Il 7 e 8 giugno 1970 si votò in Italia per eleggere i Consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario. Era la prima volta, le istituzioni regionali rappresentando una creatura nuova. Una riflessione.
Cinquant’anni fa cominciava ufficialmente il Declino Italiano. Era di maggio e il 16 di questo mese nascevano le Regioni, con cui si faceva irreversibile la decadenza del Paese. Dico ufficiale, perché la società italiana era esplosa con la crisi del ’68 che attaccò la famiglia, la scuola, l’università, i linguaggi e i costumi, i rapporti sociali e generazionali. Poi col ’69 andò in crisi il modello industriale del nostro paese, sotto attacco sindacale e demagogico. Ma fu con l’istituzione delle Regioni che l’Italia rese ufficiale il suo declino, anche nel senso che andò in Gazzetta Ufficiale. Fu un declino istituzionale.
Finì allora il modello unitario, centralistico, napoleonico, che era stato nel bene e nel male il volano che aveva portato l’Italia da paese spezzettato, agricolo, analfabeta a paese unito, modernizzato, alfabetizzato. Tanti i difetti e le tare di quello stato e tante le pagine ingloriose per non dire infami: ma per cent’anni e più dalla proclamazione di Roma capitale alle Regioni, quel modello aveva retto, aveva sopportato svariate emorragie: l’emigrazione, le due guerre mondiali, il contagio della spagnola, la crisi economica mondiale del ’29, il passaggio dalla democrazia parlamentare alla dittatura, la caduta del fascismo e poi della monarchia. Il paese era cresciuto, le condizioni economiche e sociali erano migliorate, la pubblica istruzione aveva fatto passi da gigante. L’Italia dei prefetti e delle province, nell’ambito unitario e centrale, era diventata una delle grandi nazioni al mondo.
Con le regioni si adempiva, si disse, un dettame costituzionale. In realtà il costo pubblico raddoppiava e il debito pubblico diventava esorbitante; il costo della politica cresceva a dismisura, col personale politico che triplicava, solo a considerare le assemblee elettive regionali, i governi regionali e tutti gli enti che derivavano. E non venivano soppresse le province, si facevano mastodontici i comuni. Nascevano le comunità montane o altre forme di rappresentanza intermedia. La sanità assunse costi elefantiaci. L’esempio nefasto fu quello delle regioni a statuto speciale, in primis la Sicilia: dovevano essere la dimostrazione di quanto fosse negativo dare autonomia alle regioni, espandendo costi, appalti, personale, clientele, corruzione. E invece l’Italia si imbarcò, con un voto quasi unanime (votarono contro solo le destre, il Msi in particolare che poi crebbe nelle piazze, meno nelle urne). E subito dopo esplosero conflitti cittadini dentro le regioni, a Reggio Calabria e poi a l’Aquila. Le regioni avrebbero col tempo alimentato i conati separatistici, le minacce di secessione e di devolution, e le forme di disintegrazione nazionale.
Le regioni non avvicinarono i cittadini alle istituzioni ma crearono un’ulteriore intercapedine che li allontanò, ingrossando la casta e i suoi affluenti e affiliati, clientes e beneficiari. La crescita abnorme delle regioni fu infine sancita dalla modifica del titolo V della Costituzione che attribuiva alle Regioni nuove sfere di sovranità. Sono oltretutto creature artificiali: perché l’Italia ha differenziazioni storico-geografiche che non coincidono quasi mai con le regioni. Diversità tra metropoli e province, tra zone marine ed entroterra; e nella stessa regione differenze secolari di territori, signorie, economie, culture. Ci sono in Italia una cinquantina di territori con una loro coesione storica, mentre le regioni, più delle province, furono una forzatura.
Inflazione e deficit schizzarono a livelli insostenibili, e la sovranità nazionale, già dimezzata all’esterno, fu indebolita pure all’interno. Sul piano politico, le Regioni servirono a subapplatare al Pci almeno quattro regioni; poi ne conquistò altre. Quella conquista fu l’anticamera del modello consociativo che poi riconobbe al Pci la presidenza delle camere, il controllo della nascente terza rete Rai e del relativo telegiornale, la propagazione nel sottogoverno e il via libera alla conquista di alcuni settori cruciali (magistratura, scuola, università, e ovunque sorgessero “collettivi democratici”). Con la crescita abnorme dello statalismo crollava il prestigio dello Stato. Cominciò il declino degli statali, in primis docenti, anche nello status sociale. “Statale” diventò da allora quasi un’offesa.
Il declino italiano fu poi drammaticamente attestato negli anni Settanta con l’esplosione del terrorismo – rosso e nero – la cupa lacerazione degli anni di piombo, la diffusione degli estremismi, la ripresa artificiale della conventio antifascista e dell’arco costituzionale. Anni bui, lividi, insanguinati, aggravati dalle crisi internazionali: come la crisi petrolifera ed energetica che ci fece cadere dal dorato e spensierato benessere degli anni Sessanta.
A uno sguardo più ampio, disteso nei secoli, si potrebbe dire che il declino italiano sia cominciato molto prima, o che addirittura sia coetaneo alla stessa nascita dell’Italia. Anzi sostengo una tesi ancor più radicale: il declino italiano ha perfino preceduto la nascita dell’Italia unita. Vi sembrerà un paradosso ma il rimpianto per l’Italia, il lutto per la sua morte ha preceduto la sua nascita nei secoli, se non nei millenni: c’era una nostalgia d’Italia che già si incrociava col declino imperiale romano, poi nel Medioevo, per non dire di tutta la letteratura della nostalgia di un’Italia perduta, corrotta e asservita (il suo punto più alto fu toccato con Dante) che si snodò nei secoli e nelle opere che precedettero il Risorgimento e ne alimentarono la nascita e lo sviluppo.
Ma nella nostra storia, quella da cui proveniamo, il declino italiano cominciò cinquant’anni fa. Poi l’Italia sembrò riprendersi un paio di volte: nei vitali anni Ottanta o con la svolta annunciata negli anni Novanta. Ma la decadenza riprese la marcia. E oggi...
(Marcello Veneziani, da La Verità del 12 maggio 2020)