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Tutta la grandezza di Augusto Del Noce

Augusto Del Noce (Pistoia, 11 agosto 1910 – Roma, 30 dicembre 1989)

Il tempo è galantuomo. Augusto del Noce, che durante la vita non ebbe grande affermazione né sul piano accademico né su quello genericamente culturale, ci appare ora come grande filosofo, forse il più grande filosofo cattolico italiano della seconda metà del Novecento.

Lo sforzo di tutta la sua vita, una vita dedicata esclusivamente alla filosofia, fu quello di mostrare come nel pensiero tradizionale si potessero trovare principi sulla base dei quali poteva divenire veramente comprensibile il mondo presente e come proprio movendo alla considerazione dei problemi del nostro mondo si giungesse a un recupero della Grande Tradizione, intesa non come un deposito di forme passate ma come un insieme organico di principi vivi trascendenti il tempo e quindi validi per ogni tempo, metastorici eppure capaci di storicità inesauribile. Il fascino della sua filosofia è quello di darci un’interpretazione profonda del nostro tempo, che scopre in esso la traccia dell’eternità. In questo senso sono da intendersi certe sue affermazioni come: «L'occasione per il sorgere della filosofia è dal problema dell'interpretazione del proprio tempo», o «Una filosofia che non contenga risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla come tale».
A prima vista questa dichiarazione di attualità potrebbe parere a dir poco strana. Questa posizione si espresse infatti in una dura polemica contro il marxismo e contro la secolarizzazione (di cui il marxismo stesso era da lui considerato un aspetto); ma oggi, si potrebbe dire, il marxismo sembra essere scomparso nonché dalla scena filosofica da quella politica, e d’altra parte il mondo attuale non sembra essere andato verso l’affermazione totale dell’ateismo, la secolarizzazione non è giunta pienamente a realizzarsi e a produrre quegli esiti che negli anni Sessanta, quando Del Noce formulò per la prima volta le sue tesi, si presentavano come indubitabili.

Ora occorre subito dire che egli stesso previde la fine del marxismo e l’avvento della società tecnocratica fin dai primi anni del dopoguerra, ma si sforzò di dimostrare la parte avuta dal marxismo proprio nel rendere possibile questo avvento, e che non considerò mai la secolarizzazione un processo irreversibile: certo vide nell’ateismo il grande problema della modernità e parlò del nostro tempo come dell’«epoca della secolarizzazione», ma mai concepì l’ateismo come il destino dell’Occidente, né la secolarizzazione come esaustiva del mondo moderno.

1. Ateismo e marxismo. Biografia dell’idea di rivoluzione
Semplificando al massimo il discorso di Del Noce, occorre dire che vi sono sostanzialmente due forme di ateismo: l’ateismo negativo pessimistico notturno e l’ateismo positivo diurno. L’ateismo negativo, che parte dalla constatazione del male nell’universo affermandone l’incompatibilità con l’esistenza di Dio, è, più che ateismo vero e proprio, una contestazione di Dio nel nome di Dio. L’esperienza religiosa del male, con il correlativo bisogno di salvazione trascendente, che rende impossibile la conciliazione con il mondo, fa sporgere per così dire l’uomo oltre di esso aprendolo, se non a Dio, a quello spazio extramondano in cui Dio può essere incontrato. L’ateismo, per realizzarsi completamente, deve diventare ateismo positivo, e se v’è una storia dell’ateismo diretta alla sua realizzazione piena essa consiste nella purificazione di tutti gli elementi negativi o pessimistici che ne accompagnano l’affermazione. In realtà la purificazione dell’ateismo dai suoi momenti pessimistici è avvenuta soltanto nel nostro tempo, che è quello in cui l’ateismo si è finalmente realizzato allo stato puro: un marxismo senza rivoluzione e un Nietzsche senza tragedia nella loro confluenza costituiscono veramente l’orizzonte ateo di tanto pensiero contemporaneo.

Lo sviluppo dell’ateismo positivo si staglia in due momenti: il primo è una trascrizione dell’Assoluto in termini razionali, da cui sono sorte le filosofie del «divino immanente» che conservano il riferimento all’Assoluto pur risolvendolo ed esaurendolo in un’idea della ragione; il secondo è quello di una negazione dell’Assoluto, che avviene coerentemente, in quanto una volta ridotto l’Assoluto a grandezza razionale se ne può fare quello che si vuole, ed eventualmente anche disfarsene; si è così passati dalle filosofie del divino immanente all’immanenza radicale, all’ateismo. Del Noce ha potuto con ragione denominare questo processo col termine secolarizzazione. Se con questo termine giuridicamente si indica il passaggio da beni ecclesiastici a beni statali, se ne può fare un uso analogico culturale più ampio a indicare anche l’appropriazione dei valori religiosi da parte della ragione, sino al completo assorbimento dei primi nella seconda, o la rivendicazione di un ambito di valori che si costituiscono senza alcun riferimento alla religione, la liberazione completa dalla tutela religiosa in qualsiasi forma.

Anche sul piano politico-sociale questo sviluppo si compie in due momenti: quello che si esprime nelle religioni secolari (il periodo fra le due guerre) e quello che si esprime nella perdita del sacro o irreligione naturale (il periodo del secondo dopoguerra), anche se questa seconda posizione non si caratterizza più apertamente come ateismo per la tendenza agnostica della filosofia che le è immanente.

Il gran parlare che si è fatto e si fa sul fallimento del marxismo non svolge però un’analisi dei motivi ideali del processo che ha portato a questo fallimento. Del Noce, a quanto ne so, è stato l’unico a tentarla, con una completezza che mi pare veramente esauriente. Quando si parla del fallimento del marxismo si vuole alludere a due motivi: il suo non essere giunto alla realizzazione in Occidente e il suo fallimento là dove si è realizzato, nel senso che la promessa di liberazione che portava seco si è capovolta nella produzione del massimo dei servaggi, che dal paese dove prima si è realizzato, la Russia, si è poi esteso su scala mondiale, nei paesi che l’hanno seguita. Il motivo di questo fallimento è da ricercarsi anzitutto nel marxismo stesso, nel suo porsi insieme come materialismo storico e materialismo dialettico. Per materialismo storico si intende la dottrina secondo la quale la struttura di base della storia è costituita dai rapporti economici o di produzione: tutti gli altri elementi che entrano nella storia (diritto, religione, arte, filosofia, ecc.) sono da essi determinati e si configurano come loro espressione: si ha cioè in esso la concezione espressivistica del pensiero. Per materialismo dialettico si intende la considerazione di questi rapporti secondo le leggi della dialettica, leggi che si ricavano appunto, come diceva Engels, dalla natura e dalla storia anziché essere elargite dall’alto, come per Hegel, che a torto le considerava come pure leggi del pensiero. Il termine dialettica indica che lo sviluppo avviene attraverso la negazione e la contraddizione. La contraddizione e la negazione divengono il principio motore e generatore della storia, il fondamento della prassi rivoluzionaria e trasformatrice; forniscono al marxismo una specie di formula ideale in base alla quale è possibile giustificare i sacrifici che questa trasformazione richiede in vista dell’ordine nuovo che dalla negazione radicale di quello esistente si genererà.

La vera difficoltà in cui il marxismo si trova è anzitutto intrinseca, quella di mantenere l’unità di questi due motivi che in fondo sono contraddittori. Ciò spiega anzitutto come il pensiero rivoluzionario prenda origine da un pensiero rigorosamente filosofico, ma poi avvenga che il motivo materialistico che gli è necessario – perché l’instaurazione dell’ordine nuovo non può procedere che dalla de-valorizzazione del mondo tradizionale – reagisca dando luogo, con le esclusioni che comporta, alla stessa formulazione ideologica della filosofia da cui è nato e alla mentalità antifilosofica e ideologica, e infine alla sostituzione della scienza alla filosofia come sapere oggettivo rispetto al pensiero ideologico, pervenendo alla massima estensione dello scientismo, attraverso la sostituzione della filosofia con le scienze umane. Fallita l’instaurazione dell’ordine nuovo si ricade nel vecchio, che però non è più quello pre-rivoluzionario, perché esso è stato completamente sconsacrato. È questa la radice del nichilismo e del totalitarismo. Se poi questo nichilismo del potere si consuma, esso si estende alle masse, e non è un caso che al fallimento del marxismo si sia accompagnato quel passaggio dal libertinismo aristocratico al libertinismo di massa che caratterizza il nichilismo contemporaneo.

Che la società tecnocratica sia quella che dopo il fallimento del marxismo vada affermandosi come modello in Occidente mi sembra difficilmente contestabile: così pure che il marxismo non ne possa realizzare l’oltrepassamento, in quanto è stato un momento della sua formazione, per la perdita del momento dialettico-rivoluzionario che è ormai solo più presente nel marxismo terzomondista (e anche qui, caduto l’impero sovietico come punto di riferimento, cede al nazionalismo con la strumentalizzazione della religione alla politica che ciò importa). La società borghese misura così la forza e la debolezza del marxismo: la forza, perché esso la costringe a manifestarsi allo stato puro, dissociata da ogni rapporto con la società signorile, la società liberale, la società cristiana; l’impotenza, perché il marxismo si trova nell’impossibilità di rovesciarla: anzi finisce con il risolversi in un momento della sua formazione. La società tecnologica mantiene tutte le negazioni del marxismo, rifiutando però anche la «religione» marxista: il che porta alla possibilità di dire che essa è «una traduzione empiristica e individualistica del marxismo».

Certamente non hanno costituito né costituiscono una minaccia per questa società certe riaffermazioni del marxismo rivoluzionario in senso anarchico-romantico postosi come vivace contestazione globale, sia della società tecnologica sia del comunismo che, oltrepassata la fase del sottosviluppo, finiva, ad avviso di chi la sosteneva, con l’avvicinarsi a essa. Data l’assenza di contenuto delle proposte e l’incapacità di cogliere il processo generatore della situazione contestata, queste riaffermazioni operarono e operano soprattutto in senso dissolutivo e a vantaggio di una parte del sistema (si pensi alla confisca borghese della rivoluzione sessuale).

Quanto poi all’idea che la rivoluzione sia fallita in Russia per l’arretratezza di quel paese, all’idea di una rivoluzione occidentale superiore a quella marx-leninista, in quanto adeguata a paesi superiori per cultura o meglio per modernizzazione, essa si risolve propriamente in un contributo alla formazione e stabilizzazione di questa nuova società. È questo il risultato di un’approfondita analisi del pensiero di Gramsci studiato nei confronti di quello di Croce e di Gentile. Quel che ne emerge è un comunismo completamente ateologizzato per l’abbandono dell’idea di rivoluzione, che riprende il progetto gramsciano volto a sostituire alla lotta di classe la lotta per la modernità, alla visione trascendentistica della vita una visione immanentistica del reale, la conquista della società civile portando i modi di pensare secolarizzato al popolo, ecc... Questa ricomprensione del marxismo è una ricomprensione illuministica, e finisce con il dissolvere la filosofia nell’ideologia, esito ultimo questo di ogni immanentismo radicalizzato, che porta seco il congedo dell’idea di verità e inevitabilmente apre la via a quel totalitarismo tecnocratico che costituisce il vero pericolo che l’Occidente ha in sé.

La confluenza di comunismo dissociato da rivoluzione e di spirito borghese dissociato da liberalismo e cristianesimo è quel che oggi abbiamo sotto gli occhi, una confluenza resa possibile dal fatto che entrambi hanno abbandonato i temi che li caratterizzavano (la rivoluzione per il comunismo, il moralismo giusnaturalistico per lo spirito borghese) per l’assunzione di una politica impostata sull’opposizione progresso-reazione, modernità-tradizione (che sul piano filosofico diviene apposizione di immanenza e trascendenza). E la critica al comunismo evolutosi in questo senso, che è poi la constatazione della sua sparizione e dissoluzione in una vaga sinistra democratica, è critica a tutte le linee politiche che in qualche modo condividono questa visione della storia, l’azionismo, la sinistra cattolica (a cui com’è noto nel primo dopoguerra Del Noce aderì), la teologia della secolarizzazione ecc... La stessa teologia della secolarizzazione è infatti dominata da questo schema dell’uomo moderno che è passato dall’infanzia all’età adulta, ed essa è indubbiamente un omaggio alla modernità così intesa, che si esprime in un’attenuazione, se non in uno svuotamento, dei temi del peccato e della trascendenza.

Occorre passare da una politica imperniata sullo schema reazione-progresso, tradizione-modernità, a una politica imperniata sulla difesa dell’individuo dal nuovo totalitarismo tecnocratico.

Ritorneremo su questo punto capitale: per ora voglio sottolineare come questo giudizio sul marxismo quale vero protagonista d’Occidente permetta un giudizio su nazismo e fascismo, che Del Noce ritiene non possano concepirsi se non in riferimento a esso.

Assai complessa è la sua valutazione del fascismo, per la comprensione del quale ritiene sia essenziale riferirsi a Giovanni Gentile. Egli certo non può dirsi, come anche è stato affermato, il creatore del fascismo, ma è vero che «senza la cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prendere forma», «fascismo e antifascismo (gramscismo) sono i due aspetti in cui quella filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel farsi mondo». L’attualismo nei confronti della tradizione e del cristianesimo può essere vissuto nei termini di conservazione e oltrepassamento, e questa è la versione gentiliana, o in termini di opposizione, e questa è la posizione gramsciana. Ho semplificato così all’eccesso una serie di analisi molto complesse e talvolta anche sottili che riguardano il rapporto di Gramsci con Gentile e l’incontro Gentile-Mussolini. La concezione gentiliana è quella di una rivoluzione ulteriore a quella marx-leninsta, suo inveramento che si costituisce come filosofia della prassi liberata dal materialismo (criticamente insostenibile, come ogni posizione realista e naturalista): Gentile sostiene una ripresa del concetto risorgimentale di rivoluzione come restaurazione dei valori tradizionali (l’opposto della concezione marxista), trasposta però sul piano dell’immanenza e nel quadro di una filosofia della prassi che inneggia al continuo divenire dello spirito. Ma su questo piano e in questo quadro i valori tradizionali non possono essere mantenuti, donde una contraddizione interna della filosofia gentiliana che si manifesta anche politicamente nel fascismo.

Già da ciò si vede la differenza fra fascismo e nazismo. Il nazismo non è l’estremizzazione del fascismo (tanto è vero che l’alleanza con esso segnò per quest’ultimo la sua fine), ma «l’unica risposta possibile, sul piano politico, alla sfida del comunismo, entro l’orizzonte storico del primato del pensiero tedesco mondano e immanentistico». C’è una simmetria fra nazismo e comunismo: il nazismo si risolve in una trasposizione naturalistica dello storicismo marxista, che al concetto di proletariato ha sostituito quello di razza; all’escatologia marxista secolarizzata, che poneva la società perfetta alla fine della storia, ha sostituito la tesi che la poneva prima della storia intesa come decadenza, avanzando in reazione a questa decadenza il progetto della costruzione del mondo nuovo, che avrebbe dovuto corrispondere al tipo ariano nella sua purezza, mai realizzato sinora. Di qui il suo non potersi riallacciare a nessuna tradizione, il suo antisemitismo che lo porta a considerare il marxismo l’ultima espressione del messianesimo ebraico, per cui si risolve nel tentativo di «purificare il retaggio morale dell’umanità da tutto quel che le è stato donato dal popolo ebreo».

Quel che sottende il nazismo è il materialismo e l’ateismo, quel che sottende il fascismo è una filosofia della prassi che si vuole spiritualistica (estremizzazione dell’elemento dialettico del marxismo sino alla negazione di quello materialistico, l’inverso del gramscismo) ma che nella negazione di ogni realtà (sia naturale che spirituale) che in essa non si risolve si pone come puro prassismo (pensato in Gentile, vissuto nel fascismo), che non ha altra maniera per raggiungere la realtà e oltrepassare il nichilismo che le è proprio che un compromesso con essa (donde anche il passaggio dal «fascismo come movimento», in cui ancora si può vedere il primato del momento rivoluzionario, al compromesso del «fascismo come regime»).

Fascismo, nazismo, marxismo debbono essere considerati nell’orizzonte che è loro comune, che è quello della secolarizzazione, nel loro presupposto comune che è quello dell’immanentismo, e nei loro comuni esiti totalitari, al punto che si potrebbe forse dire che quel male del secolo che nella visione progressista è il fascismo (inteso come categoria sotto cui raccogliere tutte le forze antiprogressiste e anticomuniste) è invece il secolarismo, di cui marxismo, fascismo e nazismo sono espressioni, e di cui è anche espressione quella società tecnocratica che rappresenta la vera minaccia totalitaria del nostro tempo.

2. Secolarizzazione e civiltà tecnocratica. L’eterogenesi dei fini
Quale prova la secolarizzazione ha dato delle sue tesi? Quale prova l’ateismo ha dato di se stesso? Non mancano giustificazioni scientiste, che per Del Noce però difficilmente potrebbero sottrarsi a un certo dogmatismo, ma esse hanno ceduto in genere a quelle storicistiche (in virtù delle quali alcuni vorrebbero giustificare lo stesso scientismo), per le quali si tratta di processi che si impongono necessariamente e irreversibilmente, cosa che è vera però solo all’interno di certe premesse accettate senza problematizzazione, su cui invece andrebbe portata la discussione. Si capisce allora come la secolarizzazione abbia cercato la propria giustificazione ultima col porsi come strumento, unico strumento, di liberazione e di emancipazione umana da ogni forma di alienazione e di servitù. Ora, se l’esito della rivoluzione è stato il servaggio dovunque ha potuto realizzarsi, la società post-rivoluzionaria nella forma di società tecnocratica è lungi dal poter mantenere le sue promesse, giungendo a quel dominio di tolleranza e liberazione dalla miseria e pace di cui intende porsi come garante.

Abbiamo detto che l’esito ultimo della secolarizzazione è la società tecnocratica. Ora la tecnocrazia, il pantecnicismo, è spesso presentata come uno sviluppo spontaneo della tecnica, qualcosa che lo sviluppo inarrestabile della tecnica porta necessariamente seco. Ma è proprio questo presupposto tacitamente assunto che Del Noce sottopone a critica. La società tecnocratica risulta invece da un’assolutizzazione della tecnica che essa stessa rende possibile, poiché nei presupposti su cui si fonda viene escluso ogni motivo che possa impedire tale assolutizzazione, essendo il pensiero che la domina in senso largo già pensiero tecnico: quello che ho chiamato espressivismo non può intendere le idee che su un piano strumentale, gli stessi rapporti sociali non possono essere risolti in altro modo che in senso strumentale, mediazione di interessi, dove l’altro è sempre solo valutato in base alla soddisfazione o impedimento di interessi dati.

La tecnica come trascendenza dell’uomo sulla natura è suscettibile di una valutazione positiva nell’ambito di una concezione teistica, in cui la distinzione dell’uomo da una realtà inferiore si unisce a quella da una realtà che infinitamente lo oltrepassa, di fronte alla quale è responsabile di sé e di ciò che gli è inferiore. Diversa è invece la sua posizione all’interno di un sistema irreligioso, dove essa non conosce limiti alla sua applicazione e tende a concludersi in una reale desacralizzazione e spersonalizzazione del reale.

La due versioni della città degli atei, quella comunistica e quella della società tecnocratica, si sono combattute a spese del terzo mondo: si parla di dieci milioni di morti in guerre dipendenti da questa opposizione. L’idea di progresso in base alla quale, nonostante i seri colpi che ha ricevuto, la società tecnocratica che ha avuto la meglio sulla prima continua a giustificarsi, è affermata in forma debole, sfrondata da ogni possibile riferimento metafisico e religioso che poteva avere, in modo tale da postulare piuttosto un’indefinita crescita dei desideri, che solo essa sarebbe in grado di soddisfare attraverso un continuo innalzamento dello standard e del confort, e l’incorporazione delle masse nella cultura dell’abbondanza. Da una parte tale società abbassa sempre di più le finalità dell’uomo, svuotando gli ideali umani di significato anche quando a parole li afferma, dall’altra, sulla base dei risultati della biotecnica, lo apre e incoraggia a prospettive prometeiche.

Alla lotta fra comunismo ateo e civiltà cristiana del periodo 1945-1960 si era pian piano sostituita quella fra le due città atee che hanno in comune il materialismo di fondo, e la critica di Del Noce colpiva entrambe: l’eguale condanna sul piano etico-religioso non escludeva però che sul piano politico, dove vale la prudenza, fosse per lui preferibile al materialismo guidato dall’idea di collettivismo il materialismo individualistico. L’estinzione della religione nella società tecnocratica a detta stessa dei suoi sostenitori è lenta, e una certa libertà formale è, nella fiducia dell’esito finale, pur sempre consentita.

Su queste basi, per cui la società tecnocratica non è il risultato di un’inarrestabile processo della tecnica, ma il risultato di questo processo quando sia inserito in un orizzonte irreligioso, si capisce come Del Noce possa pensare che la secolarizzazione non sia un fatto compiuto o un trend irresistibile della storia, ma che pur essendo per certi versi cospicua e reale, vi siano ancora spazi di resistenze e opposizioni a essa, possibilità di ripresa. Il suo grande libro, Il problema dell’ateismo (1964) è in fondo una chiara illustrazione che l’ateismo, come già ho detto, è il problema e non il destino dell’Occidente.

I teorici della secolarizzazione pensavano a una sorta di eutanasia della religione: essa sarebbe scomparsa nella sfera pubblica per ritrarsi nella privatezza individuale sino a una sua estinzione di fatto; così l’espansione della società tecnocratica non avrebbe più trovato resistenze. Ora, questo non è avvenuto, e specialmente in campo sociologico sono ormai pochi quelli che mantengono queste tesi. La nuova situazione è ben descritta dal sociologo americano José Casanova, che giunge alla conclusione seguente: senza che si possa dire che la deprivatizzazione della religione sia il nuovo trend storico o fare previsioni circa la sua permanenza e crescita, si deve però affermare che «privatizzazione e deprivatizzazione sono opzioni storiche», che la secolarizzazione è un programma che ha cercato di giustificarsi come una profezia che si autoadempie e solo in questo senso è ancora presente nella cultura occidentale, penetrandola con le sue spinte, anche quando non si battezza con questo nome.

Del Noce non vide questo mutamento di situazione che cominciò a disegnarsi nell’ultimo quindicennio del nostro tempo. Ma la sua filosofia ci dà anche su questo punto criteri per una spiegazione e valutazione. Quello che sulla base di questi criteri possiamo dire è, mi pare, che oggi esistono le condizioni migliori, nel senso più profondo e filosofico del termine, per una riscoperta dei valori tradizionali. Comincia a diffondersi la consapevolezza che, come la rivoluzione non ha saputo mantenere le sue promesse, neanche le sta mantenendo la società tecnocratica. Lo sviluppo di cui si affermava capace si è sempre più divaricato in sviluppo fra paesi ricchi e sottosviluppo di paesi poveri, e la forbice tende oggi a riprodursi negli stessi paesi ricchi; il disastro ambientale si fa sempre più evidente, si profilano minacce oscure come quelle dell’uso bellico dell’energia atomica e dell’uso sconsiderato della biotecnica. Dal punto di vista filosofico si deve dire che questa società, lungi dall’aver soppresso l’alienazione umana, la porta all’estremo per la tendenziale degradazione che importa dei rapporti sociali a rapporti strumentali che hanno come risultato una disumanizzazione reciproca del rapporto di alterità.

Occorre però precisare: tutto quel che Del Noce vuol dire è che la consapevolezza di questi esiti della secolarizzazione può essere un’occasione di autocritica per i suoi sostenitori. Tanto più questa autocritica si impone a chi, avendo rinunciato all’idea di verità, non ha altro argomento che la verifica storica. L’attenzione di chi comunque li registri si trova così rivolta alla linea di pensiero che nella storia dell’Occidente si è delineata in alternativa alla secolarizzazione fin dal suo sorgere. La cifra per la comprensione dell’uomo contemporaneo potrebbe essere non quella nietzschiana della morte di Dio, come sostenevano i teorici della secolarizzazione, ma quella pascaliana della scommessa, che è poi la cifra permanente dell’uomo in via. La possibilità di una riscoperta dei valori tradizionali, che con Del Noce impone l’interpretazione della storia della secolarizzazione in termini di una loro eclissi e non di un loro tramonto, si è rafforzata per una maggior consapevolezza della situazione storica. L’altra possibile direzione, che con del Noce potremmo chiamare pensiero tradizionale, riemerge dunque di diritto intatta. Di diritto, ho detto, perché si tratta anzitutto della riconquista della ricerca metafisica e della comprensione metafisico-religiosa dell’uomo nei confronti del riduzionismo delle scienze umane, che vorrebbero prendere il posto della metafisica predicando la propria autosufficienza, e perché viviamo in un ambiente così pregno di valutazione in senso contrario che il vivere soggettivamente quel che di diritto è possibile non è facile.

Del Noce ebbe a caratterizzare il ventesimo secolo come il secolo dell’eterogenesi dei fini. L’espressione «eterogenesi dei fini» richiama Vico, che la riconnette alla Provvidenza. L’idea di Provvidenza è pensata da Vico in senso ottimistico (Vico pensava alla storia romana). Nel caso della rivoluzione abbiamo uomini che non sono mossi dall’idea di Dio, ma dalla sua negazione; l’idea di rivoluzione come tentativo di sostituirsi a Dio nel governo del mondo implica la negazione dell’idea di Provvidenza. L’idea di eterogenesi dei fini non deve essere vista solo in modo positivo, ma anche negativo: gli uomini pensano di creare un ordine nuovo e assolutamente giusto, ma il loro risultato è dissolutivo. La connessione con l’idea di Provvidenza, nel senso vichiano di azione stimolatrice di Dio nello spirito umano e di governo della storia che può portare a esiti diversi e opposti i fini che consapevolmente gli uomini si propongono, resta tuttavia, precisandosi nella tesi che la coscienza del «capovolgimento delle intenzioni» sul piano storico mondano può essere intesa come occasione di autocritica, di riapertura a una dimensione dell’essere perduta, di approfondimento della situazione umana nei suoi confronti, quasi effetto di una superiore pedagogia divina. Si potrebbe pensare che questo sia uno dei possibili modi in cui il concetto di teodicea entri nella filosofia del nostro tempo. In questo senso non ottimistico Del Noce parla di razionalità della storia e ancora vichianamente di ordine che in essa si rivela: si tratta di un ordine trascendente la storia, che chiede di essere realizzato in essa in sempre nuove figure, dati i diversi contesti storici in cui si deve operare, la cui realizzazione passa attraverso la libertà e la fedeltà. In questa teodicea, mi pare di potere dire restando nello spirito delnociano, l’eterogenesi dei fini deve essere interpretata come occasione alla conversione.

* Estratto da: Augusto Del Noce: Verità e ragione nella storia - Antologia di scritti, a cura di Alberto Mina, introduzione di Giuseppe Riconda. Nato cattolico, per uscire dal cattolicesimo avrei dovuto avere delle "ragioni"; ma queste ragioni, proposte da più parti, non mi hanno mai convinto. L’antologia offre una panoramica del pensiero di Augusto Del Noce (1910-1989) attraverso una scansione in quattro parti, ciascuna delle quali dedicata a un tema nodale: l’ateismo come problema dell’età moderna, compimento e dissoluzione del marxismo, il momento fascista della secolarizzazione, secolarizzazione, nichilismo e cristianesimo. La scelta dei testi documenta il metodo di indagine di Del Noce, caratterizzato da una analisi minuziosa di questioni storiografiche, sostenuta sempre da un'elaborazione teoretica profonda e originale. Secondo Del Noce la ragione può attingere le questioni meta fisiche ultime solo attraverso la storia. Su questo sfondo il pensiero del filosofo piemontese anticipa alcune delle questioni di massima attualità per il pensiero, quali la possibile dissoluzione della società opulenta, della struttura democratica dalla polis nichilista e i possibili nuovi totalitarismi dovuti all’elusione delle questioni fondamentali della verità e della libertà. Lo sforzo della lunga ricerca di Del Noce fu quello di mostrare come il nichilismo sia l’esito inevitabile del razionalismo, ma non rappresenti il destino dell’Occidente: nel momento del suo compiersi esso svela anche la sua natura dogmatica e apre la via a una riconsiderazione critica della forza e della bontà per l’uomo della tradizione cristiana.