune, le realtà che si sogliono definire sociali, la comunità civica o koinonia politiké e non lambisce mai l’ambito morale dell’interiorità umana soggettiva, del « foro interno ».
E sarà proprio su questo aspetto che si giocherà l’equivoco o, se si vuole, il ribaltamento moderno, imbevuto di agostinismo, stoicismo ed individualismo di marca volontaristica, dello slittamento semantico, dal piano del diritto dall’esterno dei fatti visibili prodotti dall’uomo, a quello interno, presuntivamente assiologico, della ragione, della volontà o della morale astratte.
Ogni velleità esplicativa in chiave soggettivistica ed individualistica della genesi giuridica è difatti messa all’angolo e definita nei termini di un « robinsonnata », cioè di un goffo tentativo di far sorgere il diritto a partire dall’individuo-monade isolato dagli altri (appunto come il Robinson del celebre racconto di Defoe) ed escludere quindi l’orizzonte « creativo » del tessuto dei rapporti sociali esteriori, vera dimora del dikaion in questione.
Da questa prospettiva, lo si deve specificare e ripetere, il giuridico non si identifica in alcun modo con realtà interiori, soggettive, corredanti e caratterizzanti l’essere-individuo, così come non vi è alcun sottofondo o sostrato etico o morale nella genesi giuridica classica. La virtù etica della « giustizia » la stessa nozione di giustizia generale, com’è ovvio, – così come le ulteriori finalità che connotano il vivere sociale collettivo quali il benessere, felicità, libertà, dei cittadini – hanno un loro non indifferente peso quali scopi degni da realizzare ed onorare nell’assetto sociale ma tali realtà sono appunto relegate alla sfera generale del buon funzionamento dell’organismo politico-sociale ed il diritto particolare preso qui in considerazione ha un dominio ed un compito separati e diversi, che si possono definire settoriali, in quanto implicano l’interesse e l’attenzione per realtà particolari che solo in maniera indiretta possono riferirsi ad esse.
Coerentemente, quindi, con la sua critica alla generalità e vaghezza della legge morale, Villey denuncia la natura astratta dei diritti dell’uomo, frutto della corrente giusnaturalista dei moderni.
Per Villey, i diritti dell’uomo appartengono al dominio della giustizia generale (lo iustum essendo, come si è detto, l’oggetto di quella particolare). Subordinare e, anzi, confondere le soluzioni giuridiche con apodittici precetti e assiomi morali o all’idea-cardine di Ragione, dal punto di vista del diritto naturale villeyano, non corrisponde all’essenza del diritto e non aiuta il giurista a ritrovare il diritto nelle circostanze di fatto del contenzioso.
Villey, da filosofo del diritto attento ai collegamenti storici, alle derivazioni, ai portati ed alle influenze di un particolare pensiero, non può pertanto esimersi dall’affrontare anche la tematica delicata della genealogia e delle finalità del discorso dirittumanista, registrando le conseguenti riflessioni in uno dei suoi ultimi scritti, intitolato « Il diritto ed i diritti dell’uomo » [9].
In esso egli conduce criticamente e sempre a partire da una prospettiva che si è definita classica, una disamina sul contenuto ed i fini specifici di tale realtà, cogliendo quelle che possono apparire come le aporie di fondo ed i nodi irrisolvibili della relativa struttura.
Nella prospettiva villeyana, i diritti dell’uomo, la loro sistematica, le loro finalità e il loro linguaggio, si costituiscono non solo, strumentalmente, come « antidoto al positivismo giuridico »[10] ma anche come avanzata punta di diamante dell’elaborazione ultrasecolare del diritto soggettivo. Si impongono, cioè, come una sorta di ultima frontiera del soggettivismo giuridico moderno.
Difatti, si potrebbe dire che essi incarnano, potenziano e moltiplicano all’estremo tutte quelle pretese istanze di potere, facoltà e libertà “naturalmente” scaturenti dall’individuo stesso, fino ad arrivare a farsi sistema ed ideologia sociale contemporanea.
Sul punto, con l’intento di far emergere il sostrato ideologistico, Villey si esprime in questi termini: « Purtroppo siamo a questo punto: tutti – i sindacati, le donne, i disabili – hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche » [11].
Ancora una volta l’individualismo e l’idealismo delle dottrine giuridiche moderne finiscono sul banco degli imputati. Egli perciò non può fare a meno di sottolineare, da subito, la componente e la radice schiettamente giusrazionalista di tali costruzioni: è, infatti, la suddetta corrente che, per lo meno dalla fine del XVII° secolo in poi e fino al XX°, reagisce a quei menzionati eccessi castranti del giuspositivismo legalista, opponendovi tutte le conseguenze ricavabili da un’idea astratta ed aprioristica di Uomo.
In particolare, saranno la Scuola del Diritto Naturale di Wolff [12] e soprattutto Locke a fornire le basi teoriche necessarie per il diffondersi e l’affermarsi del concetto, fino ad arrivare, parallelamente alla creazione di codici pubblicistici e privatistici, alla messa a punto delle cosiddette Dichiarazioni Universali (quella del 1789 a latere della Rivoluzione francese e quella del 1948 delle Nazioni Unite), delle Convenzioni o dei Preamboli alle varie costituzioni e trattati internazionali, appunto omaggianti e riportanti i principi fondamentali su cui questi diritti poggiano e si alimentano.
Nell’epoca attuale, il francese può agilmente notare come le pubblicazioni giuridiche in merito siano diventate vaste e sterminate. Tuttavia, ed in decisa controtendenza a ciò, egli rileva anche come l’ « human-right-talk » [13] sia stato messo sotto accusa dai filosofi inglesi del linguaggio e scrupolosamente smontato onde metterne in luce la sua « meaningless », la sua mancanza di un senso di fondo, specie nell’attività di derivazione di precise norme o statuti giuridici certi ed effettuali.
Tornando però al momento della loro genesi e comparsa nella storia, i diritti in questione, pur essendo prodotto della filosofia moderna razionalista, hanno ricevuto un forte impulso al loro sviluppo anche da parte della teologia cristiana ma, come si affretta subito a chiarire Villey, una teologia degradata e deviata, sotto più punti di vista. I contenuti, infatti, furono laicizzati (si sostituì al Dio trascendente il deismo o il « dio dei filosofi » colto dalla sola Ragione); le forme espressive abbandonarono la logica dialettica per approdare alla sistematica deduttiva e non più induttiva che da un’idea metafisica di ragione naturale, pretendeva di costruire tutto la morale e, di conseguenza, le norme di condotta giuridiche; inoltre, le stesse finalità di pura ricerca speculativa della verità della vecchia teologia, deragliarono in direzione di un’attività pragmatica, di utilità pratica per l’individuo umano, il solo osservabile ed agente nel mondo.
Oltre al retaggio teologico-cristiano di cui si è detto, ve ne fu sicuramente un altro, molto più incisivo e prolifico, sorto nel tardo XVII° secolo e che contribuì più direttamente alla nascita di questa tipologia di diritti ed è rappresentato dalla dottrina giusrazionalistica di John Locke.
Sebbene l’inglese non elaborò direttamente un catalogo di diritti umani, il suo sforzo si diresse, contro ogni esito assolutistico della costruzione hobbesdiana-positivistica ed a vantaggio del ceto borghese liberale, verso il perfezionamento di un diritto di libertà negativa e di un diritto di proprietà confacentisi al regime di ragione naturale.
Nei suoi due Trattati sul governo civile (1690) egli intese poggiare questi diritti – che altro non sono che situazioni soggettive d’origine sia consuetudinaria che giurisprudenziale sulla falsariga dei Bills of rights inglesi [14] – ancora una volta sugli assiomi della ragione umana immutabile e proprio nel capitolo V del secondo Trattato, intitolato appunto « Of Property », tenta di dimostrare (mescolando abilmente, la proprietà di elaborazione scolastica con la teoria hobbesiana del right of nature pre-pattizio e gli artifici della scuola groziana e giusrazionalista sul dominium) come nello stato di natura, situazione che, contrariamente a quella di Hobbes, era pacifica e caratterizzata da « a state of perfect freedom », uno stato, cioè, di perfetta libertà, sussistessero già diritti naturali distinti e dai contorni delimitati e non un unico diritto soggettivo. In primis il diritto all’autoconservazione (tema stoico-groziano) e poi quello di ricevere le cose concesse dalla Natura o da Dio (una sorta di diritto “a” qualcosa): la proprietà, allora, sarà su questa scia il diritto che ciascun individuo ha ottenuto sulle sue cose personali (actuum suorum della scolastica), ergo sull’attività di lavoro e (ecco la novità lockiana) sui frutti di tale attività. La proprietà ingloberà i risultati del lavoro come parte integrante della persona: una « teoria del valore-lavoro » ante-litteram, fa notare Villey.
Codesti diritti di proprietà « frazionati » vengono fondati dall’inglese su di uno stato naturale, o meglio, su di una « legge comune » [15] di natura che impone alla ragione umana di rispettare la proprietà altrui.
Il contratto sociale lockiano è quindi un patto dove questi diritti vengono garantiti mediante la creazione dello stato ma non si abdicherà più, contrariamente ad Hobbes, alla naturale libertà di cui godono gli uomini. Dalla medesima fonte naturale di libertà, Locke farà procedere una seconda generazione di diritti liberali, non-proprietari: quello di coscienza e libertà di culto, di opinione (si noti il tratto soggettivo, empirista ed antidogmatico lockiano) e soprattutto, di resistenza contro l’oppressione sovrana.
Ad ogni modo, quello che è importante sottolineare, è che questo piccolo nucleo di proto-diritti naturali funse da base teorica e materiale per le futura stesura, dopo circa un secolo e per mano della Costituente, della « Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino ».
Le stesse libertà, proprietà e resistenza furono innalzate a principi formali e fini fondamentali della nuova configurazione di Stato liberale borghese [16].
E fu proprio un altro celebre intellettuale britannico del tardo XVIII° secolo, Edmund Burke, politico e pubblicista irlandese, che divenne il principale critico contemporaneo di quei diritti universali che si andavano affermando. Specie nelle sue « Reflections on the revolution in France » (1790) egli attaccherà sistematicamente ed aspramente le istanze sovvertitrici della Rivoluzione, considerate moralmente degradate, per la sostituzione di grandi virtù concrete secolari con nuove e vuote parole d’ordine come « Libertà », « Umanità » e « Coscienza » e colme d’ipocrisia, per la sostituzione violenta della monarchia con un oligarchia borghese affarista. Ma soprattutto, egli si esprime contro la « metafisica » irrealistica (chiaramente non di matrice classica ma propria del modo di procedere della filosofia moderna) alla base dei diritti fondamentali espressi nella Dichiarazione.
Sarà proprio questo carattere mistificatorio, astratto ed idealistico [17], dei diritti inalienabili, formulato degli intellettuali rivoluzionari a fare da basamento teorico per le proclamazioni universali ed a dedurre un’idea falsata della giustizia e della sovranità popolare (già in questa sua critica al sistema democratico e nella contestuale analisi dei pregi del regime misto, Villey fa notare come Burke sia genuinamente « aristotelico »).
Burke, inoltre, oppone alla concezione astratta dirittumanista, il modello tradizionale di quelli che possono essere chiamati diritti comuni inglesi, le « libertà del popolo inglese » ed in tale contesto egli può sottolinearne i caratteri in un certo « senso naturali e classici »: al contrario di essere dedotti da assiomi ideali sono « hérités e prescrits » [18], vale a dire ereditati (dalla tradizione antica) e prescritti dalla consuetudine. Essi non sono pretestuosamente assoluti ma sono limitati, cioè proporzionati, misurati all’interno di un contesto sociale complessivo e diversificati secondo il ruolo e la condizione personale. Non integrano solo poteri ma anche responsabilità ed oneri. Non sono estesi universalmente alla categoria umana generale ma sono situati e relativi [19]: appartengono solamente ad un dato contesto, appunto quello della comunità inglese.
In definitiva, il professore francese sottolinea come Burke sia, più che un reazionario, un continuatore ed un estimatore, nel pieno secolo dei Lumi, del paradigma perenne del diritto naturale. Egli non è razionalista e non concepisce il diritto o i diritti a partire da un’Idea di Uomo o dalla Ragione ma, con il metodo proprio dello Stagirita, si limita ad osservare il diritto contenuto naturalmente entro un dato e situato contesto socio-culturale ed a riscoprirlo mediante il discorso dialettico e la prudenza dei giuristi.
Villey, dunque, continua, pur con le sue modalità, il discorso critico iniziato da Burke. In particolare, fonda la sua analisi ancora una volta sul tenore del linguaggio e sul suo ruolo nodale nell’essere traduzione discorsiva e manifesta di una filosofia (« il linguaggio condiziona il pensiero » [20] – affermerà il francese).
In principio, si concentra pertanto sul termine. Nota, infatti, come questo sia stato surrettiziamente composto dall’unione di « Uomo », o idea generale ed astratta di uomo, più la parola, che si è vista essere ben reale, concreta di diritto: combinazione confusa e quindi inammissibile e fuorviante.
Altra moda che dev’essere necessariamente ridimensionata sarà inoltre la concezione dei diritti dell’uomo come frutto del paradigma storico-progressivo ed evolutivo-migliorativo dell’umanità, mentre le concezioni filosofiche e giuridiche dell’antichità e del medioevo sarebbero sterili residui sorpassati ed inattuali.
Villey cerca di scardinate quest’ulteriore ed illusorio dogma avvertendo che di progresso si può parlare solo limitatamente al campo delle conoscenze tecniche e scientifiche mentre nella storia del pensiero filosofico-giuridico, come si è già accennato, egli ha osservato sostanziali fenomeni di continuità circa i tratti antropologici essenziali e di ricorsività, lungo la storia, di concezioni filosofiche e filosofico-giuridiche identiche nella sostanza ma anche di « alternativamente, periodi di sviluppo e lunghi periodi di decadenza » [21].
E i diritti dell’uomo, molto probabilmente, sono da vedersi qui quale manifestazione dell’ « incultura giuridica » attuale, un regresso rispetto al vero concetto di diritto naturale.
Il professore francese può così iniziare ad abbozzare un catalogo dei loro punti deboli e degli aspetti più paradossali.
Egli evidenzia come, in primis, suddetta specie di diritti sia irreale e quindi impotente (con un’efficace battuta, fa notare il fatto che la mera proclamazione, entro la costituzione nazionale, del diritto al lavoro sicuramente non cambierà realmente le condizioni effettuali della moltitudine di disoccupati esistenti). Essi sono visti quali vaghe ed idealistiche petizioni di principio, ottativi, purposes, promesse, alla lunga, indeterminate ed inconsistenti.
Villey ironizzerà in proposito: « È bellissimo vedersi promettere l’infinito, ma poi, come stupirsi se la promessa non è mantenuta! »[22].
Nel loro intento egalitaristico ed universalizzante (quasi simile all’azione livellatrice dei socialismi reali per Villey) non tengono affatto conto delle specifiche e diversificate situazioni concrete che si possono incontrare. Il loro contenuto, soprattutto, risulta essere eterogeneo e contraddittorio poiché si sono stratificati in essi diritti formali, quali il diritto alla libertà e alla proprietà, con successivi diritti sostanziali frazionati, ossia il diritto alla salute, al lavoro, alla cultura, al tempo libero, alla felicità, alla diversità.
A tal proposito, Villey segnala come tale contraddittorietà si possa trasformare in aperta conflittualità nell’ambito della loro realizzazione. Egli si sofferma proprio su questa loro paradossale tendenza: per realizzare un certo diritto, bisogna sacrificare e negare l’altro, sicché ciò può portare ad ingiustizie [23] (il diritto all’aborto negherà il diritto alla vita, così come il diritto al lavoro dei genitori sarà incompatibile con il diritto all’educazione della prole o il diritto alla privacy con quella della libera informazione).
Ecco l’implacabile “aut-aut” villeyano che rivela il carattere alternativo ed escludente di tali posizioni: « Attrezzo tuttofare. […] Ma attenzione! Bisogna scegliere: o il bene degli uni o il bene degli altri. Non si è mai visto nella storia che i diritti dell’uomo fossero esercitati a vantaggio di tutti. Il problema con i diritti dell’uomo è che nessuno potrebbe servirsene se non a detrimento di certi uomini » [24].
Anche Bauzon ha sottolineato come i diritti dell’uomo non abbiamo il carattere intrinseco di giuridicità ma questo viene loro applicato a posteriori dall’attività sistematizzante dei giusnaturalisti contemporanei e dalle pronunzie giurisprudenziali [25]. E come essi siano soltanto ambigue « petizioni di principio » [26] derivanti dalla morale che non apportano nulla di concreto e preciso, in quanto formule ampie derivanti da una generica ed astratta natura dell’uomo, al contenuto del giuridico ed alle soluzioni di questo nella pratica.
Anch’egli evidenzia il carattere potenzialmente conflittuale di questo genere di norme: « […] La Dichiarazione dei diritti dell’uomo si muove su di un doppio registro; procede per un verso dall’assolutismo delle leggi morali e dall’altra parte, tenta di adeguarle in vista delle circostanze di fatto. Per conciliare l’inconciliabile, ad esempio, il grado assoluto della libertà d’espressione e la necessità di salvaguardare l’ordine pubblico, il giurista deve forse difendere un partito preso ideologico? In realtà il suo ruolo non si presenta in questi termini binari » [27].
Solo partendo dal solito metodo giuridico iniziale di osservazione dei valori e dei fini iscritti nelle cose stesse, si potrà distinguere cosa è diritto da ciò che gli è estrinseco, come nel caso delle leggi morali.
In sostanza, nota la nozione di diritto villeyana quale relazione multilaterale fra uomini che si scorge nella realtà sociale, il concetto di « diritti dell’uomo » ha preteso inferire tale relazione e quindi il significato del termine, solamente dall’unico termine generale ed impreciso di « uomo ».
Villey nota a tal proposito come la creazione dirittumanista da parte di « non-giuristi » [28] abbia, in tal senso, contribuito soprattutto a sovvertire l’idea e la funzione della giustizia classica quale metodo per determinare i giusti rapporti entro una comunità: « […] il sistema individualista ha fabbricato una contraffazione di giustizia […]. Si tratta della Giustizia-Uguaglianza. L’individualismo non può finire che all’uguaglianza: perché, se non esistono che esseri individuali, ne consegue che tutti sono chiamati ad una « perfezione » identica. Nell’ideale, tutti dovranno avere i medesimi diritti, precisamente i diritti « dell’uomo »: stessi diritti di tutti alla salute, all’informazione e alla cultura. È molto razionale. Ma poco praticabile […] Ma ciò che questo sogno d’uguaglianza non può assolutamente essere – se si tratta di un’uguaglianza assoluta ed « aritmetica » – è l’obbiettivo dell’arte del diritto: il giudice lavora nel mondo così come esso è » [29].
L’attacco contro quelle che Villey ritiene essere le istanze uniformanti e livellanti dei pretesi diritti universali è quanto mai palese. Esse è come se conducessero e riducessero la realtà ad un’idea (o ideologia) della realtà, in senso trasformativo, piuttosto che cercare di rinvenire e riconoscere il dato giuridico intrinseco alle forme ed istituzioni sociali, politiche e culturali dei vari popoli.
E ciò, tuttavia, avviene senza il minimo disconoscimento della dignità propria di ogni persona. Villey qui fuga ogni dubbio allorquando afferma che: « sono pronto a “rispettare la persona umana” […] ma relativamente in rapporto a certi beni, spirituali, che non si suddividono e di cui il diritto non si occupa » [30].
La dignità della persona umana, dunque, per il cattolico Villey, esiste, va naturalmente garantita ma appartiene addirittura ad un dominio di valori o istanze travalicanti i normali confini fattuali del diritto, del giusto rapporto nel tutto sociale, rimanendone così accuratamente distaccata ed altra.
In ultima analisi, nell’ottica del professore francese, ciò che i fautori dei diritti fondamentali hanno cercato di fare è stato di mescolare al diritto un fattore, quello estrinseco della legge morale, che dovrebbe rimanergli estraneo.
Ancora una volta si tratta di un linguaggio alieno al diritto che può solo divenire l’argomento retorico di ultima istanza nelle difese processuali degli avvocati e come tale, costituente una prospettiva di carattere persuasivo-retorico, limitato ed unilaterale (in quanto esprimente gli interessi di una sola parte) e non il risultato di una mediazione giudiziale dialettica e realistica che tenga conto delle ragioni e degli aspetti complessi di ciascuna delle parti in causa.
NOTE:
[1] Padre del filosofo fu lo storico della letteratura francese Pierre Villey (1879-1933). Nonno materno fu il filosofo Émile Boutroux, ed inoltre ebbe come zio il matematico Henry Poincaré (cfr. Bauzon S., Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano, Giuffre, 2001, pp. 228-230).
[2] I romanisti moderni, constata Villey, hanno sostituito tribuere con reddere ma in questo caso sbagliando: non si può infatti, in una prospettiva di giusto particolare, sapere a priori quanta parte precisa di beni, responsabilità e debiti deve essere “resa” automaticamente a ciascuno. Il giudice dovrà “attribuire” o determinare preliminarmente quelli che sono gli iura dei litiganti: vale a dire effettuare un lavoro di qualificazione/chiarificazione della fattispecie giuridica per entrambe le parti.
Cfr. sul punto, Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 79.
[3] Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano, Jacabook,1986; Prefazione di F. D’Agostino, p. XI.
[4] Cfr. Bauzon S., Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano, Giuffre, 2001, p. 27.
[5] Bauzon, S. L’essenza del diritto secondo Michel Villey. FORUM & Supplement to Acta Philosophica, 5, 467-484.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Sempre da una prospettiva classica, Paolo, uno dei più insigni giuristi d’epoca imperiale, affermava che il diritto non si ottiene dalle regole generali e astratte (ius non a regula sumatur), ma è la regola che è fabbricata dal diritto esistente (sed a iure quod est regula fiat); cfr. Digesto, 50.17.1.
[9] Michel Villey, Le droit et les droits de l’homme, Presses universitaires de France, Paris, 1983.
[10] Ibidem, p. 21.
[11] Ibidem, cit., p. 117.
[12] Il tedesco Christian Wolff (1679-1754) fu uno studioso membro della Scuola del Diritto Naturale e la sua opera si concentrò sulla specificazione, a partire dalla « natura di uomo » razionale, dei vari diritti sostanziali dell’individuo utili alla « perfezione » del suo essere: diritto alla felicità, alla salute ed alla ricchezza. Cfr. sul punto, Il Diritto e i diritti dell’uomo, p. 181.
[13] Ibidem, p. 19.
[14] Ibidem, p. 171.
[15] Ibidem, cit., p. 177
[16] Cfr. l’art. 2 della suddetta Dichiarazione: « Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà e la resistenza all’oppressione» e l’art 17: « […] La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato ».
[17] Lo stesso francese, di rincalzo, dirà infatti che essenzialmente i diritti « dépendent des circonstances. Il ne s’agit pas d’abstractions ». Cfr. Le droit… cit,, p. 133.
[18] Ibidem, p. 131.
[19] Da questo punto di vista, Burke si pone quale campione dei “diritti” specifici degli indiani, degli americani delle colonie e degli irlandesi. Solo questi, egli giustifica, hanno un contenuto pieno e calibrato rispetto al popolo o nazione che li ha creati per diverse esigenze ed in diversi contesti di spazio e tempo. Cfr. Ibidem, p. 132.
[20] Ibidem, cit., p. 29.
[21] Ibidem, p. 32.
[22] Ibidem, p. 24.
[23] Ibidem, p. 26.
[24] Ibidem, p. 182.
[25] S. Bauzon, Il mestiere del giurista…, cit., p. 129.
[26] Ibidem, p. 131.
[27] Ibidem, p. 130.
[28] Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 183.
[29] Michel Villey, Philosophie du droit, cit., t. 1, pp. 164-165.
[30] Ibidem, p. 167.