"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Declino della scuola (e dell'Italia)

Abbiamo già parlato altre volte, su queste pagine, di emergenza educativa.

Grazie non poco alla sua scuola – in particolare grazie alle sue maestre che per prime affrontarono l’ignoranza nazionale – l’Italia del Novecento, partita da condizioni miserabili, arrivò a essere tra le principali economie del mondo. Ma oggi quella stessa scuola è lo specchio del declino del paese. Abbandonata dalla politica con la scusa dell’«autonomia», essa appare sempre più dominata dal conformismo intellettuale, da un’inconcludente smania di novità e da un burocratismo soffocante che ne stanno decretando la definitiva irrilevanza sociale.

Nel suo libro L'aula vuota: come l'Italia ha distrutto la scuola (Marsilio, 2019), Ernesto Galli della Loggia cerca di comprenderne le ragioni sullo sfondo della nostra storia indagando le origini e l’impatto, deludente quando non distruttivo, che hanno avuto le riforme succedutesi negli ultimi decenni e smontando le interpretazioni più convenzionali su cosa fecero o dissero veramente personaggi chiave come Giovanni Gentile e don Lorenzo Milani.

Chi l’ha detto che cambiare sia sempre meglio di conservare? E che la prima cosa sia necessariamente di sinistra e la seconda di destra?

Il libro mette sotto accusa i miti culturali responsabili della crisi attuale: l’immagine a tutti i costi negativa dell’autorità, l’obbligo assegnato alla scuola di adeguarsi a ciò che piace e vuole la società (dal digitale al disprezzo per il passato), la preferenza del «saper fare» sul sapere in quanto tale, la didattica «attiva» e di gruppo. Altrettanti ideologismi che sono serviti a oscurare il ruolo dell’insegnante, la misteriosa capacità che dovrebbe essere la sua di trasmettere la conoscenza e con essa di assicurare un futuro al nostro passato. Vi proponiamo l'Introduzione del volume.

Tutta la scuola come quest''aula: in stato di abbandono

Mi è capitato spesso di scrivere sulla scuola. Non già in qualità di esperto di una delle tante discipline e sottodiscipline che da anni se ne occupano accampando la propria natura «scientifica» (a mio avviso inesistente, come nel caso di qualunque altra delle cosiddette «scienze umane»). Ne ho scritto come semplice osservatore interessato. Parecchio interessato: innanzitutto perché ho insegnato per quarant’anni all’università e dunque ho fatto parte anch’io del mondo della scuola, e poi perché, avendo una certa dimestichezza con la storia d’Italia, sono stato sempre convinto dell’importanza strategica che la triade scuola-istruzione-cultura ha avuto fin dall’inizio per le vicende del nostro paese.

Al momento dell’Unità, l’indice forse più evidente dell’inferiorità italiana rispetto a gran parte degli Stati dell’Europa occidentale era il livello d’analfabetismo della Penisola: con un tasso che si aggirava intorno al 70 per cento e che nell’Italia meridionale – affidata da oltre un secolo alle illuminate cure dei Borboni – toccava l’84 per cento.

Anche se pochi italiani ne sono consapevoli, l’Italia del Novecento – l’Italia moderna che partendo da condizioni di miseria vastissima, con un limitato territorio favorevole all’agricoltura e priva di qualunque risorsa naturale, è arrivata a essere tra le prime dieci economie del mondo – si è fatta in misura assai significativa proprio grazie alla sua scuola. Per la verità bisognerebbe dire innanzitutto grazie alle sue maestre, dal momento che quell’Italia pur così maschilista ha avuto la sorte singolare di un corpo insegnante della scuola primaria che fin dall’inizio è stato contraddistinto da una quota femminile rilevante e poi sempre crescente. Le maestre sono state l’avanguardia impavida che per prima ha affrontato, e poi ha continuato a combattere instancabilmente l’ignoranza nazionale.

So di che cosa parlo perché ho avuto una nonna che faceva la maestra. Si chiamava Nerina e insegnava a Napoli, nei Quartieri spagnoli, allora come oggi tra le parti più povere e derelitte della città. Negli ultimi anni della sua carriera, quando io bambino la conobbi, era afflitta da una grave forma di artrite che la faceva soffrire molto. Camminava a stento e con grande fatica, ma non smise un solo giorno di recarsi a scuola dai suoi alunni. Quando finalmente andò in pensione, nel 1949, le fu consegnato dai colleghi un diploma debitamente incorniciato che oggi è su una parete del mio studio, dove in una prosa ingenuamente aulica che sa ancora di Ottocento si legge: «Educatrice modello che ha dedicato le sue migliori energie alla formazione dei figli del popolo, a lei vada il commosso saluto e il vivissimo plauso della scuola che ne ammira le alte doti di mente e di cuore». Seguono le firme con i nomi delle sue colleghe: Rosa, Nunzia, Pasqualina, Giuseppina, Carmela, Concetta, come a quel tempo ancora si chiamavano le donne e le maestre del nostro Mezzogiorno.

Ma più o meno quella scuola elementare che era stata di mia nonna ho fatto in tempo a frequentarla anch’io. La mia era a Roma e già solo il nome – scuola elementare Principessa Mafalda di Savoia (per fortuna non è cambiato) – sembra collocarla in un tempo remoto. Così come appartengono certamente a un passato ormai sepolto la scuola media e il liceo che mi videro nelle loro aule. Portavano il nome di due protagonisti del Risorgimento: Ippolito Nievo e Goffredo Mameli. I nomi contano, altroché se contano! Potrà mai, per esempio, un povero studente di oggi ricordare tra mezzo secolo i suoi anni di studio alla scuola media Marcello Mastroianni o all’istituto comprensivo Enzo Biagi?

Nelle loro aule, da quegli insegnanti ho imparato la parte più importante di quel poco o tanto che so. E anche una parte importante di ciò che sono. Allora, infatti, la materia di educazione civica o di cittadinanza e Costituzione non esisteva, ma esistevano quelle cose (molto reazionarie?) che si chiamavano esempio e disciplina, incarnate non da una qualche specifica autorità, ma dall’atmosfera che aleggiava in tutta l’istituzione scolastica, e in maniera particolare dalle qualità personali di chi stava dietro la cattedra. Dalla professoressa De Sanctis, per esempio, la quale si presentava ogni giorno a noi bimbetti delle medie tirando fuori dalla borsa e appoggiando sulla cattedra un thermos il cui caffè alternava con la frequente accensione di una sigaretta (in classe! Oggi, a dir poco, l’arresterebbero all’istante). Anche se dal tratto molto deciso e quasi mascolino, era una signora piacente di mezza età, irpina di origine (con quel nome: chissà…), con una folta capigliatura rossa sempre in ordine perfetto. Ho saputo poi che era stata, a suo tempo, una giovane intellettuale fascista. Attiva nei Gruppi universitari del regime, aveva collaborato assiduamente ad alcune delle loro non insignificanti riviste. La professoressa De Sanctis ci trattava non proprio come se fossimo gli allievi di un’accademia militare ma quasi. Una volta che uno di noi fu sospettato dall’occhiuta vigilanza di un bidello di aver commesso non so più quale stupido vandalismo ai danni dell’attrezzatura scolastica, lei, dopo qualche breve frase ispirata sulla proprietà pubblica, invitò il dodicenne indiziato a confessare, e davanti ai tremori dello sventurato gli ingiunse severamente: «Di’ la verità, su, comportati da uomo!». Con un filo di voce il tapino confessò, ottenendo subito in cambio il suo perdono e la sua lode. Ecco lezioni che non si dimenticano, altro che un’ora o due a disquisire sui diritti e i doveri del buon cittadino! La professoressa De Sanctis era un’insegnante bravissima. Ci somministrò i primi rudimenti di latino con una chiarezza e una passione in cui, l’ho capito dopo, traspariva anche qualche velata nostalgia di aquile di Roma e di colli fatali, ma, se ancora oggi riesco più o meno a decifrare l’iscrizione di una lapide romana o a leggere Virgilio, sia pure con la traduzione a fronte, è soprattutto a lei che lo devo.

Ai professori che ho avuto la fortuna d’incontrare negli anni delle medie, come del liceo, devo invece qualcosa che non è facile spiegare, ma che rappresenta in realtà il massimo acquisto che l’insegnamento, qualsiasi insegnamento, possa sperare di trasmettere. Vale a dire la consapevolezza che il sapere non rappresenta un che d’inerte, lontano e altro da noi, ma, all’opposto, è qualcosa che ci riguarda, che ci forma ed è destinato a interpellarci direttamente e continuamente. La consapevolezza che la cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile.

Certamente non è solo nella scuola che è dato di cominciare ad acquisire una tale consapevolezza. Ma sta di fatto che per molte generazioni quel luogo è stato la scuola, e mi pare assurdo che essa possa mai rinunciare a esserlo. Chiunque nella propria carriera scolastica abbia incontrato un insegnante al quale debba di aver letto un libro rimastogli nella memoria, un insegnante che gli abbia fatto pensare in modo nuovo a qualcosa cui non aveva mai pensato, sa di che cosa sto parlando.

Rimarrà scolpita per sempre nella mia mente, per esempio, l’impressione che per i tre anni del liceo non smisero di farci – non solo su di me ma indistintamente su tutti i miei compagni di liceo, bravi o meno bravi che fossero – le lezioni del nostro professore di Lettere antiche. Era un grecista e filologo illustre, destinato di lì a poco a essere chiamato all’università, Filippo Maria Pontani. Sapeva bene, naturalmente, che i suoi allievi erano in sostanza dei bambocci, degli adolescenti ancora inesperti e ignoranti di quasi tutto, ma mostrava di considerarci (e già questa quale lezione era!) come obbligatoriamente capaci di accedere a riflessioni e a conoscenze immensamente superiori ai nostri miseri mezzi: per esempio affettando una sorpresa scandalizzata se scopriva che non avevamo mai letto nulla di Dostoevskij o non avevamo la minima idea di chi fosse Wilamowitz. Leggeva e spiegava Tucidide e Orazio con un’immedesimazione e, vorrei dire, un pathos tali che rendevano quasi concretamente palpabile quella dimensione chiave della cultura che è l’immortalità di un testo. Una mattina di gennaio entrò visibilmente commosso in classe e cominciò a tessere un lungo elogio funebre di una persona il cui nome, Albert Camus, non diceva assolutamente nulla a nessuno di noi. Credo che quel giorno egli non avesse alcun intento didattico, ma a dispetto di ciò le sue parole emozionate trasmettevano comunque una lezione importantissima. Invitavano a guardare in alto e lontano. Capivamo confusamente che volevano essere un debito che egli stava pagando a qualcuno alle cui idee, ai cui libri, era convinto di dovere molto. Quelle parole facevano per l’appunto capire che i libri, le idee, ciò che essi rappresentano possono costituire una ragione di vita, danno significato all’esistenza, e che dunque la cultura in genere – e quindi ciò che si fa a scuola, ciò che la scuola è –, sono cose destinate a restare per sempre come una matrice della nostra esperienza. Non costituiscono un obbligo burocratico da assolvere più o meno volenterosamente, bensì l’occasione per diventare più capaci di capire il mondo, più consapevolmente umani. Di diventare dei noi stessi migliori.

È stato innanzitutto grazie a questa vicenda personale che ben prima che mi trovassi io stesso a insegnare ho avvertito e compreso l’importanza della scuola.

Un’importanza, lo ribadisco, testimoniata dalla nostra stessa storia collettiva. Infatti, nei decenni successivi all’Unità, mentre l’analfabetismo veniva sia pur lentamente riducendosi, furono essenzialmente l’istruzione superiore e l’università a fornire alla giovane nazione le élite necessarie alla sua crescita. E fu così che, già dalla fine dell’Ottocento, l’Italia poté contare su ottimi ingegneri, matematici illustri, filologi, medici ed economisti di vaglia. Le prime reti moderne che si videro nella Penisola – quella ferroviaria e quella dell’elettricità – furono realizzate in larghissima misura da persone formatesi nella scuola italiana.

Pochi oggi lo ricordano, ma, appena riuniti in un solo Stato, dovemmo recuperare un’arretratezza culturale spaventosa: «Di molte letterature non abbiamo trattato alcuno, ci mancano persino i loro dizionari, siamo poveri affatto di cronologie e di istorie delle scienze e d’altri libri che sian fatti per noi, per le cose nostre e per le nostre menti», aveva scritto Carlo Cattaneo a metà dell’Ottocento con parole in cui si coglie quasi un tono di disperazione. L’istruzione superiore e l’università furono essenziali per recuperare questo svantaggio e fornire le energie necessarie a costruire un’ossatura di istituzioni culturali. Furono così aperti o riordinati musei e biblioteche, avviate edizioni nazionali e grandi collane di classici, fondati centri di studio. Dagli anni trenta agli anni sessanta la fisica, la chimica, gli studi di fisiologia umana raggiunsero in Italia traguardi decisivi coronati anche dal Nobel. E, nel complesso, le classi di governo non mancarono mai, pur tra alti e bassi, di mostrarsi attente all’ambito dell’istruzione e al mondo della cultura dal quale, tra l’altro, i suoi esponenti sovente provenivano.

È quasi inutile aggiungere che nel quadro appena tracciato le contraddizioni, gli aspetti negativi, specialmente il classismo, non sono di certo mancati – basti dire che ancora nel 1970 i lavoratori dipendenti senza titolo di studio o forniti di sola licenza elementare erano l’86 per cento del totale –, ma in generale si è trattato di un cammino di forte progresso che si è accompagnato e ha fatto tutt’uno con il progresso dell’intero paese, in favore del quale la scuola e la cultura, le istituzioni dell’una e dell’altra, hanno svolto una parte importante, per più versi decisiva.

Anche da questa constatazione trae forza l’ipotesi che l’arresto del moto ascendente dell’Italia verificatosi nell’ultima parte del Novecento e poi tramutatosi nel vero e proprio declino che è sotto i nostri occhi abbia non poco a che fare con la crisi dell’istruzione. Non solo, infatti, con tale crisi sono venute a mancare al paese una riserva di energie fresche, la possibilità di alimentare un autentico ricambio sociale, una fonte cui attingere saperi, idee, immaginazione, ma è successo qualcosa di ancora più grave. C’è stato come un appannarsi delle nostre capacità intellettuali collettive, per cui l’Italia ha perso, ha voluto perdere, l’esatta consapevolezza di quanto l’aveva condotta a una tale situazione. Abbiamo chiuso gli occhi sulle occasioni mancate, sulle decisioni non prese, soprattutto sui molti errori commessi. Per farlo meglio abbiamo preferito continuare a cullarci in una narrazione omissiva e menzognera del nostro passato recente.

In questa prospettiva la scuola è divenuta il luogo simbolo del grande autoinganno con cui la società italiana ha cercato a lungo – e ancora oggi cerca – di non vedere le ragioni che l’hanno progressivamente condotta alla critica condizione attuale. Le quali ragioni, nel caso dell’istruzione (come del resto in mille altri), sono le riforme nate da idee sbagliate, da ingenuità utopiche mischiate ad astuti calcoli politici, realizzate senza valutarne costi e conseguenze di lungo periodo. Le riforme che ormai risalgono a parecchi decenni fa, ma i cui effetti si sono fatti sentire con intensità sempre maggiore con il passare del tempo. A tutto questo si è aggiunto alla fine il disinteresse opportunistico della politica e di un’opinione pubblica ineducata, rimasta per gran parte incolta.

La scuola soffre da decenni degli effetti di una serie di tali riforme sbagliate. Ma più tali effetti divenivano evidenti, più acquistava forza il comando sociale che obbligava a chiudere gli occhi, il divieto, da tutti supinamente accettato, di guardare in faccia la realtà e di dire le cose come stavano. Addirittura sembrava giusto sostenere il contrario, proclamare che tutto stava andando per il meglio, per carità, che le novità introdotte stavano producendo risultati eccellenti o li avrebbero prodotti presto, che dell’aumento di qualità di studenti e insegnanti non era dato dubitare. Naturalmente, in tutto ciò ha fatto la sua parte la politica. O meglio, più che la politica l’ideologia. Vigeva infatti (e in buona parte vige tuttora) la regola tutta italiana per cui spesso, se si vuole continuare a stare nel campo del progresso, è meglio tacere la realtà delle cose. Meglio nascondere o per lo meno sfumare. Chi, per esempio, lavorava all’università (è stato il mio caso) vedeva, sì, giungere ai propri corsi in sempre maggior numero ragazzi e ragazze privi dei più elementari punti di riferimento, incapaci di ripetere ragionamenti anche semplici in modo coerente e comprensibile, da un certo momento in poi addirittura non più in grado nemmeno di usare la punteggiatura o di orientarsi nell’ortografia e nella sintassi. Ha cominciato, sì, ad accorgersi del progressivo disfarsi di quello che fino ad allora era stato ritenuto lo standard ovvio di conoscenze di una preparazione scolastica media. Ma – io e molti altri – abbiamo mantenuto il silenzio. Perlopiù pensando, credo, che non fosse giusto criticare o contrastare quella scuola che non cessava di proclamare di continuo il suo carattere «nuovo» e «democratico»: convinti che non ci si potesse schierare su una posizione che inevitabilmente sarebbe apparsa conservatrice, favorevole a un passato che in realtà non ci era mai piaciuto e che continuava a non piacerci. Anch’io, insomma, sono soggiaciuto al ricatto come tanti altri.

Sono così trascorsi gli anni e nulla è cambiato. Il declino del paese è andato di pari passo con quello dell’istruzione. La scuola è diventata sempre di più un organismo burocratizzato, sottoposto a una frenesia inconsulta di riforme, di continui aggiustamenti di quelle già fatte, di proposte strampalate sempre nuove come quella di tenerla aperta tutto l’anno. Restava il dato centrale: dopo averla per anni strumentalizzata e manipolata a suo piacere, la politica abbandonava progressivamente la scuola al suo destino. Senza una missione da assolvere, priva di mezzi e di una visione degna di questo nome, ormai circondata dall’ampio disinteresse dell’opinione pubblica. Un’opinione pubblica che per la verità, a dispetto del ritornello ripetuto instancabilmente dappertutto sull’importanza strategica dell’istruzione per il nostro futuro, dell’istruzione palesemente se ne infischiava e se ne infischia, mostrando di non avere alcuna voglia di prestare attenzione a queste cose. La scuola, insomma, che per un secolo e oltre ha accompagnato e favorito l’ascesa del paese, oggi sembra la prima ad anticiparne e prepararne il declino.

(Tratto da: Ernesto Galli della Loggia, L'aula vuota)