"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

La pietra dei filosofi

"Sarebbe bello trovare la pietra filosofale, ma non è possibile" dice in sostanza il pilota Sebastian Vettel commentando i funesti risultati ottenuti fin qui dalla sua scuderia Ferrari.

A beneficio dei profani (non di sport automobilistici ma di miscele alchemiche) consentiteci dunque di ricordare di che si stratta (voce Pietra filosofale in Enciclopedia Italiana, Treccani).

Il chimico, alchimista, astronomo, astrologo,
filosofo e farmacista Abu Musa Jabir
ibn Hayyan, noto come Geber (721-815)

Dunque: la fabbricazione o la scoperta della pietra filosofale era lo scopo supremo dell'alchimia, cioè di quel complesso di teorie e tecniche che assumevano la loro ispirazione dalle pratiche tendenti a ottenere la trasmutazione dei metalli vili in oro, la pietra filosofale appunto, l’elisir di lunga vita. Il termine deriva dall’arabo kīmiyā’, uno dei nomi del reagente per la trasformazione dei metalli, detto in Occidente lapis philosophorum o pietra filosofale. Elementi di cultura alchimistica sono presenti sia nell’antica civiltà cinese sia in quella indiana, ma l’alchimia che ha più influenzato la cultura occidentale nacque in Egitto nel 1° secolo d.C. Attraverso il centro culturale di Alessandria e la cultura siriaca, l’alchimia ellenistica si trasmise alla civiltà islamica. Fondatore dell’alchimia araba viene considerato Giābir ibn Ḥayyān, il Geber della tradizione medievale europea (vissuto, pare, nel sec. 8°).

Bene, che cosa propriamente fosse la pietra filosofale è arduo dire, soprattutto perché l'interpretazione del linguaggio alchemico segue vie divergenti: per gli uni, i più, la pietra filosofale è una fantasiosa composizione chimica, invano cercata dagli alchimisti, la quale avrebbe dovuto possedere straordinarie virtù, come quella di trasformare qualsiasi metallo vile in oro. Altri, però, non sono di questo parere, e notano come in molti testi alchemici si affermi esplicitamente che l'"opus magnum" non è opera materiale. Da essi il detto di Basilio Valentino "Visita interiora terra, rectificando invenies occultum lapidem" è interpretato nel senso che la "terra" indichi l'individuo corporeo, e che il "trovare la pietra nascosta", al pari del diventare "immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale", di cui parla un testo attribuito al Campanella, corrisponda simbolicamente a un'esperienza interiore, cercata e vissuta per fini di sviluppo spirituale.

La "pietra dei filosofi" così intesa (e conferme di questa interpretazione vengono arrecate in base ai più diversi testi, dal Geber al Cosmopolita ad Agrippa al Della Riviera) non è però la "pietra filosofale", a cui essa sta come la materia prima all'opera perfetta: per giungere a questa, occorre una lunga serie di operazioni, che, secondo la tesi qui esposta, vengono parimenti descritte sotto il velame del simbolismo alchemico.

Grandi opere

Non ditelo ai grillini, teorici politici della fede senza le opere. Ma a breve distanza da noi la situazione dei trasporti cambia, evolve, migliora. I cantieri funzionano, i lavori partono e terminano, si scava e si realizza. Una lezione rossocrociata che andrebbe magari imparata (come quella tricolore, ma destinata probabilmente a restare soltanto una lodevole eccezione, del nuovo Ponte di Genova).

Dunque: s'inaugura tra pochi giorni, il 4 settembre, la Galleria di base del Monte Ceneri: tassello fondamentale nell'ambito dei collegamenti ferroviari tra Nord e Sud e ancor più tra la Svizzera d’oltre San Gottardo e la Svizzera italiana.

La galleria di base del Monte Ceneri: infografica

L'opera segna di fatto il completamento di Alptransit, il corridoio che attraversa le Alpi da Nord a Sud. A livello regionale è il collegamento destinato a cambiare il Ticino con una rete celere per i passeggeri in viaggio nel triangolo Bellinzona-Locarno-Lugano.

La cerimonia seguirà di 4 anni l’apertura ufficiale del tunnel di base del San Gottardo. Ovvio l'entusiamo della televisione della Svizzera italiana RSI che ne darà ampiamente conto attraverso tutti i suoi canali. Il momento centrale è previsto a mezzogiorno davanti al portale nord della Galleria, a Camorino (agglomerato urbano di Bellinzona), con il tradizionale taglio del nastro in presenza della Presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga, il Consigliere federale Ignazio Cassis e il Presidente del Governo ticinese Norman Gobbi.

Test e collaudi del tunnel di base lungo 15,4 km sono già in corso. Dopo una prima fase di rodaggio, il 13 dicembre 2020 alle 6.03 il primo treno regolare percorrerà ufficialmente la galleria di base del Ceneri. Da quel momento il Ticino diventerà più piccolo, trasformandosi in una realtà metropolitana. Da Lugano a Bellinzona in treno ci vorranno 19 minuti (contro la mezz'oretta attuale), mentre fino a Locarno ne basteranno 29 (attualmente ci vuole più di un'ora e spesso bisogna cambiare convoglio a Bellinzona).

Quinta galleria della Svizzera per quanto concerne la lunghezza, il tunnel si compone di due canne a binario unico a distanza di circa 40 metri, che ogni 325 metri sono collegate tra loro con 48 cunicoli trasversali. I lavori sono durati 12 anni, a Camorino sono state realizzate diverse opere edili, come viadotti, strade e ponti.

Dal 5 aprile la tratta ferroviaria si allungherà fino a Milano, passando da Como. Tagliati i tempi di percorrenza anche da Lugano a Zurigo, serviranno meno di due ore; mentre da Zurigo fino a Milano basteranno 3 ore e 17, contro le 3 ore e 40 di oggi.

L’Alptransit, ambizioso progetto svizzero concepito per permettere il trasferimento delle merci da strada alle rotaie, approvato nel 1992, orgoglio dei cittadini elvetici, permetterà ai treni di viaggiare sostanzialmente in pianura, con pendenze limitate, attraverso tre tunnel, oltre al Ceneri, quelli già operativi del Lötschberg (34,6 km) e del Gottardo (57 km).

Quel latino vissuto

La gente in mezzo alla quale sono nato e cresciuto non sapeva il latino. Stentava anche a parlare l’italiano, sostituito, in caso di bisogno, dal veneto di terraferma, confinante col friulano, parlato a molti nelle sue ultime propaggini occidentali.

Non sapeva il latino, quella popolazione fatta perlopiù di contadini, operai, artigiani (e, naturalmente, braccianti e manovali, e disoccupati quasi sempre involontari) che raramente varcava la soglia della scuola post-elementare ma aveva riguardo e stima per la gente "studiata". Non sapeva, dunque, il latino, ma c’era nata dentro.

Missale Romanum risalente all'anno 1959

Dalle formule del battesimo a quelle dell’estremo saluto ("Proficiscere, anima christiana..." "Parti anima cristiana...) la Chiesa usava il latino, vecchio e consunto dall’uso, ma assimilato, per quanto possibile, dal popolo che partecipava ai riti. Nessuna nostra chiesa, oggi, si riempie di popolo come avveniva nella settimana santa, dal mercoledì sera al venerdì, quando si leggevano o cantavano "notturni" (tre di tre salmi ciascuno, più le "lodi" fatte di cinque salmi) e si leggevano le profezie antiche. E la gente in piedi, se non trovava posti a sedere, per due ore e più.

Uomini come mio padre (classe 1894, terza elementare) partecipavano come potevano al canto e all’ascolto, alla fine di dure giornate lavorative, senza dar segni di stanchezza.

So che dicendo cose come queste corro il rischio di sembrare nostalgico, passatista, retrogrado: ma mancherei ad un preciso dovere se tacessi i valori (o disvalori) della civiltà nella quale le generazioni nate nel primo Novecento (e, a maggior ragione, nell’ultimo Ottocento) si sono bene o male formate. Considero ancor oggi un valore l’uso, invalso per quasi venti secoli nella Chiesa latina, di quella lingua che aveva lasciato preziose relique nelle opere dei classici, e umili ma non insignificanti reliquie in tanta parte del linguaggio ufficiale, e nelle professioni liberali.

Ricordo l’impressione che mi fece, quando andai in Norvegia, l’abbondanza delle lapidi scitte in latino e il gusto che provavamo noi, popolo non scolarizzato, seguendo come potevamo il linguaggio ufficiale che la Chiesa usava anche in cerimonie semplici, in occasioni ordinarie della vita. Mia nonna cantava "Tantum ergo sacramentum", un verso (di Tommaso d’Aquino, probabilmente), intuendo che sotto stava un serio mistero, ma senza cedere all’uso, invalso specialmente tra gli uomini, di estrapolare dagli inni, parole, che portate in altro contesto, diventavano da precatorie imprecatorie. Il buon popolo veneto usa ancora punteggiare i discorsi con "ostia" e "sacramento", termini già pertinenti al culto eucaristico. La messa, com’è noto, è centro, fondamento e culmine della liturgia cattolica.

A me fa un po' specie il cantar prodottosi, di recente, dopo il breve documento di Papa Benedetto che autorizza il riuso del formuario latino invalso fino al Concilio ecumenico Vaticano Secondo. Non è proibito pensare che l'abolizione di quel formulario non sia stata, dopo tutto, una gran bella invenzione. Chi conosce, per esempio, la "prece eucaristica" n. 1 detta anche Canone Romano, sa di quanta bellezza sia stato privato, per decenni, il popolo dei fedeli.

Giova comunque ricordare che il latino non va idolatrato. Anche nelle scuole ginnasiali e liceali il declino di esso ha accompagnato la desuetudine ecclesiastica: con quali vantaggi reali, nessuno è in grado di dire.

La preghiera "pro perfidis judasis" inserita fra quelle del venerdì santo era stata potata da tempo della sua aggressività non caritatevole, che del resto sarebbe apparsa attenuata se i conciliaristi assoluti avessero avuto cura di spiegare il senso del termine latino "perfidus", che non è ben reso dall’italiano "perfido".

(Pietro Nonis, 1927-2014, vescovo di Vicenza dal 1988 al 2003, Il Giornale di Vicenza, martedì 24 luglio 2007, pagina 7)

Agostino, conversione in musica

Riprendiamo da La Nuova Bussola Quotidiana, il bell'articolo del direttore d'orchestra Massimo Scapin: La conversione di Agostino in Opera. Guida all'ascolto (versione in inglese qui: Hasse's Conversion of St. Augustine).

Filippo Lippi, Visione di Sant'Agostino, 1452-1465,
Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo

Fu come oggi, 1590 anni or sono, che a 76 anni non ancora compiuti morì ad Ippona, l’odierna Bona in Algeria, un ricercatore appassionato della verità, il più illustre dei Padri della Chiesa occidentale: sant'Agostino, Vescovo e dottore della Chiesa (354-430).

Africano di origine (è nato nel 354 a Tagaste nella Numidia proconsolare, oggi Souk-Ahras in Algeria), ma romano per eloquenza, Agostino trascorse un’adolescenza inquieta. Fu battezzato da sant’Ambrogio a 32 anni, ordinato sacerdote a 37 e consacrato Vescovo a 41. Fino alla morte nella sua immensa produzione letteraria, dalle Confessioni alla Città di Dio, fronteggiò le eresie del suo tempo, come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo. «Il grande vescovo univa in sé l’energia creatrice di Tertulliano e la larghezza dello spirito di Origene con il senso ecclesiastico di Cipriano, l’acutezza dialettica di Aristotele coll’idealismo alato e la speculazione di Platone, il senso pratico dei Latini e la duttilità spirituale dei Greci. Fu il massimo filosofo dell’epoca patristica e, senza dubbio, il più importante ed importante ed influente teologo della Chiesa in generale» (B. Altaner, Patrologia, Marietti, Torino 19686, p. 308).

Secondo il nostro solito, avviciniamoci per la via della musica al Dottore della Grazia. Non parleremo qui del suo De musica, un’opera, giunta più o meno completa, che egli scrisse tra il 388 e il 390 proprio sulla musica, anzi sul suo aspetto teorico, dove egli confessa: «Num possumus amare nisi pulchra?», Che altro si può amare se non le cose belle? (VI, 13, 38).

Accenneremo piuttosto alle sue celebri Confessiones, «un’opera che è insieme autobiografia, filosofia, teologia, mistica e poesia, in cui uomini sitibondi di verità e consapevoli dei propri limiti, hanno ritrovato e ritrovano se stessi» (Giovanni Paolo II, Augustinum Hipponensem, 28 Agosto 1986, § 4). Questo classico dell’autobiografia, soprattutto la parte dedicata alla mirabile conversione dell’autore, ha trovato largo favore anche nella drammaturgia: in particolare ha interessato quella composizione drammatico-musicale di argomento religioso (ma extra-liturgico) per voci e orchestra, senza scene e costumi, che si chiama oratorio. 

Direttamente dalle «Confessioni» viene La conversione di Sant’Agostino, l’ultimo oratorio scritto dal tedesco Johann Adolph Hasse (1699-1783), il maggiore dei non pochi compositori stranieri che, prima di Gluck e Mozart, brillarono nell’opera italiana. L’oratorio fu eseguito per la prima volta alle quattro pomeridiane del Sabato Santo 28 Marzo 1750, nella cappella del Palazzo Reale di Dresda. Il libretto, scritto dalla principessa bavarese Maria Antonia Walpurgis (1724-1780), si basa sul dramma in cinque atti Idea perfectæ conversionis sive Augustinus del gesuita Franz Neumayr (1687-1765). A giudicare dalle numerose esecuzioni dopo la prima nelle odierne Germania, Lettonia, Repubblica Ceca e Italia, l’oratorio guadagnò una certa popolarità nel XVIII secolo.

La partitura, divisa in due parti per circa un’ora e tre quarti di musica, è concepita per cinque personaggi (Sant’Agostino, contralto; Simpliciano, un sacerdote, tenore; Monica, madre di Agostino, soprano; Alipio, un amico di Agostino, contralto; Navigio, fratello di Agostino, basso), un coro misto e un’orchestra (2 flauti, 2 oboi, 2 corni, 2 fagotti, archi e basso continuo).

Tutto inizia con un’Introduzione orchestrale, dall’andamento «Allegro non troppo però, ma con molto spirito». «Più non t’affliger tanto, madre dolente e pia. […] Speriamo in Dio», dice Simpliciano per consolare Monica, che gli confida: «Ah quanto è lieve, Padre, la mia speranza» che «il figlio reo» possa cambiare vita. Si aggiungono Alipio e poi Navigio che, insieme a Simpliciano e Monica, per tutta la prima parte parlano con Agostino della sua «pugna così grave», il suo conflitto interiore tra bene e male, e lo invitano a ravvedersi, a sciogliere «queste infami catene», a negarsi «almen per poco al reo veleno». Agostino vorrebbe intraprendere il cammino di conversione, ma il suo cuore, dice, «giammai cambiar non si potrà. Troppo son dolci gli oggetti del suo amore». Egli si dispera: «Il rimorso opprime il seno, / Ama il core il suo delitto; / Son dubbioso e son afflitto / E risolvermi non so. // Del mio stato gemo e peno; / Vorrei volgermi al mio Dio; / Ma da’ lacci del cor mio, / Come sciogliermi potrò». La prima parte si conclude con un coro che, alternandosi a Monica e Alipio, intercede per Agostino: «Inspira, o Dio clemente / A lui più degno affetto; / D’ogni terreno oggetto / Rendilo vincitor. // Ah’ non sia sparso in vano / Per esso il Divin Sangue, / quell’anima che langue / Rinforzi il tuo favor».

La seconda parte si apre con Monica, «sola fra tante angustie; so che il figlio combatte, ma non so, s’egli vinse». Ma Simpliciano e poi Alipio la rassicurano che «la grazia l’assiste» e che egli «forte resiste ai moti del suo cor». Al vedere arrivare Agostino, «si ritirano tutti in disparte» per ascoltare il suo soliloquio. Durante il suo combattimento spirituale una voce (soprano) lo invita: «Prendi e leggi, Agostin». Egli si trova tra le mani «i fogli […], che delle genti il grande Apostolo vergò»; sappiamo dal dramma di Neumayr (e dalle Confessioni VIII,12,29) che si tratta del passo della Lettera ai Romani, dove san Paolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13,13-14).

Dopo la lettura, Agostino sente dileguarsi le tenebre del dubbio e, pieno di gioia, canta: «Or mi pento, oh Dio, che tardi / Ad amarti incominciai: / Or condanno, e tu lo sai, / I deliri del mio cor. // Ah’ pietoso a me consenti / Un de’ teneri tuoi sguardi, / che conforti, che alimenti, / che avvalori il nuovo amor». Simpliciano lo raggiunge e lo avverte: «T’inganni forse, troppo fidando in te»; ma lo trova ormai certo della sua conversione, cosa di cui anche Monica e gli altri si rallegrano. Alla fine dell’oratorio, prima Sempliciano e poi il coro finale esortano rispettivamente tutte le «alme infelici» e «ogni timido cor» a seguire l’esempio di questo grande convertito.

L'essere e il nulla

Dei 250 anni dalla nascita di Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770), che i media oggi ricordano come "il filosofo che vide la storia come progresso inevitabile" (Deutsche Welle, qui) o come il pensatore che voleva "la mitologia al potere" (doppiozero, qui), noi ci siamo già occupati qui: "Hegel l'eretico". Con un saggio di don Curzio Nitoglia, L'antimetafisica, figlia della contro-chiesa, oggi ci interessiamo dunque all'anniversario della morte di Nietzsche, avvenuta 120 anni fa (Weimar, 25 agosto 1900) e al conseguente nichilismo.

Curt Stoeving, Ritratto di Friedrich Nietzsche

“Oggi il principio non è più l’essere, ma il nulla e il nichilismo costituisce il carattere
dominante della nostra epoca”
(B. Mondin, Manuale di filosofia sistematica, Bologna, ESD, 1999,
vol. III, Ontologia e Metafisica, p. 365).

Il postmoderno è contro e non oltre la modernità

Il pensiero post-moderno va inteso non dopo né oltre la modernità, ma contro la modernità e, a maggior ragione, contro la metafisica dell’essere, che in san Tommaso d’Aquino ha raggiunto la perfezione.

Il termine del postmoderno è il nulla nichilistico, mentre il termine della modernità era l’Individuo assoluto e l’idealismo conseguente.

Cronologicamente il nichilismo viene dopo la modernità, tuttavia teoreticamente esso non vuole perfezionarla, aggiungendo qualcosa ad essa, ma distruggerla; ciò nonostante l’odio principale del nichilismo è per l’Essere e quindi per la metafisica classico/tomistica e secondariamente per il pensiero e l’idealismo della modernità.

Il post-moderno non è il superamento del moderno, ma il suo esito nichilistico. Non si va oltre la modernità, ma le si rema contro e si finisce nel mare del nulla ove tutto affonda. Insomma la post-modernità è lo scacco o la dissoluzione suicida della modernità. Siccome, per il postmoderno, teoreticamente l’Essere non è, sfugge, è assente, allora praticamente occorre vivere non più stabilmente, ma alla giornata, tirare a campare, lasciarsi andare, tollerarsi, spegnersi, morire, suicidarsi ed annichilarsi se mai fosse possibile.

Il postmoderno, sfociando nel nulla, non solo è la prova del nove del fallimento della modernità, ma non ne offre neppure l’antidoto, la via d’uscita, anzi aggrava la malattia intellettuale idealista (errore per eccesso) con l’irrazionalismo nichilista (errore per difetto) e autolesionista.

«La modernità era un’epoca “giovane”, caratterizzata da forti ideali, la post-modernità, invece, è un’epoca vecchia e malata, in cui la sclerosi della decadenza diviene gusto della tolleranza, che non è tanto rispetto quanto indifferenza. Nietzsche non usa ancora la parola postmoderno, ma un’altra che meglio definisce la crisi della modernità. Tale parola è nichilismo». Quindi nichilismo e post-modernità si equivalgono, o meglio il nichilismo spiega più dettagliatamente la natura del male che ci avvolge e che rischia di portare l’uomo verso l’abisso del nulla.

Assistiamo oggi alla fine comatosa della modernità, che prima ha fatto di Dio un prodotto dell’uomo e dell’Uomo un “dio”, poi ha “ucciso” Dio per soppiantarlo col Superuomo (Nietzsche) o con l’Umanità (Marx), infine è scivolata nella debolezza nichilistica auto-dissolutrice.

Il nulla è il “principio e fondamento” del postmoderno

Tale è la parabola dal Cogito al Nihil. Cogito ergo nihil sum, ossia se il pensiero prende il posto e soppianta l’Essere (Cartesio e idealismo) nella scala dei valori, anche esso – secondo i nichilisti – non è, gli manca un fondamento, un substrato sul quale poggiare e quindi precipita nel nulla (nichilismo). Agere sequitur esse et non praecedit illud. Quel che l’idealismo ha fatto alla metafisica, il nichilismo lo ha reso all’idealismo: l’Idea ha preso il posto dell’essere e il nulla ha soppiantato l’Idea. “Chi di spada ferisce di spada perisce”.

Nichilismo viene dal latino nihil ossia ‘nulla’. Ora il nulla è il non-essere, ciò che non esiste, la totale assenza di ogni realtà. S. Tommaso spiega: “il nulla e la mancanza totale di essere sono la stessa cosa” (S. Th., I, q. 45, a. 1). Il nulla assoluto è assenza totale e assoluta di qualsiasi realtà, mentre il non essere relativo o la potenza è privazione di una forma o di un atto particolare. Per esempio il marmo è una statua in potenza e gli manca la forma di essa, il marmo non è il nulla o il non essere, ma non è ancora l’essere in atto perfetto o la statua.

L’Angelico distingue il nulla assoluto (non essere, assenza completa di ogni realtà, anche della materia) dal nulla relativo (per esempio, la potenza rispetto all’atto: essa non ha ancora l’atto, ma è un qualcosa che, pur non essendo ancora ultimato, tende all’atto). La ragione ultima e profonda della contingenza, del limite o dell’imperfezione degli enti creati va cercata nel loro derivare dal nulla totale per creazione da parte di Dio. Infatti le loro imperfezioni non derivano né da Dio né dalla materia, ma “in quanto la creatura viene dal nulla/est ex nihilo” (De Potentia, q. 3, a. 1, ad 14). Il nulla assoluto è, dunque, l’oggetto o la materia, il metodo, la forma e il fine della filosofia nichilistica.

Attorno al concetto di nulla si sono chinati vari filosofi. Nell’antichità il primo è Parmenide, che lo concepisce senza la mediazione della potenza e quindi come la negazione totale dell’essere in atto, che è l’unico esistente, sfociando così nel monismo panteistico.

Gorgia asseriva: “nulla esiste; se qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile e se, per assurdo esistesse e fosse conoscibile, sarebbe inesprimibile” (v. Sesto Empirico, Contro i dogmatici, I, 65-87). Ma Gorgia sapeva benissimo, anche se non lo ammetteva, che almeno lui esisteva e non era non-essere. Quindi la filosofia non può prendere in considerazione la dottrina la quale propugna il nulla assoluto come punto di partenza. 

Platone (Sofista, 256-258) e Aristotele (Metafisica, IV, 7; V, 2-4) intendono, mediante il concetto di potenza, il nulla come privazione relativa o assoluta di essere, ma non avevano ancora in concetto di essere come perfezione di tutte le perfezioni e quindi non scorgevano nel nulla la negazione di ogni perfezione e nel nichilismo la massima depravazione della filosofia teoretica e morale.

Quindi solo per san Tommaso il nulla assoluto è non essere, mentre l’essere è la perfezione ultima che conferisce a tutti gli enti consistenza, realtà e attualità. Dunque il vero e perfetto rimedio al nichilismo radicale è il tomismo in quanto metafisica dell’essere come atto puro. S. Tommaso ci avverte, riprendendo il concetto di potenza, di non lasciarci sedurre dalla volontà di potenza di “entificare o reificare” il nulla facendo di esso un polo negativo, quasi esistesse come ente o “essere al contrario”, una sorta di “ente negativo”, mentre è il contrario o la negazione dell’essere (S. Th., I, q. 45, a. 2, ad 4). L’errore analogo al nichilismo teoretico è in campo morale quello del manicheismo, che “entifica” il male, il quale è solo una privazione di bene. 

L’annichilazione è il risultato della post-modernità come la creazione lo è del concetto di partecipazione, della filosofia dell’essere e ultimamente di Dio

L’annichilazione, cui si rifà il nichilismo, è il termine correlativo ed opposto di creazione ex nihilo. L’annichilazione in senso proprio significa ridurre qualcosa al completo non essere, facendola rientrare nel nulla. Ora come solo Dio è capace di creare ex nihilo poiché è onnipotente, così solo Dio può annichilare in senso stretto o ridurre al nulla qualcosa (San Tommaso, S. Th., I, q. 9, a. 2). Ma siccome l’annichilazione di qualcosa manifesta la sola onnipotenza divina senza la sua saggezza (de potentia absoluta), Dio non se ne serve de potentia ordinata (la potenza più la saggezza divina). Infatti la perfezione e l’onnipotenza divina rifulgerebbero nell’annichilazione meno che nella creazione di un ente a partire dal nulla poiché il positivo è superiore al negativo e l’essere al nulla. Quindi Dio pur potendolo, non annichila gli enti (S. Th., I, q. 104, a. 4) e neppure i malvagi o i dannati (De Potentia, q. 5, a. 4, ad 6). Quindi la filosofia non può prendere seriamente in considerazione la dottrina nichilistica, la quale propugna il nulla assoluto come punto di arrivo per annichilazione.

I nichilisti vorrebbero, perciò, prendere, senza sapienza, il posto di Dio solo nell’annichilazione e non nella creazione poiché rappresentano una specie di “divinità” malvagia, che vorrebbe tutto distruggere di quanto Dio ha fatto, spinta dall’odio contro Dio accompagnato dall’invidia e dalla gelosia e con molta presunzione poiché mancano non solo di potenza ordinata, ossia di saggezza, ma anche di potenza assoluta. Questo concetto di reductio ad nihilum come opposto a quello di eductio ex nihilo ci fa sperimentare la natura preternaturalmente folle del nichilismo filosofico.

Metafisica e contro-metafisica, Chiesa e contro-chiesa

Esistono due metafisiche o meglio una metafisica e una contro-metafisica (specularmente alla Chiesa e alla contro-chiesa): la vera metafisica dell’essere e la falsa metafisica o contro-metafisica del nulla o del non-essere. Il nichilismo è la filosofia che proclama il primato del nulla sull’essere, del negativo sul positivo, della distruzione contro l’edificazione, del male sul bene, del vizio sulla virtù, del sentimento animalesco sulla ragione umana. Esso è il padre di ogni rivoluzione.

Padre Battista Mondin scrive: “il nichilismo, la metafisica del nulla, è diventata la filosofia della post-modernità. La modernità, dopo l’esaltazione illuministica che aveva condotto l’uomo alle soglie del cielo, è passata, nel XX secolo, alla disperazione irrazionalistica, che non solo ha preteso di aver ucciso Dio, spegnendo la fiaccola di ogni speranza, ma ha fatto anche precipitare l’uomo verso l’abisso del nulla. Così dalla metafisica dell’essere si è passati al primato dell’Io e dell’Idea e poi si è scivolati nella metafisica del nulla. Oggi il principio non è più l’essere, ma il nulla e il nichilismo costituisce il carattere dominante della nostra epoca” (Manuale di filosofia sistematica, Bologna, ESD, 1999, vol. III, Ontologia e Metafisica, p. 365). I nemici della metafisica possono essere sconfitti solo dalla metafisica. Quindi se vogliamo uscire da questo stato comatoso dobbiamo iniziare a ristudiare la metafisica tomistica per metterla in pratica a livello individuale e sociale.

Il nichilismo è una sorta di manicheismo aggiornato

Il nichilismo novecentesco cerca di dare realtà negativa al nulla, proprio come il manicheismo avrebbe voluto darla al male, facendo di esso un assoluto, mentre è solo privazione di bene, come il nulla è privazione totale di essere. Il manicheismo è un antesignano del nichilismo morale.

La non sopportazione del limite e del nulla, e quindi la sua tentata entificazione e deificazione, proviene secondo l’Angelico dal fatto che la ragione dell’imperfezione del creato viene dalla sua origine: il nulla, dal quale Dio ha creato l’essere “in quantum creatura est ex nihilo” (De Potentia, q. 3, a. 1, ad 14). Ora l’orgoglio non può tollerare la deficienza del creato (v. lo Gnosticismo antico) e quindi non vuol ammettere la totale vacuità del nulla e cerca di dargli una certa entità, negativa, ma pur sempre “reale”.

L’odio contro l’ente finito ha di mira l’Essere sussistente

Come si vede la natura del nichilismo filosofico è l’odio contro l’essere per partecipazione (la creatura) e soprattutto contro l’Essere per essenza (Dio) ed è il tentativo di eliminare il concetto di creazione dal nulla o di partecipazione (tomistica) dando al nulla una certa realtà e riducendo poi la realtà al nulla.

Oltre l’odio contro Dio, la realtà e l’essere creato (nichilismo metafisico), il nichilismo odia e vorrebbe distruggere
1°) la ragione umana, rimpiazzandola col sentimento e l’istinto animalesco (nichilismo logico) e
2°) la morale oggettiva sostituita con l’amoralismo o la trasgressività (nichilismo morale).

I frutti del nichilismo

Quali sono i frutti del nichilismo? Il niente e il nulla. Infatti “ex nihilo nihil fit”. Se si toglie all’uomo la ragione, che è proprio ciò che lo rende uomo e diverso dall’animale, se gli si toglie la libera volontà e la morale oggettiva o la ricerca di un fine o scopo che coincide col Bene, se si cerca di distruggere la realtà (l’essere, la ragione e la libera volontà, lo scopo della vita e le regole che ce lo fanno raggiungere), si sprofonda l’uomo nel’apatia e nella disperazione, che sono i frutti della mancanza di un ideale e di uno scopo. Ora le piante sono dette buone o cattive a seconda dei frutti che producono. Quindi il nichilismo, producendo il nulla e l’annichilazione, è totalmente sterile e infruttuoso.

L’anti-decalogo di Nietzsche

Il maestro del nichilismo moderno è Nietzsche. Ora egli ha chiaramente enunciato i principi del nichilismo teoretico, che possono essere riassunti in una sorta di anti-Decalogo:
1°) in tutto ciò che accade non c’è alcun senso;
2°) col divenire non si giunge a nulla;
3°) quindi non c’è nessun valore e nessuna risposta al perché delle cose e dei fatti;
4°) Dio stesso (o meglio la sua idea) è morto e lo ha assassinato il mondo moderno, avendolo rimpiazzato con il Cogito (Cartesio), con il Sentimento o il Bisogno pratico (Kant) e con l’Idea o Io assoluto (Hegel);
5°) l’esistenza di Dio non è un ente reale, ma è il bisogno o la necessità che ha la coscienza dell’uomo di auto-ingannarsi per potere vivere anche se non vi è nessuno scopo di farlo e sopportare l’insensatezza dell’esistenza;
6°) la menzogna (Dio, l’essere, la ragione, il bene, il fine) è necessaria per continuare a vivere, essendo una sorta di fuga o di oppio di fronte al non-senso del mondo;
7°) le azioni umane in sé non hanno alcun valore, siamo noi che lo diamo loro a seconda dei nostri gusti;
8°) dunque non esiste una legge morale oggettiva e reale, ma solo soggettiva o della situazione;
9°) perciò non esistono azioni malvagie in sé;
10°) la cosa migliore sarebbe non essere mai nato, essere nulla, (che è lo stesso desiderio dei dannati nell’inferno: infatti quando si sprofonda nel nichilismo la vita diventa una specie di inferno).

Come i Dieci Comandamenti possono essere riassunti dall’amore soprannaturale di Dio e del prossimo propter Deum; così l’anti-Decalogo nicciano può essere riassunto in due anti-comandamenti principali:
a) se Dio non esiste tutto è permesso;
b) tranne il vero e il bene.

È la follia del mondo attuale, in cui tutto è lecito tranne ricercare la verità, conformarvisi ed agire in maniera moralmente conseguente, ossia bene. La sinderesi della post-modernità è dunque ribaltata: “fa il male ed evita il bene”.

La follia è divenuta la regola

I matricidi e parricidi o infanticidi, che oramai accadono frequentemente, non sono frutto del caso, ma l’effetto della cultura nichilistica che ha perso la sinderesi ed ha vinto la battaglia culturale del Sessantotto (v. Scuola di Francoforte e Strutturalismo francese). Certamente in tutte le epoche ve ne sono stati, ma oggi son diventai la regola, mentre ieri erano l’eccezione.

Padre Mondin ha scritto: «Non più Dio, ma l’uomo è contemplato come creatore della realtà. Hegel è il punto culminante e insuperabile della cultura moderna che parte da Occam: epoca che si consuma nell’ateismo o nichilismo assoluto, come esito dell’antropocentrismo o umanesimo assoluto; o Dio si identifica panteisticamente col mondo, oppure è negato [ateisticamente] o “ucciso” [nichilisticamente] come realtà oggettiva in sé e per sé esistente». Egli giustamente vede nel nichilismo l’esito ultimo del panteismo e propone la saggezza classica come terapia dei mali dell’uomo d’oggi.

Per confutare e guarire questa malattia dell’intelletto, che è iniziata con la modernità ed è arrivata al suo termine con la post-modernità, occorre dunque riconquistare i primi principi della metafisica dell’essere contrapposta al nichilismo odierno.

L’essere in sé è l’oggetto della metafisica, il nulla assoluto è l’oggetto del nichilismo

L’oggetto della metafisica è l’essere in sé, che designa l’atto puro, l’atto supremo, l’attualità di ogni altro atto, la massima perfezione o la perfezione di ogni altra perfezione.

L’essere in sé è puro da ogni potenza, imperfezione, limite: in breve è Dio. “L’essere in se stesso è infinito”. Se è mischiato o ricevuto in una potenza allora è atto misto ed è ente finito. Il nichilismo odia l’ente finito come partecipazione all’Essere sussistente proprio come il Maligno odia l’uomo in quanto creatura di Dio. Da ciò si scorge il carattere demoniaco del nichilismo postmoderno.

San Tommaso contro Nietzsche

Solo con la nozione tomistica di essere come perfezione suprema si può sconfiggere il nichilismo filosofico. Solo san Tommaso chiarisce esplicitamente che il nulla è non essere, mentre l’essere è la perfezione ultima che conferisce a tutti gli enti consistenza, realtà e attualità. Dunque occorre scegliere: o la metafisica tomistica dell’essere come atto ultimo e perfetto o la filosofia del non essere come nulla assoluto (nichilismo postmoderno). Per sconfiggere il nulla o il non-essere e il nichilismo che si fonda su di esso occorre basarsi sull’essere e sulla metafisica dell’essere.

Infatti solo l’essere come atto fa dell’ente qualcosa di reale, di esistente in atto, solo l’essere conferisce nobiltà, perfezione e capacità d’azione all’ente ed è per questo che il nichilismo attacca prima la realtà per giungere (si fieri potest) al Creatore. L’ente esistente è un’essenza che partecipa all’Essere. Di qui l’odio distruttore dell’ente creato, la fobia delle essenze e la furia deicida contro l’Essere sussistente.

Il metodo la via, il percorso o lo sforzo per raggiungere il fine della metafisica tomistica è la risalita dagli enti all’Essere per sé sussistente, dagli effetti, dal concreto, dall’esperienza alle cause e alla Causa prima, mediante argomentazioni raziocinative e dimostrative che si fondano su principi per sé noti o evidenti.

Il metodo del nichilismo, invece, è quello di distruggere gli enti (la realtà, la logica, la morale oggettiva), le cause, il ragionamento per risalire all’annichilazione dell’Essere per sé sussistente o alla “uccisione di Dio” e della morale naturale e divina (v. Nietzsche).

La prima parte, detta ascendente, della metafisica tomistica (la resolutio o ascesa dagli enti finiti all’Essere per essenza) si fonda sul concetto di partecipazione preso in senso passivo: ricevere una parte da qualcuno, ma in senso figurato e non materiale o fisico, ossia possedere o ricevere parzialmente o in maniera finita l’essere che a Dio spetta interamente, intrinsecamente o per sua natura. Il nichilismo odia questa partecipazione passiva e vorrebbe distruggere prima gli enti o gli effetti e poi l’Essere o la Causa prima. Anche qui non si può negare il carattere preternaturalmente maligno o infero della post-modernità. Non si può spiegare il nichilismo solo con la malvagità umana, senza l’intervento diabolico, “nichilismus habens satanam suggerentem/il nichilismo è ispirato da satana” ripeteva p. Reginaldo Garrigou-Lagrange.

La parte seconda, detta discendente, della metafisica tomistica, che riguarda la creazione o fuoriuscita degli enti dall’Essere per sé sussistente, si basa sul concetto di partecipazione inteso in senso attivo, ossia comunicare parzialmente qualcosa ad altri, nel caso l’Essere sussistente comunica o partecipa attivamente il proprio essere, non fisicamente o materialmente, ma parzialmente alle creature o enti finiti. Pure qui il nichilismo si attacca all’Essere per distruggere discendentemente e conseguentemente la realtà.

Il concetto di creazione ex nihilo (tanto mal sopportato dagli gnostici, dai manichei e dai nichilisti) è simile a quello di partecipazione. Infatti Dio concede, partecipa o dà alle creature o enti finiti in maniera limitata l’essere illimitato, che coincide con la sua natura.

Il nichilismo, il darwinismo, lo scientismo non accettano la creazione e la rimpiazzano con la volontà di potenza umana o con la scimmia (non a caso il diavolo è definito “la scimmia di Dio” dai Padri della Chiesa). Pur di negare la creazione si arriva a porre il nulla all’origine come causa di tutte le cose, anche se la sana ragione dice a tutti che dal nulla non viene nulla. “Nemo dat quod non habet”.

Una delle contraddizioni della post-modernità è il rifiuto della creazione ex nihilo da parte dell’Onnipotenza divina, mentre ammette ed è interamente finalizzata all’annichilazione della realtà da parte della “volontà di potenza” dell’uomo, che tuttavia non è onnipotente anche se lo presume.

Per cui la partecipazione fonda anche la dottrina dell’analogia o somiglianza dissomigliante, in cui la diversità è superiore alla somiglianza: tra Dio e le creature, tra causa ed effetto vi è analogia o somiglianza e dissomiglianza, ove la dissomiglianza è sostanziale ed è maggiore della somiglianza che è accidentale o relativa. Questa dottrina ci permette di studiare e parlare degli Attributi di Dio (Essere, Vero, Buono, Misericordioso, Giusto), i quali sono detti di Lui analogicamente ai nostri concetti, ossia in maniera sostanzialmente diversa e relativamente simile.

Ogni creatura è più o meno simile a Dio in virtù del suo atto di essere partecipato; ed è più o meno dissimile a Dio in sèguito alla sua essenza. Il nichilismo nega l’analogia poiché non vuol parlare né sentir parlare di Dio, anzi Lo vorrebbe uccidere e distruggere, di conseguenza, tutti gli strumenti che ci permettono di dire qualcosa di Lui in maniera imperfetta ma non totalmente sbagliata e fuorviante.

Il nichilismo odia e vorrebbe distruggere non solo l’ente per partecipazione ma anche le cose reali che ci circondano. Come si vede esso porta dritto dritto verso l’alienazione mentale.

Secondo la metafisica tomistica

1°) l’ente è ben distinto dall’essere come atto. Infatti “l’ente è ciò che ha, partecipa o riceve l’essere (quod habet esse)” (In I Sent., d. 37, q. 1, a. 1). In breve “l’ente è ciò che partecipa all’essere (quod participat esse) o lo riceve” (S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3).

2°) La ragione fondamentale della distinzione ens/esse è che mentre l’essere è puro atto (e questa è la sua natura di essere); l’ente è composto di atto (essere) e potenza (essenza), quindi l’ente è finito ed è composto o misto realmente di potenza ed atto (e questa è la sua natura di ente).

3°) L’essenza è ciò che pone dei confini all’essere (per esempio, l’essere se è ricevuto nell’essenza umana sarà essere umano e non essere infinito).

Quindi il nichilismo odia innanzitutto l’Essere, poi l’essenza, dunque l’ente ed infine l’esistenza.

Per l’Angelico il termine esistenza serve a significare l’appartenenza di qualche cosa al mondo reale, oggettivo, esterno al soggetto pensante. Infatti l’esistenza è un qualche cosa di reale (per esempio un sasso), che appartiene al mondo reale e non a quello delle idee. Questa appartenenza al mondo dell’esistenza reale sussiste allo stesso modo nei sassi, nei vegetali, negli animali, negli uomini, negli angeli e in Dio.

Quindi ciò che esiste è reale e non è una pura idea o ente logico. Perciò secondo i nichilisti va combattuta e distrutta anche l’esistenza reale delle cose attorno a noi e non solo l’essere come atto puro.

I tre pilastri della metafisica tomistica

La metafisica tomistica poggia su tre pilastri:

1°) l’essere come atto ultimo di ogni atto, di ogni sostanza e come perfezione di ogni perfezione;

2°) il principio di partecipazione letto alla luce della causalità efficiente;

3°) l’ente come essenza che riceve l’essere e lo limita.

Le tre trappole del nichilismo

Il nichilismo, che la scimmiotta e vorrebbe distruggerla, si fonda sui tre contro-pilastri seguente:

1°) il nulla come perfezione assoluta;

2°) la negazione della partecipazione e della causalità efficiente;

3°) l’odio distruttivo dell’ente, dell’essenze e dell’Essere, ossia del creato e del Creatore.

Attenzione! Il nichilismo è uscito dal fuoco dell’inferno e conduce ad esso. Quindi è questione di massima importanza disintossicarsi dal soggettivismo della modernità (da Cartesio a Hegel) e dal nichilismo della post-modernità (da Nietzsche allo Strutturalismo freudiano/sessantottino) per evitare la geenna e giungere a “riveder le stelle”.

Ritorno al tomismo

Come si vede la filosofia è la forza che muove il mondo, dietro tutte le eresie e quindi le rivoluzioni cruente vi sono degli errori filosofici, che possono sembrare inizialmente piccoli e insignificanti, ma “un piccolo errore all’inizio diventa grande alla fine” come il fiocco di neve che forma la valanga.

Dunque siccome “nulla è voluto se prima non è conosciuto” occorre studiare la metafisica tomistica per amarla e combattere e vincere il nichilismo che potrebbe distruggere completamente l’umanità se non si corre ai ripari con l’aiuto divino, poiché “questo genere di demoni non si scacciano se non con la preghiera e il digiuno”.

Marxismo grouchista

Nell’agosto del 1977 moriva Groucho Marx, attore, conduttore televisivo e radiofonico, scrittore, aforista, genio fulminante, il più grande della numerosa dinastia artistica di fratelli ebrei americani di famiglia povera. Ho sempre saputo di essere marxista. Nel senso di Groucho, naturalmente. Arrivo in ritardo, come spesso mi accade nella vita. Infatti, già nel mitico Sessantotto, sui muri di Parigi apparvero scritte del tipo “Je suis marxiste, tendance Groucho”. Gli allegri ragazzotti della Sorbona intendevano dissacrare l’austero Karl Marx, a cui pure si ispiravano, troppo serio e austero per la loro rivoluzione di carta, che voleva mandare al potere nientemeno che l’immaginazione e seppellire gli avversari con una risata.

Il comico americano Groucho Marx (1890-1977)
nella sua caratteristica posa con sigaro e occhiali

Groucho, certamente, in materia era più attrezzato di Karl. Forse, tra un evento situazionista, un happening e i primi trip, i viaggi a base di acido lisergico, i sessantottini avrebbero fatto meglio a diventare davvero marxisti della tendenza Groucho. I loro nipotini del terzo millennio, da tempo in cattedra, Groucho l’hanno preso troppo sul serio: pensiamo alla formidabile battuta sull’egoismo, il culto del presente, del successo qui e subito: “che cosa hanno fatto per me i posteri? “La rilanciò un altro attore ebreo di New York, Woody Allen, dissacrante, corrosivo anch’egli, ma senza la carica morale di Groucho unita all’allegria. Allen è un intelligente distruttore interno al sistema, allineato a tutti i luoghi comuni dell’Occidente terminale.

Groucho, fedele al suo nomignolo (brontolone, musone, questo significa il suo nome d’arte) manteneva una carica etica. Era figlio di tempi migliori e sapeva ridere anche di se stesso. Capì della grande depressione del 1929 più di mille intellettuali: “certi miei conoscenti persero milioni. Io fui più fortunato: persi solo duecentoquarantamila dollari. Avrei perso di più, ma quelli erano tutti i soldi che avevo “. Alla fine, Groucho Marx fu uno degli uomini più divertenti del secolo, ma sempre - come certi grandi del passato - sul filo dell’ironia: castigat ridendo mores. La sua autobiografia (Groucho ed io, una sana presa di distanza anche da se stesso!) è un canto di passione per la vita che andrebbe prescritto con ricetta obbligatoria al triste Occidente preda dell’odio di sé, della paura e dell’indifferenza.

Fu probabilmente l’unico comico citato da un monarca. La regina Elisabetta d’Inghilterra, che deve possedere grandi risorse di humour per reggere da quasi settant’anni la sua regale professione, così si espresse alla cerimonia per i suoi ottant’anni: “come una volta Groucho Marx disse: chiunque può invecchiare, tutto ciò che devi fare è vivere abbastanza a lungo”. Groucho tenne duro sino a 87 anni e il suo ultimo spettacolo fu per il giovane Elliott Gould. All’ospedale era pieno di tubi che lo tenevano in vita. Era debole, ma mise le dita sui tubi e li suonò per l’amico come fosse un clarinetto. La sua autobiografia è una specie di esilarante rovescio dell’Enchiridion di Epitteto, il manuale stoico che insegna a sopportare la vita: per quante miserie uno affronti, domani sorgerà nuovamente il sole.

Era un ingegnoso pirata pieno di apparenti stravaganze, capace di trovare rimedio alla noia, alla fame, ai mali del mondo. Fu una specie di Ulisse del XX secolo sbarcato a New York da un cavallo di Troia di intelligenza, umorismo, brillanti invenzioni, scoppiettanti giochi di parole. Meglio, assai meglio delle tremila e più pagine del Capitale del suo omonimo filosofo e rivoluzionario. Si ride con Groucho, ma c’è una morale che non diventa mai moralina o pistolotto moralistico. Certo, vedere all’opera da trent’anni il capitalismo assoluto, dispiegato senza rivali dopo la fine del comunismo e la sconfitte delle ideologie novecentesche, rivaluta il vecchio Karl Marx. Aveva le sue ragioni e forse persino buone intenzioni, ma del senno di poi son piene le fosse.

L’opera di Karl ebbe notevoli intuizioni, ma produsse danni incalcolabili senza risolvere alcuno dei problemi a cui pensava di dare soluzione. Certo, l’austero pensatore, dall’alto della barba fluente e degli studi profondi di una vita intera, non avrebbe mai detto, della sua opera, ciò che riconobbe Groucho della sua: “questo libro è stato scritto nelle lunghe ore che ho passato aspettando che mia moglie si vestisse per uscire. Se non si fosse vestita affatto, questo libro non sarebbe mai stato scritto.” Sublime distacco, una presa di distanza da se stesso da insegnare a troppi “intellettuali dei miei stivali” (copyright di Bettino Craxi).

Il corpus di idee del marxismo “grouchista” è ricco e fiorito, e le sue parole d’ordine, bene intese, servono per tutto, o quasi. E’ un credo libero che invita a diffidare dei santoni, dei sapienti, gli esperti che possiedono la soluzione per tutto e la mettono in vendita, come Dulcamara l’Elisir d’amore. Diffidò i lettori a non dare peso neppure a lui stesso: “le mie idee non valgono un fico secco, e non saranno di aiuto a nessuno “. Oh, se l’omonimo Karl avesse premesso alla sua poderosa opera omnia analoghe avvertenze! Tuttavia, Groucho aveva un elevato senso morale. Il relativismo montante, il cinismo della società del tornaconto ebbe da lui la sanzione della battuta più distruttiva: “questi sono i miei principi: se non le piacciono, ne ho altri “.

In realtà credeva nell’inviolabilità di certi principi. Forse, la migliore spiegazione della distinzione posta da Max Weber tra etica della convinzione ed etica della responsabilità – ovvero del calcolo – sta in uno sketch in cui Groucho in un bar chiede a una ragazza se andrebbe a letto con lui per una somma spropositata. La ragazza abbozza, capisce che è una domanda retorica e risponde affermativamente. Subito Groucho mette sul bancone dieci dollari e la invita a consumare il rapporto. “Per chi mi prende?” si offende lei, ma la controreplica è fulminante: “quello che è lei è molto chiaro; stiamo solo discutendo del prezzo “.

In maniera molto differente da Karl, anche Groucho si interessò di politica, pervenendo a conclusioni sorprendentemente moderne: la politica, disse, è l’arte di cercare problemi, trovarli, fare diagnosi false e applicare poi rimedi sbagliati “. Anticipò di quasi un secolo il male che corrode la democrazia in America e, per estensione, il resto dell’Occidente: “la menzogna è diventata una delle più importanti industrie d’America” Oltre alla biografia, si può capire il senso della vita di Groucho nelle sue lettere, numerose e importanti. Pur essendo quasi incolto, fu instancabile lettore e brillante autodidatta. “Ho sempre rimpianto di aver interrotto la mia educazione in quinta elementare. È piuttosto dura quando ti trovi lì nel gran mondo e cerchi di affettare un atteggiamento sofisticato. La padrona di casa potrebbe snocciolare teorie di Schopenhauer e Kafka. Tu al massimo potresti spingerti alla tabellina del sette”. Intrattenne corrispondenza con il grande poeta Thomas S. Eliot e numerosi altri.

E’ nota una sua concisa lettera alla rivista rosa Confidential. Tacque quando lo accusò di eccessivo interesse per ragazze molto giovani, perché era la verità, ma non si trattenne allorché scrisse che un suo programma televisivo era truccato. In quell’occasione dimostrò di essere un fuoriclasse: non minacciò querele né richiese risarcimenti. Si limitò a due righe: “egregi signori, se continuerete a pubblicare articoli diffamatori contro di me, mi vedrò costretto a cancellare il mio abbonamento “. Ecco perché sono un convinto marxista! Ebbe un teso scontro con la casa di produzione Warner Bros, a proposito del suo film Una notte a Casablanca, che, secondo i produttori, ledeva i loro diritti relativi al celeberrimo Casablanca con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. La risposta di Groucho (un vero marxista!) è un vertice dell’umorismo di ogni tempo contro la rapacità ed arroganza del mondo liberalcapitalista.

Citiamo due brani: “sembra che ci siano vari modi di conquistare una città e di tenerla sotto il proprio dominio Ad esempio, non avevamo la minima idea che la città di Casablanca appartenesse esclusivamente ai Fratelli Warner “Esilarante è la rivendicazione successiva del termine “fratelli”, sul filo dell’ironia sottile, ma anche del concetto “politico “, di proprietà intellettuale, di marchio, esclusiva, privativa industriale, tanto importante ai giorni nostri. “Le signorie vostre rivendicano la loro Casablanca e pretendono che nessuno utilizzi quel nome senza il loro permesso. Che mi dicono di Warner Brothers? Probabilmente, lor signori hanno il diritto di usare il nome di Warner, ma quello di fratelli (Brothers)? E’ anch’esso di vostra proprietà? Professionalmente, noi eravamo Fratelli molto prima di voi. Andavamo in tournèe come Fratelli Marx quando la Vitaphone era ancora un semplice bagliore nell’occhio dell’inventore e comunque anche prima di noi ci furono “fratelli”; gli Smith Brothers, fabbricanti di pastiglie contro la tosse, i Fratelli Karamazov e persino Dan Brothers, centrocampista del Detroit. “

Chi è il vero Marx, dunque: Karl o l’ebreo povero Groucho? La bibbia del marxismo grouchista si trova nei suoi film, ma anche nell’autentica medicina dello spirito della sua sapienza di aforista filosofico in veste di comico. Se siamo preoccupati per l’economia, non resta che attenersi alla modestia, alla frugalità e alla misura raccomandata da Groucho, non da Karl: “figlio mio, la felicità è fatta di piccole cose: un piccolo yacht, un piccolo castello, una piccola fortuna in dollari”. La lezione morale, mascherata dalle battute pirotecniche, sta in sentenze come “l’umanità, partendo dal nulla e a furia di tanto sforzo, è arrivata a raggiungere i più alti livelli di miseria”. American way of life. Ce n’ è anche per se stesso, per i matrimoni falliti: “mi ha sempre sposato un giudice. Devo avere sempre preteso una giuria”.

Il marxismo- grouchismo raggiunge anche il senso ultimo della vita. Gli amanti del cinema ricorderanno Hannah e le sue sorelle, un film di Woody Allen degli anni Ottanta. Il protagonista passa dalla gioia immensa di sapere che non è affetto da un cancro allo stadio terminale, all’abisso profondo di rendersi conto che, anche se non è stato oggi, domani ci sarà un finale. Tenta infruttuosamente con tutte le fedi disponibili (Allen rappresenta un mondo troppo superbo e intellettuale per riuscire a credere in Dio…). Deluso, decide di suicidarsi. Fallisce il colpo, si rifugia in un cinema che proietta La guerra lampo dei fratelli Marx. Il personaggio, Mickey Sachs, alter ego di Allen, comprende che la vita merita di essere vissuta. Al Marx buono bastano pochi fotogrammi per lanciare un messaggio potente: il paragone con il terribile mattone delle oltre tremila pagine del Capitale di quell’altro è impietoso.

I seguaci del ramo sbagliato dei Marx diranno che non ci può essere paragone intellettuale tra Karl e Groucho. E’ vero, ma sino a un certo punto. Carlo è un pilastro della storia delle idee e non si può capire la filosofia, la storia e la politica di un secolo e mezzo senza riservargli speciale attenzione. Tuttavia, chi può negare che causò lutti e tragedie? Groucho, peraltro, ebbe un suo spazio nel mondo intellettuale (ahi, con quale battuta fulminerebbe questa frase!), trattò con Salvador Dalì, con Eliot e molti autori, scrittori e critici. Da uomo di spettacolo, comprese presto il ruolo della televisione, di cui pure fu una stella. Affermò che la TV era una grande invenzione perché ogni volta che qualcuno la accendeva, egli cambiava stanza e si metteva a leggere un libro. Chissà che cosa avrebbe detto delle reti sociali, di Facebook e del pollice alzato del “mi piace”. Da straordinario aforista, sarebbe stato un genio di Twitter: quante sentenze, quante battute definitive avrebbe rinchiuso in centoquaranta caratteri di “cinguettio”.

Per ignoranza o invidia, qualcuno sarà convinto che essere marxisti grouchisti sia cosa triviale. Nulla di più lontano dalla realtà. Anzi, costa molta essere coerenti con i principi di questa anti setta, poiché il suo massimo comandamento è non prendersi mai troppo sul serio, riconoscere i propri limiti. Per farcela, bisogna stare sempre in guardia nei confronti di se stessi, prendere le distanze da Ego. Il nemico principale è la vanità, contro cui insorsero poeti come Ezra Pound e William H. Auden. Scrisse Ezra nei Canti Pisani: Strappa da te la vanità. Come son meschini i tuoi rancori/ nutriti di falsità. /Strappa da te la vanità, / Avido di distruggere, avaro di carità, / Strappa da te la vanità, / Ti dico strappala. “Nessuna vanità, ma l’orgoglio dell’azione: “Ma avere fatto in luogo di non avere fatto/ questa non è vanità. / Avere, con discrezione, bussato / Perché un Blunt aprisse / Aver raccolto dal vento una tradizione viva / o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata/Questa non è vanità. / Qui l’errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare. “ 

Auden osservò che l’uomo vuole essere libero e importante. Il dilemma, pensava, è che quanto più ci si emancipa dalla necessità, meno ci si sente importanti. Groucho lo sapeva e noi seguaci marxisti siamo portati a seguire il suo esempio: rinunciare ogni giorno a un po’ della nostra falsa importanza per guadagnarci un briciolo di vera libertà.

Groucho, infine, ne ebbe anche per le promesse di amore eterno, lui che fallì sentimentalmente, ma non credeva nei rapporti “liquidi “della postmodernità che – buon per lui- non arrivò a vedere. Famosi sono i suoi battibecchi con Margaret Dumont, storica partner, vittima prediletta della sue taglienti battute: “Da quando l’ho vista, signorina, ho invano cercato di stare lontano da lei, ma qualcosa in me echeggiava ininterrottamente, come un tam tam nella giungla. C’è qualcosa che vorrei chiederle, signorina: mi può lavare un paio di calzini? “

Marxista, sessista maschilista, forse eteropatriarcale. Quanti anni di carcere chiederebbe per te la psico polizia, amico Groucho, per questa battuta di spirito tanto politicamente scorretta?

(Roberto Pecchioli, Sono marxista! Di Groucho Marx..., Accademia Nuova Italia)

Israele-Emirati?

L'efficace, graffiante ironia di Andrea Zanardo su Informazione Corretta:

L'annuncio dell'apertura di relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti segna l'inizio di una nuova drammatica fase. La dimostrazione che lo Stato ebraico può raggiungere accordi con Stati arabi o musulmani desta grave preoccupazione tra i sostenitori della pace, della distensione, dell'antirazzismo, tra giornalisti ed accademici che per decenni hanno duramente lavorato per convincere l'opinione pubblica del contrario. Abbiamo provato in ogni modo a raccontare che la pace con i palestinesi era essenziale per stabilire buone relazioni tra Occidente ed Islam, e per fermare ogni deriva razzista, ed ora quel sionista di Netanyahu, con intrighi e losche manovre tipiche della sua razza, ha rovinato la nostra immagine di esperti di cui la politica non può fare a meno Questo è intollerabile!

"Accordo di Abramo". Le bandiere degli Emirati Arabi
e di Israele sventolano sul Ponte della Pace
nella città israeliana di Netanya

L'opinione pubblica potrebbe scoprire che la pace è possibile anche se Israele continua ad essere uno Stato ebraico e a rifiutarsi di accogliere otto milioni di sedicenti profughi palestinesi. L'opinione pubblica potrebbe essere pensare che la pace tra Israele e Paesi arabi è possibile anche se Israele continua con la linea dura ed intransigente, rifiutandosi di cancellare la maggioranza ebraica e di ridurre gli ebrei, come da tradizione, a cittadini di seconda categoria. L'opinione pubblica potrebbe essere ingannevolmente persuasa che i benefici economici derivanti da un accordo di pace con Israele, portano benessere alla popolazione, più dello stato di guerra permanente contro Israele e gli ebrei di tutto il mondo.

I sostenitori della pace devono quindi respingere l'accordo di pace tra Israele ed Emirati. I sostenitori del progresso devono respingere i benefici che la tecnologia israeliana può portare a Paesi dal clima desertico. I sostenitori del multiculturalismo si devono opporre a ogni accordo tra ebrei e musulmani, fino a quando Israele non verrà pacificamente sostituito da uno Stato arabo, socialista, pacifico e prospero come la vicina Siria.

Diamo quindi appuntamento per una manifestazione davanti alla sinagoga, visto che non siamo assolutamente antisemiti, in nome di una vera pace antirazzista che preveda la punizione degli Emirati e la cancellazione di Israele.

Femministe per l'Infibulazione
Macellai Vegani
Allievi del Maestro Leonardo
Astronauti per la Terra piatta
Ebrei antisionisti
Parrocchia Sant'Enrico Berlinguer
Collettivo Islamista Ayatollah Khomeini per la parità uomo-donna

Le bionde trecce

È stato Reche a osservare che mai i Greci avrebbero adoprato la parola “arcobaleno” (iris) per designare l’iride della pupilla (come i Tedeschi: Regenbogenhaut = iride) se avessero avuto occhi scuri. Solo un popolo con occhi azzurri, o grigi, o verdi può chiamare l’occhio “arcobaleno”: il prisco ceppo degli Elleni apparteneva perciò alla razza nordica.

Frequenti nelle fonti greche sono gli aggettivi xanthòs e xoutòs “biondo”, pyrrhòs “fulvo” e chrysoeidés “aureo”, riferiti ai capelli di uomini o Dei, aggettivi che corrispondono perfettamente al latino flavus, fulvus e auricomus. Diffuse anche espressioni come chrysokàrenos “testa bionda”, o chrysokóme “chioma d’oro”. Lo stesso progenitore degli Ioni e degli Achei sarebbe stato Xoutòs, “il biondo”, fratello di Doro e figlio di Elleno, mitico capostipite della stirpe greca. Che xanthòs significhi veramente “biondo” è rilevabile da Pindaro che chiama xanthos il leone, Bacchilide il colore del grano maturo (III, 56) mentre Platone nel Timeo (68 b) ci spiega che xanthòs (il giallo) si ottiene mescolando “lo splendente col rosso e col bianco” e Aristotele (Dei colori, I, I) afferma che il fuoco e il sole van detti xanthòs.


Che i bambini dei Germani ai Greci già snordizzati apparissero “canuti” non sorprenderà se si tiene presente quel biondo platino quasi bianco di cui sono spesso i capelli dei bambini di pura razza nordica. Il significato di xanthòs come “biondo” ci è dato da qualunque dizionario greco. Come è stato spesso notato, gli eroi e gli dei d’Omero sono biondi: Achille, modello dell’eroe acheo, è biondo come Sigfrido, biondi sono detti Menelao, Radamante, Briseide, Meleagro, Agamede, Ermione. Elena, per cui si combatte a Troia, è bionda, e bionda è Penelope nell’Odissea. Peisandro, commentando un passo dell’Iliade (IV, 147), descrive Menelao xanthokòmes, mégas én glaukòmmatos “biondo, alto e con gli occhi azzurri”.

Karl Jax ha osservato che tra le dee e le eroine d’Omero non ce n’è una che abbia i capelli neri. Odisseo è l’unico eroe omerico bruno, ma l’abitudine a ritrarre gli eroi biondi è così forte che in due passi dell’Odissea (Xlll, 397, 431) anche lui è detto xanthòs. E, d’altronde, Odisseo si differenzia anche per i suoi caratteri psicologici, segnatamente per la sua astuzia: Gobineau vedeva in lui l’eroe “nella cui genealogia il sangue dei guerrieri achei si è fuso con quello di madri cananee”. In genere però, il disprezzo dei Greci d’epoca omerica per il tipo levantino, è scolpita dal loro disprezzo per i Fenici, bollati come “uomìni subdoli”, “arciimbroglioni” (Iliade XIX, 288). Tra gli dei omerici, Afrodite è bionda, come pure Demetra. Atena è, per eccellenza, “l’occhicerulea Atena”. Il termine adoperato è glaukopis, che certo è in relazione anche col simbolismo della civetta, sacra alla dea (glaux = civetta: occhi scintillanti, occhi di civetta), ma che in senso antropomorfico vale “occhicerulea”: Aulo Gellio (Il, 26, 17) spiega glaucum con “grigio-azzurro” e traduce glaukopis con caesia die Himmelbluaugige“. Pindaro completa il ritratto omerico della dea chiamandola glaukopis e xanthà. Apollo è phoibos “luminoso, raggiante” e anche xoutòs. Era, sposa di Zeus e modello della matrona ellenica, è leukòlenos, “la dea dalle bianche braccia”, tipico tratto della bellezza femminile della razza nordica.

Bianche braccia, piedi d’argento, dita rosate, e altri caratteristici aggettivi che rimandano a un colorito chiaro, sono frequenti nei poemi omerici. Anche Esiodo ci parla d’eroi e di dei biondi: biondo è Dioniso, bionda Arianna, bionda Iolea. La connessione dei canoni estetici d’età arcaica con l’ideale nordico si ricava anche dall’importanza attribuita all’altezza: kalos kai mégas sono due aggettivi che van sempre insieme. Nella descrizione di Nausicaa e di Telemaco nell’Odissea, si sente che l’alta statura è quasi sinonimo di nobile nascita. E’ lo stesso modo di sentire del nostro Medioevo, che ha dipinto tutte le donne bionde e che poneva come condizione della loro bellezza la grandezza della persona (“grande, bianca e fina”), anch’esso per l’influenza d’una aristocrazia d’origine nordica, germanica. In epoca classica, nomi come Leukéia, Leukothea, Leukos, Seleukos (da leukòs “Bianco”) alludono al colorito chiaro, così come Phrynos e Phryne a pelli bianche e delicate, come anche i nomi Miltos, Miltìades, e Milto. Galatéia (da gàla-gàlaktos =latte) è “quella dalla pelle di latte”. Rhodope e Rhodopìs quelle dalla “pelle di rosa”. Non rari i nomi Xanthòs, Xuthìas, Xanthà, come anche Phyrros “fulvo” (da pur = fuoco) e Pyrrha sposa di Deucalione e mitica progenitrice del genere umano.

Verosimilmente le stirpi doriche, ultime venute dal settentrione, e in particolare gli Spartiati, rigorosamente separati dal popolo, dovettero serbare a lungo caratteri nordìci. Ancora nel V secolo, Bacchilide loda le “bionde fanciulle della Laconia”; due secoli prima Alcmane, nel famoso frammento (54) aveva cantato la fanciulla spartana Agesicora “col capo d’oro fino e dal volto d’argento”. Anche le abitudini sportive delle Spartane, il loro costume di fare ginnastica insieme con gli uomini, ci parlano d’una femminilità acerba e atletica che meglio s’immagina in fanciulle di razza nordica che in quelle di razza mediterranea. Eustazio, (IV, 141) vescovo di Salonicco, commentando un passo dell’Iliade, ricordava come la biondezza avesse fatto parte dell’essere spartano. La cosiddetta “fossa dei Lacedemoni” ci ha restituito gli scheletri di 13 Spartani appartenenti alla guarnigione messa in Atene alla fine della guerra del Peloponneso: tre sono quelli di uomini molto alti (1,85; 1,83; 1,78), gli altri di statura superiore alla media, il più piccolo misura 1,60. Breitinger, che ha studiato questi resti scheletrici, rinviene in essi, “almeno una forte impronta nordica”. Ricorderemo che Senofonte segnalava l’alta statura dei Spartani.

Anche le stirpi ioniche, nonostante risiedessero da più tempo sulle rive del Mediterraneo – fatto che aveva condotto a una notevole mescolanza dell’elemento nordico con quello occidentale-mediterraneo – dovettero serbare, specie nell’aristocrazia, un certo ideale nordico. Nel cimitero del Dypilon, in età geometrica, si nota un incremento di brachicefali centroeuropei a spese dei dolicocefali mediterranei. Non si dimentichi che il geometrico nasce in Attica, esattamente come il gotico nasce in Francia, e così come sarebbe incauto affermare che la Francia non sia stata germanizzata solo perché la lingua è rimasta latina, così sarebbe azzardato sostenere che la migrazione dorica non abbia penetrato l’Attica. Nel VII secolo Solone ci parla d’un Crizia – antenato di Platone – coi capelli biondi, xantothrix, e Platone stesso nel Liside e nella Repubblica ci parla della biondezza come qualcosa di non particolarmente raro. I tragici d’età classica, e particolarmente Euripide, ci mostrano una quantità d’eroi e d’eroine bionde. Nelle Coefore di Eschilo (v. 176, 183, 205) la bionda Elettra rinviene un capello biondo presso il sepolcro del padre, e, poco più in là, ravvisa un’orma del piede particolarmente grande e ne deduce che debba trattarsi di suo fratello. Ridgeway per primo suppose che la saga d’Elettra serbasse un’eco della contrapposizione d’una aristocrazia nordica molto più alta delle plebi mediterranee. Nell’Elettra di Euripide (v. 505 e sgg.) apprendiamo che la biondezza è caratteristica degli Atridi, e nell’Ifigenia in Tauride Ifigenia (52/53) ricorda il padre Agamennone “col crine biondo ondeggiante sul capo”. Lo stesso Euripide ci mostra biondi Eracle, Medea, Armonìa.

Il Sieglin ha notato che nei livelli dell’Acropoli inferiori alla distruzione persiana si trovano costantemente statue con capelli dipinti d’ocra gialla o rossa e occhi in verde pallido: è noto il famoso “efebo biondo”. In genere, in tutta l’epoca classica, si mantenne l’usanza di dipingere di biondo i capelli delle statue: Filostrato, nel suo libro sulla pittura (Eikones), scrive che “la pittura dipinge un occhio grigio, l’altro azzurro o nero, i capelli gialli, o rossi, o fulvi”.

Anche la grande Athena Parthenos che sorgeva accanto al Partenone era bionda, ed è stato osservato che l’arte crisoelefantina sorge per ritrarre un’umanità fondamentalmente chiara. Il tipo ritratto dalla plastica ellenica è essenzialmente nordico: “Nelle figure maschili, la grandezza d’animo (megalopsychìa) d’un tipo umano superiore e capace d’una contemplatività spassionata, in quelle femminili il nobile ritegno, l’acerba e pudica ritrosia d’un’anima nobile di razza nordica”. Anche le statuette di Tanagra, analizzate dal Sieglin, si rivelano bionde al 90%, il che non ci sorprenderà gran ché se Eraclido Critico ancora nel III secolo scriveva delle donne della beotica Tebe: “Sono per la grandezza dei corpi, l’andatura e i movimenti, le donne più perfette dell’Ellade. Hanno capelli biondi che portano annodati sul capo” (Bios Hellados, 1, 19).

Una particolare biondezza delle tebane non meraviglia se si considera la penetrazione tracia nell’area eolica, successiva alla migrazione dorica e connessa all’introduzione della cavalleria, le cui tracce linguistiche si avvertono anche oltre l’Adriatico, tra gli Iapigi. Teodorida di Siracusa (Antologia Palatina, VII, 528 e) ci descrive le fanciulle della beotica Larissa che si tagliano le bionde chiome per la morte d’una concittadina. Anche la colonizzazione eolica avrà diffuso caratteri nordici se si pensa che Saffo chiama la figlia Cleide chryseos (frammento 82). La stessa Saffo è chiamata da Alceo (framm. 63) ioplokos, “col crine di viola”, che viene comunemente tradotto “bruna”. In realtà, come ha mostrato il Sieglin, prima del IV secolo, epoca che segna il disseccamento dell’Ellade e la scomparsa dei boschi, in Grecia esisteva solo la specie gialla della viola (viola biflora), quella stessa che oggi cresce in Baviera e in Tirolo. Ióplokos va tradotto perciò con “bionda”: che Saffo fosse “piccola e nera” (mikrà kai mélaina) è una tarda leggenda.

Che anche la grecità di Sicilia avesse con sé caratteri nordici potrebbero suggerirlo quelle fonti che ci descrivono Dionigi, tiranno di Siracusa, biondo e con le lentiggini. In genere, la menzione di tanti biondi tra le figure d’un certo rango, convalida l’idea del Sieglin che blond galt als vornehm. In genere, nel V secolo la biondezza doveva esser ancora sentita come qualcosa di tipico per il vero elleno se Pindaro, nella nona Ode Nemea (v. 17), rivolto agli Argivi presenti, celebra i “biondi Danai”. D’altronde. ancora Callimaco (Inni V, 4), due secoli dopo, poteva esortare le donne di Argo: “affrettatevi, affrettatevi o bionde pelasghe!”. Bacchilide, nell’ode a un vincitore degli stessi giochi nemei, loda i mortali, uomini dell’Ellade tutta, che “con la triennale corona velano le teste bionde”. Lo stesso Bacchilide, in un frammento (V, 37 e sgg.), menziona dei “biondi vincitori” xanthotricha nikasanta.

La grande arte classica, che data da questo secolo, ha ritratto quel tipo alto, con tratti fini e regolari, che è proprio della razza nordica, e quale oggi si può trovare compattamente solo in alcune regioni contadine della Svezia. Anche la razza mediterranea ha tratti regolari, ma è di piccola statura, e quell’impronta più fiera, quel modellato più energico del naso e del mento che fanno la fisionomia classica, sono da ricondursi alla razza nordica: “Ancora Aristotele scrive nella sua Etica Nicomachea che per la bellezza si richiede un corpo grande, di un corpo piccolo sì può dire che sia grazioso e ben fatto ma non propriamente bello. Questo corpo piccolo e grazioso è essenzialmente quello mediterraneo, come appare a uomini di sentire nordico. Per la sensibilità nordica il contenuto fisico e spirituale della razza mediterranea non è sufficiente ad attingere la vera ‘bellezza’, perché qui per la bellezza si richiede una certa gravità interiore, una grandezza d’animo che dai Greci di sensibilità nordica fu sintetizzata nel concetto della megalopsychìa… La figura mediterranea agli occhi dell’uomo nordico apparirà sempre troppo leggera e troppo inconsistente perché i suoi tratti fisici siano ammirati come “belli”.

Nordiche sono la metriótes, la misurata dignità, la enkrateia, la padronanza di sé, la sofrosyne, la coscienziosa ragionevolezza, in cui lo spirito greco ravvisò la sua essenza profonda. L’apollineo e il dionisiaco, questi due poli della civiltà ellenica esplorati da Nietzsche, altro non sono che l’anima nordica delle élites indoeuropee e la sensibilità spumeggiante delle plebi mediterranee.

Dionisiaco è l’entusiastico, lo spumeggiante, il piacere chiassoso e l’indomita ferocia dell’antico Mediterraneo; apollineo il tono sublime, la saggia ponderazione, la pronta decisione del Nord. Ma è proprio nel V secolo, estremo equilibrio dello spirito greco, che la bilancia s’inclina. La crisi delle aristocrazie maturava già da almeno un secolo e Teognide – che in un frammento ricorda la sua gioventù, quando “i biondi riccioli gli cadevan dal capo” – aveva già maledetto la mescolanza del sangue, rovina delle antiche schiatte. Il ceto dirigente ateniese andava incontro alla snordizzazione per l’afflusso di sangue meteco, plebeo, levantino. La conseguenza ne era il volgersi dei migliori ateniesi al modello spartano. Senofonte addirittura si trasferì a Sparta. Platone laconeggiava nella sua Repubblica, dove l’élite dei capi è educata come gli Spartiati, e dove il nuovo stato poggia sull’eugenetica (unire i migliori ai migliori, sopprimere i minorati, etc.) sì che l’ideale finale si configura come allevamento di fanciulli secondo il modello dell’uomo perfetto, e guida dello Stato da parte di un gruppo scelto per un tale compito.

Ma anche Sparta non superò indenne il conflitto peloponnesiaco, che ferì a morte la sua nobiltà guerriera non meno di quel che la seconda guerra mondiale non abbia logorato quella tedesca. E’ un fatto facilmente constatabile che all’eliminazione del sangue più nobile – e da parte lacedemone era il sangue, preziosissimo, dei nordici Spartiati – abbia considerevolmente contribuito la guerra del Peloponneso. Alla battaglia di Leuttra, gli Spartiati finirono col dissanguarsi completamente, sì che quello spartano poteva rispondere ai soldati tebani entrati in Sparta che chiedevano “Dove sono dunque gli Spartani”: “Non ve ne sono più, se no voi non sareste qui adesso”. Il IV secolo è ancora un’epoca di splendore. Ma c’è nella sua luce qualcosa di più caduco e raffinato che sta come la grazia morbida dell’Hermes di Prassitele alle figure acerbamente eroiche dell’arcaismo e a quelle maturamente solari del secolo V. In esso è l’elemento mediterraneo che torna a parlare. In tutti questi caratteri, è stata giustamente ravvisata la presenza di una specie umana più leggera e più leggiadra.

Di fronte a un’Ellade così fortemente snordizzata, non meraviglia che alla fine del IV secolo l’egemonia sia passata alle regioni periferiche, alla Macedonia. I Macedoni, consanguinei dei Dori, il cui nome dovrebbe significare “gli alti”, dovevano conservare, accanto a una monarchia e a un contadinato patriarcali, l’acerbità nordica delle origini. Alessandro, coi suoi occhi azzurri scintillanti, con la pelle così rosea e delicata che lo si poteva vedere arrossire anche sul petto, è una figura nordica. I Macedoni costituirono l’estrema riserva della grecità, che permise nella fase declinante della sua cultura – di espandere la sua civilizzazione per tutto l’Oriente. Una certa fisionomia nordica dovette conservarsi a lungo nell’aristocrazia macedone. Stratonica, figlia di Demetrio Poliorcete e moglie di Seleuco I, era bionda, biondo era Tolomeo Filadelfo, come pure la sorella Arsinoe, “simile all’aurea Afrodite”. In tutta l’epoca ellenistica, l’ideale femminile continuò ad incentrarsi sulla xanthótes, sulla biondezza. Ce lo ricordano i poeti (Apollonio Rodio, l’Antologia Palatina etc.), il famoso epigramma “Eros ama lo specchio e i biondi capelli”, come pure il fatto che tutte le etere d’alto rango d’epoca ellenistica (Doride, Calliclea, Rodoclea, Lais) erano bionde. La frase… ‘i signori preferiscono le bionde’ vale anche per il mondo maschile delle città ellenistiche.

Wilhelm Sieglin, che si è preso la pena di andare a scovare tutti i passi delle fonti greche dove si parli del colore degli occhi e dei capelli, ha potuto dimostrare che dei 121 personaggi della storia greca di cui gli autori ci descrivono i caratteri fisici, 109 sono biondi, e solo 13 bruni. Lo stesso Sieglin ha raccolto le descrizioni dei personaggi della mitologia: delle divinità, 60 hanno capelli biondi, e solo 35 capelli scuri (di cui 29 numi del mare o degli inferi); degli eroi delle saghe, 140 sono biondi e 18 han capelli neri; dei personaggi poetici, 41 biondi e 8 neri. Da tutto ciò sarebbe eccessivo dedurre che in tutte le epoche della storia greca i biondi siano stati in così schiacciante maggioranza. Certo è però che erano numerosi e, soprattutto, davano il tono alla classe dirigente.

Che un certo ideale nordico contrassegnasse il vero elleno fino ai tempi più tardi, potrebbe confermarlo questa notizia del medico ebreo Adimanto, vissuto all’epoca dell’Impero Romano. Egli scrive (Physiognomikà, 11, 32): “Quegli uomini di stirpe ellenica o ionica che si son conservati puri, sono di statura abbastanza alta, robusti, di corporatura solida e dritta, con pelle chiara e biondi… La testa è di media grandezza, la pelosità corporea inclinante al biondo, fine e delicata, il viso quadrato, gli occhi chiari e lucenti … “. E tuttavia, il romano Manilio ormai ascriveva i Greci alle coloratae gentes. Con la scomparsa della biondezza naturale, erano divenuti di moda i mezzi artificiali di colorazione dei capelli, i xanthìsmata. Il verbo xanthìzestai, “tinger di biondo”, passò ad indicare l’adornarsi, il “farsi belli” per eccellenza. Ma non eran questi mezzi che potevano arrestare il processo di snordizzazione del mondo ellenico. Il tipo dell’elleno si avviava ormai ad estinguersi. Ad esso succedeva il graeculus, lo schiavo astuto o lo scaltro retore, il trafficante o la guida turistica, segnato dal marchio di quella furbizia levantina che lo fecero sentire dai Romani come “inferiore”.

(Tratto da Adriano RomualdiGli Indoeuropei. Origini e migrazioni e dal sito Centro Studi Laruna)

Canto dell'esistente

La filosofia di San Tommaso merita attento studio ed accettazione convinta da parte della gioventù dei nostri tempi, a motivo del suo spirito di apertura e di universalismo, caratteristiche che è difficile trovare in molte correnti del pensiero contemporaneo. Si tratta dell’apertura all’insieme della realtà in tutte le sue parti e dimensioni, senza riduzioni o particolarismi (senza assolutizzazioni di aspetti singoli), così come è richiesto dall’intelligenza in nome della verità obiettiva e integrale, concernente la realtà. Apertura, questa, che è anche una significativa nota distintiva della fede cristiana, della quale la cattolicità è contrassegno specifico. Questa apertura ha il suo fondamento e la sua sorgente nel fatto che la filosofia di San Tommaso è filosofia dell’essere, cioè dell’“actus essendi”, il cui valore trascendentale è la via più diretta per assurgere alla conoscenza dell’Essere sussistente e Atto puro, che è Dio. Per tale motivo, questa filosofia potrebbe essere addirittura chiamata filosofia della proclamazione dell’essere, il canto in onore dell’esistente.

Tommaso d'Aquino, 1225-1274

Da questa proclamazione dell’essere la filosofia di San Tommaso deriva la sua capacità di accogliere e di “affermare” tutto ciò che appare davanti all’intelletto umano (il dato di esperienza, nel senso più largo) come esistente determinato in tutta la ricchezza inesauribile del suo contenuto; essa deriva, in particolare, la capacità di accogliere e di “affermare” quell’“essere”, che è in grado di conoscere se stesso, di meravigliarsi in sé e soprattutto di decidere di sé, e di forgiare la propria irripetibile storia... A questo “essere”, alla sua dignità pensa San Tommaso quando parla dell’uomo come di qualcuno che è “perfectissimum in tota natura” (S. Tommaso, Summa theologiae, I, q. 29, a. 3), una “persona”, per la quale egli postula un’attenzione specifica ed eccezionale. E detto così l’essenziale circa la dignità dell’essere umano, anche se rimane ancora molto da indagare in questo campo, con l’aiuto delle riflessioni stesse offerte dalle correnti filosofiche contemporanee.

Da questa affermazione dell’essere la filosofia di San Tommaso attinge anche la sua autogiustificazione metodologica, come di disciplina irriducibile a qualsiasi altra scienza, ed anzi tale da trascenderle tutte ponendosi nei loro confronti come autonoma e insieme come di esse completiva in senso sostanziale. 

Ancora, da questa affermazione dell’essere la filosofia di San Tommaso deriva la possibilità ed insieme l’esigenza di oltrepassare tutto ciò che ci è offerto direttamente dalla conoscenza in quanto esistente (il dato di esperienza) per raggiungere l’“ipsum Esse subsistens” ed insieme l’Amore creatore, nel quale trova la sua spiegazione ultima (e perciò necessaria) il fatto che “potius est esse quam non esse” e, in particolare, il fatto che esistiamo noi... “Ipsum enim esse – sentenzia l’Angelico – est communissimus effectus, primus et intimior omnibus aliis effectibus; et ideo soli Deo competit secundum virtutem propriam talis effectus” (S. Tommaso, Quaestiones disputatae De Potentia, q. 3, a. 7 c).

San Tommaso avviò la filosofia sulle tracce di tale intuizione, indicando contemporaneamente che solo su questa via l’intelletto si sente a proprio agio (come “a casa propria”) e che perciò a questa via l’intelletto non può assolutamente rinunciare, se non vuole rinunciare a se stesso.

Ponendo come oggetto proprio della metafisica la realtà “sub ratione entis”, San Tommaso indicò nell’analogia trascendentale dell’essere il criterio metodologico per formulare le proposizioni circa l’intera realtà, ivi compreso l’Assoluto. È difficile sopravvalutare l’importanza metodologica di questa scoperta per l’indagine filosofica, come, del resto, anche per la conoscenza umana in generale.

È superfluo sottolineare quanto debba a questa filosofia la stessa teologia, non essendo essa null’altro che “fides quaerens intellectum” o “intellectus fidei”. Neppure la teologia, quindi, potrà rinunciare alla filosofia di San Tommaso.

Si dovrà forse temere che l’adozione della filosofia di San Tommaso abbia a compromettere la giusta pluralità delle culture e il progresso del pensiero umano? Un simile timore sarebbe manifestamente vano, perché la “filosofia perenne”, in forza del principio metodologico menzionato, secondo cui tutta la ricchezza di contenuto della realtà ha la sua sorgente nell’“actus essendi”, ha, per così dire, in anticipo il diritto a tutto ciò che è vero in rapporto alla realtà. Reciprocamente, ogni comprensione della realtà – che effettivamente rispecchi questa realtà – ha pieno diritto di cittadinanza nella “filosofia dell’essere”, indipendentemente da chi ha il merito di aver consentito tale avanzamento nella comprensione ed indipendentemente dalla scuola filosofica alla quale egli appartiene. Le altre correnti filosofiche, pertanto, se le si guardi da questo punto di vista, possono, anzi debbono essere considerate come alleate naturali della filosofia di San Tommaso, e come partners degni di attenzione e di rispetto nel dialogo che si svolge al cospetto della realtà e in nome di una verità non monca su di essa. Ecco perché l’indicazione di San Tommaso ai discepoli nell’“Epistula de modo studendi”: “Ne respicias a quo sed quod dicitur”, deriva tanto intimamente dallo spirito della sua filosofia. [...].

Ma v’è un’altra ragione che assicura la perenne validità della filosofia di San Tommaso: è la preoccupazione dominante della ricerca della verità. “Studium philosophiae – scrive l’Aquinate commentando il suo filosofo preferito, Aristotele – non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas” (S. Tommaso, De caelo et mundo, I, lect. 22, ed. R. Spiazzi, n. 228).

Ecco perché la filosofia di San Tommaso eccelle per il suo realismo, la sua obiettività: è la filosofia “de l’être et non du paraître”. La conquista della verità naturale, che ha la sua sorgente suprema in Dio Creatore, come la verità divina l’ha in Dio Rivelatore, ha reso la filosofia dell’Angelico sommamente idonea ad essere l’“ancilla fidei”, senza svilire se stessa e senza restringere i suoi campi d’indagine, ma, al contrario, acquistando sviluppi impensabili dalla sola ragione umana.

Perciò il Sommo Pontefice Pio XI, di s.m., pubblicando l’Enciclica Studiorum Ducem, in occasione del VI Centenario della Canonizzazione di San Tommaso, non esitò di affermare: “In Thoma honorando maius quiddam quam Thomae ipsius existimatio vertitur, id est Ecclesiae docentis auctoritas” (Pio XI, Studiorum Ducem: AAS 15 [1923] 324).

San Tommaso, in realtà, ha saputo illuminare con la sua “ratio fide illustrata” (Concilio Vaticano I, Dei Filius, cap. 4: Denz.-S. 3016), anche i problemi riguardanti il Verbo Incarnato, “Salvatore di tutti gli uomini” (S. Tommaso, Summa theologiae, III, Prol.). Sono i problemi a cui ho accennato nella mia prima Enciclica Redemptor Hominis, dove ho presentato Cristo come “Redentore dell’uomo e del mondo, centro del cosmo e della storia... via principale della Chiesa” per tornare “alla casa del Padre” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 1; 8; 13). È questo un argomento di primissimo ordine per la vita della Chiesa e per la scienza cristiana. Non è forse la Cristologia il fondamento e la prima condizione per l’elaborazione di una antropologia più completa, secondo le esigenze dei nostri tempi? Non dobbiamo, infatti, dimenticare che Cristo soltanto “svela pienamente l’uomo all’uomo” (cf. Gaudium et Spes, 22).

San Tommaso ha inondato altresì di luce razionale, purificata e sublimata dalla fede, i problemi concernenti l’uomo: la sua natura creata ad immagine e somiglianza di Dio, la sua personalità degna di rispetto fin dal primo istante del suo concepimento, il destino soprannaturale dell’uomo nella visione beata di Dio Uno e Trino. In questo punto dobbiamo a San Tommaso una definizione precisa e sempre valida di ciò in cui consiste la sostanziale grandezza dell’uomo: “Ipse est sibi providens” (cf. S. Tommaso, Contra Gentes, III, 81).

L’uomo è padrone di se stesso, può provvedere a se e progettare il proprio destino. Questo fatto, tuttavia, considerato in se stesso, non decide ancora della grandezza dell’uomo e non garantisce la pienezza della sua autorealizzazione personale. Decisivo è solamente il fatto che l’uomo si sottometta nel suo agire alla verità, che egli non determina ma scopre soltanto nella natura, datagli insieme con l’essere. Dio è colui che pone la realtà come creatore e la manifesta sempre meglio come rivelatore in Gesù Cristo e nella sua Chiesa. Il Concilio Vaticano II, qualificando questa autoprovvidenza dell’uomo “sub ratione veri” col nome di ministero regale (“munus regale”), attinge nella sua profondità questa intuizione.

È questa la dottrina che io mi sono proposto di richiamare e di aggiornare nell’Enciclica Redemptor Hominis, indicando nell’uomo “la prima e fondamentale via della Chiesa” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 14).