"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

La politica fa schifo, ma anche no

Dio è morto, Marx è morto e anche la politica non si sente tanto bene. Il Censis, l'istituto di ricerca socio-economica italiano, certifica quello che più o meno tutti avevamo notato: le chiacchiere politicanti del salotti televisivi hanno rotto le balle, come quei pastoni nei telegiornali dove alla dichiarazione metafisica di un parlamentare segue la dichiarazione altrettanto metafisica di un altro parlamentare di differente orientamento. Perché tanto, si sa, il governo propone e l'opposizione si oppone, tra partiti è un litigio continuo per mera logica di schieramento e di opportunità elettorali. E alla fine, almeno questa è l'impressione diffusa, la politica resta questione di parole al vento e programmi disattesi, stravolti, stracciati. Inconcludenza allo stato puro. Potrebbe non essere così. Potrebbe davvero diventare, secondo le alte aspirazioni, luminoso governo della pòlis. Se così non è, e forse mai sarà, tocca tuttavia accontentarsi di quel che passa il convento. Ma non si creda che sia un inedito, una novità.
L'occhio fino di Beaumarchais constata già a fine Settecento (Le nozze di Figaro): «Fingere di ignorare ciò che si sa benissimo e di sapere ciò che si ignora; fingere di capire ciò che non si capisce e di non capire ciò che si capisce benissimo; fingere di essere potenti al di là delle proprie forze; avere spesso da nascondere questo gran segreto, che non c'è nessun segreto da nascondere; sembrare profondi quando si è vuoti; darsi bene o male le arie di un personaggio importante; diffondere delle spie e stipendiare dei traditori; cercar di nobilitare la povertà dei mezzi con l'importanza dei fini: ecco che cos'è la politica». Visione un tantino pessimistica, d'accordo. Ma che vale la pena tenere a mente.

Annota nel 1978 uno stra-democristiano come Guido Gonella (Tribolazioni): «È evidente e stucchevole la permanente monotonia della politica italiana. Sempre le stesse cose, sempre i soliti problemi insoluti, sempre la sicurezza nel garantire che si farà ciò che difficilmente sarà fatto, o che si farà bene ciò che verrà attuato malamente. Perché tutto questo? Le ragioni sono molteplici: 1) la politica è più assertiva che esplicativa... 2) la politica è generica... 3) la politica è unilaterale... 4) la politica è gladiatoria... 5) la politica è evasiva... 6) la politica è avveniristica... 7) la politica è spesso irresponsabile... 8) la politica è cristallizzata dal monopolio d'uomini e correnti che non hanno fantasia, e preferiscono ripetere luoghi comuni non impegnativi». E ancora: «La politica dell'astrattismo è più che mai viva, proprio mentre è moribonda l'arte astrattista. Un estraneo alle faccende politiche, ammesso come uditore a dibattiti di partito, riuscirebbe con difficoltà a capire che cosa veramente si vuole... In dibattiti del genere, invano si attende che il professore universitario parli della riforma degli atenei, che il giurista affronti i problemi del diritto, che l'economista segua le preoccupanti vicende economiche, che il sociologo indaghi sullo sviluppo dei fenomeni sociali. Invano si attende che ciascuno faccia il proprio mestiere. E, si badi bene, non è che manchino in queste assemblee rettori d'università, giuristi di chiara fama, economisti di vasta esperienza. Eppure, tutti preferiscono parlare della stessa cosa: apertura e chiusura, sinistrismo e destrismo, conservatorismo e progressismo, verticismo e basismo. La passione della tattica e il culto della forma, isolata dal contenuto, attira tutti e travolge tutti... La politica dell'astrattismo tatticista è, ad un tempo, causa e conseguenza del distacco della classe politica dalla vita del Paese. La politica diviene fine a se stessa. L'ermetismo è l'anticamera dell'incomunicabilità. Da ciò la conseguenza della progressiva impopolarità dei partiti, chiusi nei loro sofistici areopaghi, preoccupati di dire e ridire frasi rituali, di ripetere liturgie noiose, di bruciare grani d'incenso a determinati personaggi». Bisogna stare bene attenti, perché «l'astrattismo della politica è non solo una malattia. È anche una furbizia. Permette di non logorarsi nello studio sempre duro dei problemi concreti; permette di non essere accantonati; permette di lasciare le porte aperte a tutto: a ciò che si dice, a ciò che non si dice, a ciò che si sottintende. In realtà, le porte restano spesso aperte sul vuoto. Il non compromettersi finisce per significare un non impegnarsi». Però «ciò che non si conclude nelle camere delle assemblee politiche si conclude nelle anticamere, più affollate delle assemblee stesse, nelle logge delle correnti e sottocorrenti. Da ciò la decadenza del costume politico che denuncia la tattica del doppio binario... L'opinione pubblica intuisce benissimo tutto ciò e la sua disistima per i partiti e la politica cresce con progressione geometrica. In tal modo si contribuisce a preparare i funerali della democrazia».

Forse questo desiderio brutale - percepito sempre dal Censis - di uomo forte al potere, da intendersi come uno che risolva i problemi della gente e non viva su un altro pianeta lontano dalla vita concreta delle persone concrete, dalla realtà e dalle difficoltà quotidiane, nasce e si alimenta e cresce proprio così.