"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Il rovescio dell'imposizione

È vero: l’evasione fiscale è indecente. Ma c’è un altro aspetto da considerare quando si parla di imposte, parola che - non a caso - rimanda a tutt’altro che a liberalità o buona volontà o arbitrarietà ma, appunto, a un’imposizione. Come il tributo richiama quanto veniva prelevato dallo Stato, nell’antica Roma, al cittadino secondo il proprio censo e per tribù. E la gabella, dall’arabo qabàla, era la somma ricevuta per l’aggiudicazione di un terreno. Ora, a voler giocare di sottigliezza, c’è una sostanziale differenza tra la tassa e l’imposta. La prima (dal latino taxare, determinare il prezzo) è un compenso pecuniario, corrisposto allo Stato o ad atri enti pubblici (province, comuni) per un servizio divisibile, reso normalmente su domanda e simultaneamente giovevole sia a chi lo chiede come alla collettività. Elementi costitutivi della tassa sono dunque la volontarietà (nel senso che il cittadino non è obbligato a pagarla, se non quando chieda all’ente pubblico il corrispettivo richiesto) e la divisibilità del servizio. La tassa si differenzia quindi dall’imposta sia perché l’imposta è obbligatoria, mentre la tassa è volontaria, sia perché alla tassa corrisponde un servizio divisibile, mentre alle imposte corrisponde, per la maggior parte, il complesso dei servizi indivisibili. Certo, se l’ammontare delle tasse difficilmente compensa le spese sostenute per la prestazione dei rispettivi servizi, e vi si supplisce con il ricavato delle imposte, ecco che anche per i servizi pubblici divisibili dove finisce la tassa subentra l’imposta. Questa è appunto la porzione di ricchezza che lo Stato preleva coattivamente dai soggetti sottoposti per reperire i mezzi per il soddisfacimento dei pubblici servizi. Ed è qui che subentra, come dicevamo, un altro aspetto: il rovescio della medaglia. Perché si guarda sempre a quanto lo Stato pretende dai cittadini; mai però, o quasi mai, a quanto i cittadini ricevono in cambio dallo Stato.
È evidente che l’evasione delle imposte presenta problemi morali gravi e profondi. Come si è giustamente sottolineato da più parti, è un’espressione di socialità, venendo riscossa per mettere l’ente pubblico in grado di prestare quei servizi di cui beneficia l’intera collettività, anche se non tutti vi concorrono in modo identico. Però bisogna stare attenti. Se le strade sono piene di buche, se le scuole cadono a pezzi, se in ospedale bisogna pagarsi la visita o l’operazione, se molti dei servizi essenziali che dovrebbero essere erogati come bene per tutti i cittadini diventano costosi o addirittura irraggiungibili, se il servizio pubblico è sprecone, diventa lecito interrogarsi. I governanti non possono procedere arbitrariamente nella determinazione delle imposte; occorre invece che le determinino in rispondenza ai bisogni pubblici concreti che presenta la collettività in un determinato momento storico e alla reale capacità contributiva dei suoi membri. Una valutazione, ovvio, tutt’altro che facile, agevole, semplice e inscindibilmente legata alla concezione che si ha della convivenza politica e sociale. Inoltre è doveroso cercare e scegliere il sistema tributario più idoneo per onerare i cittadini il meno possibile e prestare i servizi pubblici nel modo migliore.

Sembra proibito o sconcio, oggi come oggi, ma oltre ad indignarsi (giustamente) per l’evasione bisogna cominciare a parlare anche di giustizia tributaria, non nel senso del contenzioso giuridico ma di quel senso di giustizia che deve regolare il rapporto tra il cittadino contribuente e lo Stato impositore. Questa giustizia tributaria riguarda l’entità dei tributi e il modo nel quale vengono riscossi. L’entità è intimamente connessa con la concezione dello Stato e delle sue finalità. In una concezione liberale, i fini che lo Stato si propone sono quelli essenziali alla convivenza, quali la difesa della comunità politica, la conservazione dell’ordine, l’amministrazione della giustizia. Mentre in una concezione socialista i compiti che si ascrive sono molto più ampi e profondi. Nella prima concezione, chiaramente, la giustizia tributaria non acconsente che a una pressione fiscale la più limitata possibile; nella seconda, invece, permette ed esige una pressione molto più accentuata. Nella concezione cristiana, il fine dello Stato è la promozione del bene comune. Questo include elementi essenziali che perciò non mancano mai e pure elementi correlativi allo spazio e al tempo e quindi ininterrottamente variabili. Di conseguenza, la giustizia tributaria reclama che la pressione fiscale si adegui alle esigenze concrete del bene comune. Però non deve mai essere tale da mortificare l’iniziativa personale dei cittadini, anzi, dovrebbe risolversi in un elemento di tutela e di stimolo per queste iniziative, fornendo allo Stato i mezzi per consolidare i rapporti della convivenza e favorire la circolazione della vita in tutti i settori.

Al punto nel quale siamo giunti, tra debito pubblico e pressione fiscale, una riflessione seria su questi aspetti (un po' noiosi, certamente, ma imprescindibili) si rivela opportuna. Oltre che gridare all’untore e rincorrerlo per fargliela pagare, bisognerebbe meditare sui fatti e sui perché la pressione fiscale ha visto, storicamente, un progressivo intensificarsi. Per dire, in Italia, nel 1913-14, segnava il 13,44 per cento sul reddito complessivo della nazione; nel 1928-29 il 27,7; nel 1936-37 il 36. E oggi? L’avvenuto cambiamento nella concezione e nella prassi dello Stato ha condotto a questo: da uno Stato liberale con compiti prevalentemente negativi si è passati sempre più a uno Stato amministratore del bene pubblico. Questi i risultati, fino a un fisco percepito come una sanguisuga.

Scrive Nicola Porro: «Lo Stato continua ad alimentarsi con i prelievi su consumi, redditi e patrimoni, ma ha aggiunto un tocco "equo e solidale". Le tasse invisibili sono etiche e ambientali. Sono richieste per evitare i drammi di un futuro catastrofico, che si dà per certo. I socialisti volevano occuparsi dei cittadini dalla culla alla tomba, i loro nipoti hanno scoperto che ci si può occupare anche dell’aldilà». E ancora, nel libro Le tasse invisibili: «Nel Novecento, e nella nostra Costituzione che ne è figlia, il prelievo fiscale non poteva che essere una prestazione che passava dalle tasche del cittadino alle casse dello Stato. Oggi è più complicato. Lo Stato continua la sua imperterrita corsa a farsi sfamare. Ma ha intrapreso un'ulteriore attività: la regolamentazione ossessiva, dal forte contenuto patrimoniale che spesso determina prelievi autoritari e autorizzati, che se non assumono la forma tecnica del tributo, ne hanno tutte le caratteristiche e i difetti. Poco importa se il mio reddito di cento euro viene colpito da un'imposta tributaria di 50 o se il medesimo reddito viene percosso contemporaneamente da una regola che mi obbliga a rinunciare a 20 e da un'imposta che fa il resto con un peso di trenta. Il reddito disponibile alla fine viene ridotto sempre a 50». Ce n'è abbastanza per meditare.