"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Bose dell'altro mondo

Se ne va, non se ne va. Resta, non resta. È partito, non è partito.

Ancora nelle ultime ore si moltiplicano notizie (qui Repubblica, qui Avvenire) sulla telenovela Monastero di Bose e la sorte del suo fondatore Enzo Bianchi. I puntini sulle i dal compianto Antonio Livi (a quasi un anno dalla morte, avvenuta il 2 aprile 2020) in un articolo datato 2012 del fogliante Rodari (neretti nostri).

 

"Per aver detto ciò che penso su Enzo Bianchi mi danno del cattolico tradizionalista, pigiando con disprezzo sull’aggettivo, ma io non mi sento tale, mi sento piuttosto cattolico punto e basta, uno che senza offendere nessuno cerca di difendere la vera teologia dai falsi profeti, da coloro che dicono di fare teologia e invece altro non fanno che una squallida filosofia religiosa. Bianchi è uno di questi”.

Del clero romano, già decano della facoltà di Filosofia alla Pontificia università lateranense, “il più solido filosofo metafisico che le facoltà teologiche romane e italiane abbiano conosciuto dopo padre Cornelio Fabro” (copyright Sandro Magister), insomma non proprio l’ultimo arrivato, monsignor Antonio Livi spiega al Foglio dove diavolo abbia trovato il coraggio (e soprattutto per quale motivo l’abbia voluto trovare) di attaccare a testa bassa, qualche settimana fa, il monaco più mediatico del panorama ecclesiale italiano, Enzo Bianchi il quale, oltre che fondatore e priore di Bose, è scrittore prolifico ed editorialista per Repubblica, Sole 24 ore, Avvenire e Famiglia Cristiana. Un attacco durissimo e che, vergato sulle pagine del giornale cattolico on line la Bussola quotidiana, ha provocato qualche tempo dopo la reazione, in difesa di Bianchi, del direttore di Avvenire Marco Tarquinio che poi ha lasciato la palla direttamente al monaco bosiano per un botta e risposta con Livi sui generis rispetto al consueto ecclesialese del quale i personaggi di chiesa ammantano il più delle volte il loro parlare.

“Enzo Bianchi?”, si è domandato Livi il giorno che ha deciso di aprire il fuoco. “Si presenta come il priore della Comunità di Bose, che i cattolici ritengono essere un nuovo ordine monastico, mentre canonicamente non lo è, perché non rispetta le leggi della chiesa sulla vita comune religiosa. I cattolici lo ritengono un maestro di spiritualità, un nuovo san Francesco d’Assisi capace di riproporre ai cristiani di oggi il vangelo sine glossa, ma nei suoi discorsi la scrittura non è la parola di Dio custodita e interpretata dalla chiesa ma solo un espediente retorico per la sua propaganda a favore di un umanesimo che nominalmente è cristiano ma sostanzialmente è ateo”.

Tutto è iniziato il 4 marzo, per colpa di un paginone a colori nell’inserto domenicale di Avvenire nel quale Bianchi, all’inizio della Quaresima, commentava il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto. Qui, secondo Livi, Bianchi nega esplicitamente la divinità di Cristo, parla del suo “essere creatura” e lo presenta come un simbolo dell’etica sociale politically correct, l’etica dell’uomo che, come scrive il priore di Bose, deve “avere il cuore e le mani libere per dire all’altro uomo: mai senza di te”. Ma è l’11 marzo che per Livi la misura diviene colma. Quel giorno Bianchi scrive sulla Stampa un pezzo dedicato a Hans Küng, con tanti elogi al “teologo ribelle” e una dura accusa alla Santa Sede: non comprendendo le ragioni del professore svizzero, anzi togliendogli la qualifica di teologo cattolico, la chiesa avrebbe perso un’occasione importante. Secondo Bianchi, infatti, “le sue posizioni, così stimolanti per i cristiani di oggi e per l’uomo contemporaneo non hanno più avuto come luogo di confronto e di risonanza la comunità cattolica in quanto tale”.

Apriti cielo. Per Livi, da sempre abituato a parlare senza fronzoli e in modo spiccio davanti ai suoi alunni della Lateranense (a lezione non si toglie mai il cappotto), è davvero troppo. Dice: “Ho recentemente pubblicato un libro, “Vera e falsa teologia” (Editrice Leonardo da Vinci), il cui sottotitolo spiega molte cose. Recita così: ‘Come distinguere l’autentica scienza della fede da un’equivoca filosofia religiosa’. Bianchi non fa teologia, non si rifà al dogma cattolico ma un’equivoca ideologia filosofico-politica che ben poco serve a comprendere e a vivere la verità rivelata da Dio. Da troppi anni il priore di Bose non solo gode di grande favore presso gli intellettuali atei ma è anche considerato negli ambienti cattolici un ‘maestro della fede’ e un ‘profeta’ del cristianesimo del futuro: a un certo punto era opportuno che qualcuno facesse notare l’ambiguità di questa operazione culturale. Io non ho nulla contro Bianchi, e tutti hanno la libertà di interpretare il cristianesimo come meglio credono, ma è importante avvertire chi dovrebbe avere responsabilità pastorale (anche giornali come Avvenire e Famiglia Cristiana) che in materia di fede l’unica autorità garantita dalla fede stessa è il magistero della chiesa. La falsa teologia propone soltanto dottrine di uomini, invece di farsi eco della parola di Dio. La teologia è autentica serve alla fede se non contraddice il magistero del Papa e del Concilio, e nemmeno si sovrappone a essi, ma ne tenta un’interpretazione scientifica che risulti affidabile”.

Insomma, sta dicendo lei farebbe vera teologia e Bianchi no? “Io non c’entro. La chiesa ha tanti ottimi teologi anche al giorno d’oggi. Io nel mio libro critico alcuni noti teologi che seguono più Hegel che i concili ecumenici, ma rendo anche omaggio a teologi di fama internazionale come Charles Journet, Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar e Joseph Ratzinger (oltre a italiani come Carlo Caffarra, Inos Biffi, Rino Fisichella). Io uso la mia competenza epistemologica per mostrare qual è l’unico metodo logico per fare vera teologia. La vera teologia è opera di chi crede nella verità rivelata e procede con metodo scientifico a formulare ipotesi d’interpretazione del dogma al servizio della fede della chiesa. Ma, essendo questo il suo statuto epistemologico, essa deve rispettare il proprio limite ermeneutico e non rimettere in discussione ciò che costituisce il nucleo essenziale (sia in senso semantico che in senso aletico) della fede di sempre e di tutti. Procedere diversamente significa fare, non più teologia ma ‘filosofia religiosa’, che è un discorso su Dio e sulla religione ibrido e incoerente, privo di consistenza aletica, cioè veritativa”.

Sostiene Livi che una filosofia siffatta è anche un regresso al razionalismo e al fideismo dell’Ottocento, che già il Concilio Vaticano I aveva dichiarato incompatibili con la fede cattolica. Dice: “Il razionalismo teologico ha avuto un suo apogeo con Hegel e Schelling, i quali parlavano dei misteri rivelati (l’incarnazione del Verbo, la Trinità) risolvendoli in elucubrazioni meramente filosofiche; nello stesso periodo Kierkegaard esaltava il fideismo. Io dico: tutti sono liberi di non credere a una rivelazione divina e di preferire al Vangelo una sapienza umana, ma non vengano a dire che è teologia, perché questa non è un nutrimento sano della fede ma una specie di sofisticazione alimentare. Chi trasforma la dottrina cristiana in cattiva teoria religiosa, ricorrendo agli artifici della letteratura di moda, allontana i fedeli dall’intelligenza della fede, facendo credere che i dogmi siano d’intralcio alla spiritualità e che la fraternità cristiana consiste nel far proprie, come se fossero sempre valide, tutte le idee dei cosiddetti ‘dissidenti’ e dei contestatori della chiesa-istituzione”.

Alle parole di Livi, Bianchi ha reagito. Scrivendogli una lettera poi resa pubblica, Bianchi assicura Livi della sua “fede cattolica” e della sua “leale appartenenza alla chiesa”. E ancora: “La fede che professo” ha scritto “è quella del credo che proclamo ogni domenica nella messa. Per me, quindi, Gesù Cristo è il Figlio di Dio, il Signore morto e risorto per la nostra salvezza. Se non lo ritenessi tale, ma solo un uomo, lei pensa che avrei scelto la vita monastica cristiana, che da quasi cinquant’anni tento di vivere, con fatiche e inadempienze certo, ma nella fede in Lui?”. Dice Livi: “Un conto è dire che si crede in Dio, un altro è continuare a proclamare attraverso i propri scritti un umanesimo ateo. Anche nelle scorse ore Bianchi ha scritto che la resurrezione di Cristo è un simbolo, il simbolo dell’amore che vince la morte. Scrivere così significa buttare ogni cosa della fede – che è il regno del concreto esistenziale – sull’astratto, nell’ideologia. Significa distruggere il dogma e ridurre la chiesa a umanesimo, il tutto mostrandosi, agli occhi dei credenti, come un profeta, portatore di un messaggio in qualche modo divino. Tutto ciò altro non è che un millantato credito di un intellettuale che molti considerano un monaco, un sacerdote e un teologo, mentre queste qualifiche, nei termini in cui vengono usate nella chiesa cattolica, non gli appartengono”.

Millecinquecento lettori

"Un giornalista politico, nel nostro Paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana: è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene".
 
 
Enzo Forcella nel giugno 1959 iniziava con queste parole il suo articolo pubblicato sulle pagine di Tempo presente, la rivista diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, e intitolato appunto Millecinquecento lettori.
 
Siamo agli inizi del 1959, Forcella ha 38 anni e sulle colonne del quotidiano torinese La Stampa si è rivelato commentatore politico di alta qualità. I mesi di cui parliamo sono quelli segnati dall’agonia del centrismo, e il 1959 comincia con il congresso del Psi a Napoli. C’è in gioco l’avvio dell’esperienza di centro-sinistra.
 
Inviato dal suo giornale a seguire i lavori del congresso, Forcella ne ricava una serie di articoli obiettivi e indipendenti, nessuno dei quali sarà pubblicato. Il giornalista si dimette immediatamente e, qualche tempo dopo, pubblica su Tempo presente una disamina lucida e raggelante sul mondo della stampa e dei suoi rapporti con il potere.
 
Così Forcella sintetizza nei suoi appunti il contrasto con la direzione del giornale: "Il Psi stava in mezzo al guado che dalle posizioni filocomuniste lo porterà agli inizi degli anni sessanta alla collaborazione governativa con la Dc, e il congresso di Napoli costituisce uno dei passaggi più difficoltosi di questa marcia. Le mie corrispondenze ne suggeriscono nel complesso una lettura positiva: nel senso che, a mio avviso, la linea autonomistica (fautrice del centro-sinistra) ne uscirà confermata. La direzione del giornale, invece, asseconda l’atteggiamento di Saragat (e della Fiat) che per ragioni tattiche ha tutto l’interesse a presentare il Psi come incapace di svincolarsi dalla politica filocomunista. Di conseguenza cestina i commenti che invio da Napoli. Al ritorno in sede pongo il problema della mia permanenza nelle funzioni che ho sino a quel momento svolto. Non ne faccio una questione politica ma di professionalità giornalistica (…). Poiché non si era voluto dare credito alla mia interpretazione ne dovevo concludere che non godevo più della fiducia della direzione. In altre parole chiedo di essere licenziato".
 
Torniamo ai "1500 lettori": "Il rapporto dei millecinquecento lettori con il giornalista politico è molto stretto, in un certo senso si può dire che giunge fino alla identificazione: ogni mattina essi fanno colazione con lui (…), spesso lo invitano a pranzo e gli fanno pervenire attraverso colleghi o amici comuni i sensi della loro considerazione. A Natale, e quando è molto importante anche a Pasqua, il giornalista politico riceve dai suoi estimatori molte cassette di liquori. È invitato a tutti i ricevimenti. Ha onorificenze (…). Le mogli hanno sufficienti motivi per essere soddisfatte (…). Questi sono i piaceri del giornalista politico. Se ne deve dedurre che egli è ammesso a godere, di riflesso, i vantaggi del potere? O non è lui stesso un elemento del potere, e proprio in tale certezza trova il suo maggiore e impagabile piacere, il piacere della potenza?".
 
A farne le spese è ovviamente la società civile. Sempre più ignorante, sempre più inconsapevole, essa reagisce a una finta opposizione che la spinge a dividersi a favore o contro un “personaggio politico” e non a favore o contro un sistema economico basato sullo sfruttamento sempre più feroce dei lavoratori e lo svuotamento dello stato sociale. Di questo, l’informazione è responsabile, perché ha abdicato alla sua funzione sociale.

Travaglio dixit

"Intendiamoci. Non c'è nulla di male a essere di destra o di sinistra. Anzi, è normale e anche giusto. Ciascuno ha le sue idee, guai se non le avesse. E, in un paese bipolare [speriamo non nel senso del disturbo bipolare o maniaco-depressivo, ndr], almeno il giorno delle elezioni, i cittadini - compresi i magistrati, i giornalisti e i giudici costituzionali - si dividono fra quelli che votano a destra, quelli che votano a sinistra e una minoranza di astensionisti che non votano per nessuno. Il guaio è quando un'idea politica o una scelta elettorale inquinano l'imparzialità del giudice o del pm o del giornalista nella loro quotidiana attività professionale".

"Il voltagabbana cambia idea per stare sempre dalla parte del potere, non contro".

 

Così parlò Marco Travaglio.

(Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, il Saggiatore, 2007, pagg. 25 e 31)

Sacrificio senza trascendenza

Sono passati molti anni dalla prima edizione di questo libro; ma le sue tesi di fondo, lungi dall’essere invecchiate, appaiono oggi perfino più chiare e più sicure di quando sono state formulate in quanto hanno provveduto gli avvenimenti a convalidarle. È evidente, infatti, che se la Chiesa si sforza di ricongiungersi con l’Antico Testamento, con l’ebraismo e con il musulmanesimo, è perché l’opera di Gesù, come affermato in questo libro, non è stata capita nel suo aspetto eversivo nei confronti dell’ebraismo nemmeno dai suoi primi seguaci; ed oggi si giunge a negare (pur senza ammetterlo), a svuotare di senso il lancinante messaggio di rottura gridato con tanta violenza da Gesù.

 

Il dialogo interreligioso costituisce in realtà il ritorno al «sistema del sacro», un sistema che è presente, anche se con innumerevoli varianti, in tutte le religioni, ma che nell’ebraismo si trova nella forma più stringente a causa di un fattore essenziale: la proclamazione che esiste un solo Dio. È questa unicità che costringe gli elementi dispersi qua e là nelle singole credenze sacrali a concentrarsi in una logica assoluta, mettendo in luce così il principio fondante del rapporto di ogni gruppo umano con ciò che lo trascende, che lo supera e che lo intimorisce: il principio del sacrificio. Sacrificare significa uccidere, offrire la morte al creatore della morte. Era stato proprio questo: il passaggio immediato, con Gesù e dopo Gesù, dalla concretezza dell’uccisione degli uomini (la sacralità della guerra è appunto un sacrificio fra uomini), dell’uccisione degli animali, della mutilazione del pene al simbolismo del pane nella Messa e dell’acqua nel battesimo a connotare la diversità radicale dei popoli mediorientali da quelli d’Occidente. Gesù ha segnato questa diversità e per questo è stato subito ucciso. Le religioni, infatti, quali che siano le spiegazioni che ogni singolo popolo ne dà, rivelano la psicologia collettiva, l’atteggiamento verso il mondo, verso la natura, verso la propria vita che contraddistingue ogni gruppo umano in confronto agli altri e coprono perciò anche gli aspetti più lontani dalcentro logico di fondazione di una cultura. Naturalmente i membri del gruppo di solito non sono per nulla consapevoli di questa interconnessione logica di cui sono portatori; ma ciò non toglie che essa agisca in modo coercitivo proprio perché è «ovvia». L’ovvietà acceca anche le menti più critiche tanto che solo i massimi geni, quelli che per la loro assoluta unicità sfuggono perfino alla definizione di «genio», si avvedono dei significati della cultura nella quale si trovano a vivere.

Gesù è appunto un genio assoluto, e ha applicato la sua immensa capacità critica là dove nessuno ha mai provato a farlo: i mattoni di fondazione del «Sacro» nell’ebraismo (come in tutte le religioni), ossia il sacrificio, l’uccisione di una vittima, il dono della morte. È questo, dunque, per Gesù il vero nemico dell’umanità; l’unico, insuperabile ostacolo alla libertà di ogni uomo così come di ogni gruppo: l’uccisione sacrificale.

Uccisione: è questo il problema fondamentale dell’uomo. Dover uccidere per poter vivere dato che questo è il meccanismo che regge la Natura; e al tempo stesso impedirsi di uccidere per poter vivere in gruppo. Il Potere nasce da lì: qualcuno ha assunto su di sé il diritto e il dovere di uccidere e di far uccidere,e lo ha messo al sicuro facendolo dipendere dalla Divinità. Il Sacro e il Potere perciò sono inscindibili; o meglio Sacro e Potere sono una cosa sola, nascosta sotto due termini che in apparenza rinviano l’uno all’altro in un sistema circolare infinito privo di responsabilità. Neanche le rivoluzioni più violente e radicali, comunque rarissime nel lungo itinerario della Storia, sono mai riuscite a interrompere il sistema «uccisione-potere-sacralità». Una volta giunte ad uccidere, infatti, le rivoluzioni ricodificano il sistema, spostandolo semmai da un ente ad un altro, da una classe ad un’altra, da una autorità ad un’altra. L’unica rivoluzione che ha permesso di intravedere dove fosse collocato il centro del potere è stata quella di Gesù; e malgrado gli enormi, innumerevoli errori compiuti dai suoi seguaci, l’Occidente rimane (o forse dobbiamo dire rimaneva dato che l’unificazione europea tende a far prevalere l’Oriente) ancora l’unica speranza di coloro che vogliono liberarsi dalla sacralità del potere.

Gesù dunque è stato ucciso in base alla necessità logica della «vittima sacrificale»; quella stessa logica che in nessuna religione è stata mai esposta con tanta chiarezza quanto nell’ebraismo, nel racconto, privo di veli, dell’uccisione di Isacco. Uccidere il «figlio», ossia uccidere la prosecuzione della vita, il futuro del gruppo. Gesù è stato sconfitto, ma ha costretto il sistema del sacro a spostarsi in Occidente, dove l’amore per la bellezza, per la rappresentazione della bellezza, presente nei Greci e nei Romani, rendeva impossibile accettare la concretezza delle mutilazioni, il divieto di qualsiasi simbolismo. Qui, dunque, anche se il sistema del «Sacro-Potere» non è stato infranto, si è però verificata una rottura epistemologica nei significati culturali, tracciando un abisso fra l’Antico Testamento e i Vangeli. Chi, del resto, potrebbe ingannarsi, leggendo i Vangeli, sulla loro assoluta novità poetica, sulla loro appartenenza al mondo di chi ama la rappresentazione della bellezza? Per questo, nessuno, credente e non credente, ignorante e colto, è mai riuscito a prendersela con Gesù: in Occidente l’amore per il bello è più forte di qualsiasi cosa.

Oggi, però, la Chiesa sta compiendo il passo più pericoloso: togliere al cristianesimo anche quel piccolo granello di senape che Gesù vi ha posto senza che i suoi seguaci abbiano saputo farlo crescere e sviluppare: la rottura con l’Antico Testamento. È soprattutto la Chiesa wojtyliana che lavora in questa direzione, seguendo due tracciati in apparenza diversi ma alla fine convergenti. Il primo è esplicito e dichiarato: ripartire dal «Padre Abramo» affermando che, nel monoteismo, siamo tutti uguali e fratelli. Il secondo è, viceversa, molto nascosto e forse addirittura inconsapevole. Celebrare il massimo della sacrificalità nell’indicare in ogni individuo il sacrificatore e la vittima, spronando tutti al «dono» di sé come dono all’altro uomo, senza più passare attraverso Dio. Difficile capire se Wojtyla creda di poter sopperire in questo modo alla mancanza di fede, o almeno a quella che lui ritiene mancanza di fede, nell’Occidente cristiano. Sotto questo aspetto il cristianesimo si riassumerebbe nelle sole «opere di bene», prive di Dio.

Un errore così tragico non era mai stato compiuto dalla Chiesa, neanche nei suoi momenti peggiori. Il sacrificio della vittima riusciva almeno a tenere a freno l’aggressività dell’uomo scaricandola, sia pure ingiustamente, su di un solo individuo e dando un minimo di respiro al potere della morte dal momento che lo poneva sotto il controllo della divinità. Fare, invece, di ogni singolo uomo il sacrificatore e la vittima dell’altro, eliminando la trascendenza, eliminando il timore della morte come base della religione, significa consegnare gli uomini alla più feroce delle distruttività, ristabilire la legge dell’Homo homini lupus. Una delle conseguenze più immediate la si è vista nella rapacità sul cadavere, poi, inevitabilmente, sul «morto ancora non morto», infine sul vivo cui si strappano organi, con il denaro o per «dono», ossia per «sacrificio». L’esortazione, assillante al punto da diventare coercitiva, a «donare gli organi» è l’estremo limite di una sacrificalità senza trascendenza, senza altra passione che la morte dell’altro per la vita terrena, la sopravvivenza biologica di uno per se stesso. È la fine del cristianesimo; la fine di qualsiasi possibilità di religione in Occidente. Ma anche, forse, una volta uccisa la religione, la possibilità di ricominciare da Gesù.

(Ida Magli, Gesù di Nazaret, la storia che nessuno conosce)