“Nel mio abbozzo sono sostenuto dalla tesi,
materia di fede, secondo cui l’umanità avrebbe
un’unica origine e un’unica meta. Origine e
meta ci sono ignote”
K. Jaspers
Deve suonare ben strano, in un contesto post-moderno, un libro sulla civiltà del mondo, frutto di una filosofia della storia contenente uno sguardo comprensivo sul più lontano passato e il prossimo futuro. Nell’era “post-qualunque-cosa” (Appadurai), dove ogni narrazione di grande respiro, ogni grande sintesi sulla lunga durata, e persino ogni studio di grande portata è frantumato dallo specialismo che delimita il breve periodo, ci si può interrogare sul senso e lo scopo dell’umana avventura? E poi, come superare il sospetto che l’etnocentrismo è spesso dietro l’angolo di ogni storia universale?
In realtà quello che si introduce qui e che si ripubblica in italiano in una nuova collocazione editoriale, dopo un periodo in cui era diventato introvabile nella nostra lingua ma non in altre (in inglese è sempre stato disponibile The Origin and Goal of History), è un libro importante che ambisce a diventare un classico. Un classico, ovvero un libro che smette di invecchiare, che salta fuori dal tempo perché intercetta alcune tendenze del tempo e della storia degli uomini che sono non solo ancora in atto, ma che possono addirittura essere decisive nel determinare esiti opposti nel prossimo futuro. Un libro che offre un’occasione per varcare i confini disciplinari e interrogarsi a tutto campo sul destino umano nell’era globale.
Socrate, Confucio, Buddha e Zarathustra. Appartengono al Periodo Assiale come le Upanishad e i grandi profeti ebraici (Geremia, il secondo e il terzo Isaia, Ezechiele) |
In realtà quello che si introduce qui e che si ripubblica in italiano in una nuova collocazione editoriale, dopo un periodo in cui era diventato introvabile nella nostra lingua ma non in altre (in inglese è sempre stato disponibile The Origin and Goal of History), è un libro importante che ambisce a diventare un classico. Un classico, ovvero un libro che smette di invecchiare, che salta fuori dal tempo perché intercetta alcune tendenze del tempo e della storia degli uomini che sono non solo ancora in atto, ma che possono addirittura essere decisive nel determinare esiti opposti nel prossimo futuro. Un libro che offre un’occasione per varcare i confini disciplinari e interrogarsi a tutto campo sul destino umano nell’era globale.
Una storia che includa anche il futuro
È stato detto e ripetuto che forse l’uomo non ha una natura ma quello che ha è una storia, anzi che non ha una storia ma è la sua storia. Questo animale culturale per natura incontra la società, la cultura, la storia, ovvero il mondo dell’artificiale che lui stesso produce e ne rimane irretito. Le tensioni e pulsioni biologiche vengono canalizzate dalle istituzioni e finalizzate dalla cultura fino ai più alti vertici della spiritualità e dell’arte. Ma se tutto è storia, la storia in realtà è passata, non c’è più. Essa rimanda al pozzo senza fondo del passato.
La storia è una forma simbolica che agisce nel presente e la stessa conoscenza storica è sempre una risposta data dal passato alle domande poste dal presente. Come ha scritto, tra gli altri, F. Braudel, “la storia non è altro che una continua serie di interrogativi rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del presente che ci circonda e ci assedia”. Allora è evidente l’intreccio inestricabile tra passato e presente. E il futuro? La dimensione del futuro sembra non avere alcun legame con la storia anzi forse è qui che la storia come disciplina si differenzia dalla filosofia. Nelle filosofie della storia è il futuro che determina il passato e il presente. Eppure, a pensarci bene, la storia ha sempre a che fare anche con il futuro, è il futuro passato, è stata creata nella tensione verso il domani. Essa ha a che fare con l’agire e con la prospettiva, per cui capiamo bene il senso dell’affermazione di F. Schlegel che lo storico è “un profeta con lo sguardo rivolto indietro”. E, sotto la scossa di Nietzsche, possiamo capire anche come la storicità può ostacolare l’impulso all’azione, perché per agire, per muovere dei passi verso il futuro, bisogna forse dimenticare. Quindi anche in un altro senso, oltre l’ovvia constatazione che senza un passato non c’è futuro, appare fondamentale l’idea di Jaspers che “una concezione della storia che voglia coprire la totalità delle cose umane deve includere il futuro”(183).
Lo studio della storia ci ricorda che ogni avvenimento è unico, singolare, irripetibile. Eppure parliamo della storia come maestra di vita. Ma se il più grande insegnamento della storia è che dal futuro possiamo aspettarci di tutto, se niente si ripete, che senso ha lo studio del passato? E poi oggi non è pensabile una storia o una storiografia senza un riferimento alle scienze umane, alle scienze sociali e queste cercano non solo la descrizione di ciò che è unico ma anche la tipizzazione di ciò che tendenzialmente tende a riproporsi nel comportamento umano. Non diciamo gli universali ma i bisogni, le funzioni, le strutture. Nel nostro caso, la combinazione tra processi strutturali, contesti storici e modelli di civiltà. Allora la storia, soprattutto la storia della cultura, diventa anche sociologia della cultura, una sociologia capace di scandagliare le continuità e le strutture, e quindi più che una sociologia della cultura una grande e comprensiva sociologia storica e configurazionale che mette a tema le grandi configurazioni che agiscono nel tempo-spazio, senza mettere però in disparte l’imprevedibile spontaneità dell’agire umano e l’azione di forze trascendenti. E in questo riferimento alla sociologia delle grandi configurazioni storiche non dimentichiamo, anzi è bene ricordarlo subito, che K. Jaspers è stato allievo e ammiratore di Max Weber.
E che dire poi del rapporto tra la storia, la biologia e l’etologia. Una visione evolutiva, se viene accettata nell’ambito biologico, viene invece messa subito in discussione in ambito sociale, culturale e storico. Eppure, storia ed evoluzione non si contrappongono, come determinismo e libertà, ma si implicano reciprocamente. La storia è complessa e contingente, piena di sorprese e spesso sconcertante per cui ogni meta-narrazione sembra perdere ogni autorevolezza. Ma “la vita è sempre stata in una certa misura auto-determinazione, sebbene esista in un cosmo in cui eventi come le collisioni meteoriche o le eruzioni vulcaniche più catastrofiche hanno interrotto, di volta in volta, i ‘normali’ processi evolutivi” (R. Bellah).
È in questo incrocio disciplinare che si situa il libro di Jaspers. La sua ricerca precedente lo aveva già condotto ad un nuovo uso della distinzione tra lo spiegare e il comprendere applicata ai fenomeni psichici a lui familiari come psichiatra. Lo spiegare consiste nel trovare le cause e, ad un livello più alto, ad individuare delle leggi. La comprensione parte dall’interno ed ha come scopo l’intero dell’uomo come totalità inesauribile. Ma, se la spiegazione scientifica e quella storica, che ambisce ad essere una scienza il più possibile vicina ai fatti, deve pagare il prezzo alla cosiddetta “legge di Hume”, per cui è interdetto il passaggio dall’essere al dover essere, e deve occuparsi solo della causalità. Di contro, una storia che punti anche sulla comprensione non esclude la finalità. E questo elemento lo troviamo anche nella sua idea di Weltanschauung, di visione del mondo che “non si esaurisce in un sapere, e importa anche una valutazione, una formazione della vita, un destino, una viva e intima sperimentazione di un ordinamento gerarchico dei valori”. È la kantiana ragione che produce idee andando oltre il finito, l’empirico, lo sperimentale, verso una “fede filosofica”. Pur negando ogni determinismo sia di tipo materialistico che idealistico, sapere da dove veniamo può aiutarci a capire che cosa sta accadendo e dove potremmo dirigerci. Siamo comunque obbligati a riflettere seriamente sui grandi problemi a cui è posta di fronte oggi la società globale e persino ad assumere una posizione profetica rispetto ad essi, unendo la prospettiva scientifica e quella religiosa.
Anche in ragione di ciò, l’interesse di questo libro travalica l’ambito filosofico per spaziare e contribuire, sotto molti aspetti, al dibattito di punta in numerosi settori delle scienze umane e delle scienze sociali.
La trasfigurazione assiale della storia
Uno dei più importanti contributi contenuti in quest’opera è l’introduzione del concetto di Età Assiale (Achsenzeit). Con questa espressione Jaspers indica una realtà empirica, un periodo lungo seicento anni che va dall’800 a. C. al ‘200 a. C.. Cinquecento anni prima di Cristo, in cinque luoghi differenti dell’Eurasia nascono una serie di profeti, filosofi e sapienti capaci di imporre una nuova visione del mondo, figure religiose o politiche che, con il loro pensiero, hanno contribuito a imprimere una svolta al corso della storia. Cinque luoghi di irruzione: Grecia, Palestina, Persia, Cina, India. Confucio e Lao-tse in Cina, le Upanishad e Buddha in India, Zarathustra in Iran, i profeti di Israele nel Medio Oriente, Omero, i filosofi, i tragici in Occidente, ne rappresentano i vertici. L’Età Assiale coincide con la nascita spirituale dell’umanità. È un periodo in cui si sviluppò la coscienza di sé dell’uomo e la scoperta dello spirito, quelle che si sarebbero chiamate più tardi ragione e personalità. Da quel momento l’uomo seppe anche di avere una storia. Un’epoca in cui si crearono grandi conflitti, una grande inquietudine, a cui sopravvenne storicamente il collasso da cui nacquero i grandi imperi storici.
Jaspers scopre come un “asse” della storia, nel senso che sta in mezzo tra la preistoria, la prima parte della storia delle civiltà millenarie e la storia mondiale moderna, un asse rispetto a cui tutto lo svolgimento precedente appare come una preparazione e quello successivo come una nuova coscienza. Un asse anche nel senso della sua verticalità, nel senso che esso indica una dimensione trascendente, una struttura di auto comprensione storica per tutti i popoli il cui vertice è ipotizzabile intorno al 500 a. C.. “Lì c’è come una linea di demarcazione della storia”. Lì sorse l’uomo come lo conosciamo, lì sorse la modalità in cui all’uomo è ancora data la sua autocomprensione fondamentale.
Jaspers riprende in questa nozione di assialità un’espressione che già Hegel aveva usato nelle Lezioni di filosofia della storia per indicare il “punto di svolta” e il “cardine” costituito, nella sua visione della storia universale, dall’avvento del Cristianesimo. “Questo nuovo principio è il cardine intorno al quale gira la storia mondiale. Fin qui arriva la storia e a partire di qui riprende il suo corso”, così scriveva Hegel a proposito del punto di svolta Cristiano-centrico e Euro-centrico. La novità introdotta da Jaspers, e che rappresenta una delle ragioni di attualità del suo discorso, è che la svolta assiale coinvolge quasi simultaneamente almeno cinque visioni del mondo o religioni che stanno all’origine di altrettante civiltà. “E questo contemporaneamente ma senza che nessuno sapesse delle altre”. La nascita è simultanea e parallela e non c’è nessuna gerarchia tra le diverse civiltà. Esse hanno, come vedremo più avanti, una parentela profonda ma sviluppi diversi e indipendenti. Questa apertura rende l’analisi jaspersiana molto utile di fronte alla società globalizzata.
Che cosa si annuncia nell’Età Assiale? L’uomo prende coscienza dell’essere nella sua interezza, prende coscienza dei suoi limiti e anela alla completezza e alla trascendenza. Questa tensione dette vita a conflitti spirituali. In questo caos vennero elaborate le categorie fondamentali secondo cui pensiamo ancora oggi. “In ogni senso fu compiuto il passo nell’universale” (21). Le tradizioni e i costumi vennero messi in discussione, eliminati e trasformati. L’epoca mitica con la sua quiete era alla fine. Le concezioni nuove erano in lotta contro i miti, per questo ne furono creati di nuovi e nacquero le religioni del Dio unico. Ci fu una nuova spiritualizzazione: dalla calma dell’essere-dentro-della-vita si passa all’inquietudine della polarità degli opposti e delle antinomie. L’uomo non è più chiuso in se stesso ma incerto e aperto a nuove infinite possibilità. Per la prima volta compaiono i filosofi. Degli uomini osarono contare su se stessi come individui. Altri, eremiti e pensatori vaganti, diffusero i loro semi spirituali. L’uomo si mostrò capace di contrapporsi interiormente all’universo intero. Il pensiero speculativo e la ricerca dell’uomo autentico, il ritiro e la fuga dal mondo, esaltarono la ragione e misero al mondo la personalità. La distanza tra le vette raggiunte da alcuni e le masse era enorme. L’esserci umano diviene oggetto di analisi come storia. Ci si vede di fronte ad una catastrofe e si vuole fare qualcosa con la perspicacia, l’educazione, la riforma. L’ascesa comportò anche distruzione oltre che creazione. L’esito della rivoluzione assiale fu politico, fu, secondo Jaspers, la creazione di grandi imperi secolari che presero il posto di regni frantumati.
Ma prima che cosa c’era? Nel profilo della storia universale disegnato dal filosofo tedesco all’inizio c’è la lunga preistoria umana che fa emergere la coscienza dell’unicità dell’uomo sulla terra. Alla lunga preistoria segue la storia pre-assiale che abbraccia circa cinquemila anni e si articola nelle antiche alte civiltà che però vissero come delle storie separate da cui scaturì “il balzo in avanti” verso l’universale rappresentato dal periodo assiale. Ora, ovvero quando l’autore scrive (1949), ovvero all’inizio della seconda metà del secolo scorso, si sta dispiegando una nuova era planetaria, una vera e propria storia mondiale che comincia in Occidente ma si diffonde su tutta la terra. Jaspers scrive che questa terza fase appartiene essenzialmente ancora al futuro. Ora, che quel futuro si è in parte compiuto, possiamo dire che la spinta verso la globalizzazione si va realizzando e Jaspers non si era sbagliato. Nella terza fase si va verso l’unità del tutto, la chiusura dello spazio oltre la quale non si può andare. Siamo in una nuova Età assiale oppure siamo al compimento di premesse fondate proprio nell’Età assiale?
Vedremo più avanti la portata di questa domanda. Secondo Jaspers quello che sopravvive di quel fondamentale momento della storia persiste solo se viene integrato nelle nuove civiltà assiali altrimenti scompare. Tutti i popoli che non hanno preso parte al periodo assiale, quelli africani, ad esempio, sono rimasti primitivi oppure si sono trasformati venendo a contatto con i tre centri di irradiazione. Fino ad oggi la civiltà è vissuta di quello che è stato creato durante il periodo assiale.
Prima di proporre la sua tesi, Jaspers afferma il suo debito nei confronti di tre autori a cui riconosce il merito di aver precorso o in qualche maniera creato il concetto di civiltà unitarie, ovvero O. Spengler (con il suo Tramonto dell’Occidente, 1918) e Alfred Weber (con la sua Storia della cultura come sociologia della cultura, 1935), così come A. Toymbee (Una studio della storia, 1935). Questi autori parlano delle civiltà come organismi storici. Spengler, che ne enumera otto, Toymbee ventidue, pur nella diversa diagnosi e prognosi storica, tutti traggono dalle loro concezioni delle previsioni per il futuro. Poi Jaspers prende in considerazione alcune delle spiegazioni storiche più accreditate al suo tempo. Perché è avvenuto lo stesso fatto parallelo in tre realtà? Sono storie separate. La risposta che prende più in considerazione, se non altro per il metodo con cui è stata trovata, è quella di Alfred Weber, il meno famoso ma altrettanto geniale fratello di Max Weber. La risposta è quella dell’irruzione dei popoli delle bighe, degli uomini a cavallo in queste civiltà e che fece conoscere il cavallo alle alte civiltà. Grazie al cavallo ci si rese conto della grandezza del mondo. Prima c’erano le grandi civiltà matriarcali statiche di allevatori ed agricoltori, poi arrivarono i grandi popoli conquistatori a cavallo, liberi e in movimento, in procinto di diventare coscienti. Questi sconvolsero l’Eurasia e questo è stato il terreno di fioritura delle civiltà successive.
Vale la pena qui accennare che oggi c’è una ripresa dell’attualità di questa tesi che è suffragata dalle ricerche di una geniale antropologa lettone, M. Ginbutas, la quale ha portato prove inconfutabili dell’esistenza, non di una società matriarcale che sarebbe simile a quella successiva patriarcale, ma di una “civiltà della dea” per la presenza diffusa di divinità femminili. Una civiltà pre-indoeuropea, che nel 4500 a. C. sul continente europeo ospitava un gruppo fiorente di culture devote alla religione della dea. Dall’eguaglianza antico-europea di questa civiltà si passò alla diseguaglianza indo-europea, la prima era centrata sull’interazione armoniosa degli uomini con la natura e sulla complementarietà dei rapporti tra uomini e donne, la seconda sulla gerarchia dei tre ordini. L’Europa del neolitico e dell’età del bronzo (6.500-3.500 a. C.) non era indoeuropea. La civiltà della dea viene sostituita progressivamente, a partire dal V millennio a. Cristo, dalla cultura Kurgan, detta così dalle tombe a fossa. Popolazioni di pastori nomadi, orde a cavallo, dotate di armi di bronzo, con divinità maschili (gli dei del tuono, della caccia, del cielo, del cavallo, delle armi), nomadi (il nomade ha uno scarso legame con la terra e il dominio delle divinità femminili come forze universali è assente), con una psiche che si alimenta di un continuo bisogno di espansione, che dal Caucaso si muovono e provocano il passaggio dal complesso mosaico di culture agricole, un substrato egualitario degli agricoltori antico-europei, ad un’economia prevalentemente pastorale, patriarcale e stratificata. Una società in equilibrio, una cultura che si deliziava dei prodigi naturali, una cultura dell’arte in cui il potere era visto come la responsabilità che la madre ha nei confronti del figlio, e non come dominio. L’allevamento, la ceramica, la scrittura, la tessitura sono eredità di quel periodo capace di vivere in un luogo in armonia con la natura. Questa incursione nella preistoria, alla luce di nuove ricerche successive al tempo in cui Jaspers scriveva, confermano però la bontà del suo approccio. Il lungo passato preistorico, che può essere stato un periodo di pacifica convivenza, può tornare a compiersi nel prossimo futuro, se siamo stati uniti tra noi e con la natura all’inizio lo possiamo tornare ad essere. Di nuovo, l’origine rimanda al senso.
Ma torniamo alla tesi di Jaspers che, pur riconoscendo l’ingegnosità metodologica delle tesi di Alfred Weber, pensa che sia insufficiente a spiegare la nascita del periodo assiale. L’altra teoria è quella dei piccoli stati in conflitto fra loro, ma ambedue le spiegazioni illuminano ma non portano al risultato creativo. Lo stupore di fronte al fiorire dell’Età Assiale è dovuto alla massima concentrazione del sapere che poi accede alla conoscenza autentica che lascia aperta la spiegazione senza chiuderla in un oggetto.
La creazione di questa frattura storico-spirituale crea, come osserva P. Sloterdijk che ha ripreso il concetto jaspersiano per farne uno degli elementi fondamentali del suo decisivo saggio Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2010), un’umanità a due velocità. La scoperta dello spirito, la differenza tra abitudini e passioni, l’affermarsi delle religioni trascendenti, l’invenzione della scrittura, diffondono la convinzione che nella vita di prima non c’è salvezza. Nasce l’imperativo di tutti gli imperativi, la necessita di cambiare vita. Si produce così una differenza base rispetto a tutta la propria esistenza. Asceti, meditanti, pensatori, secessionisti si distaccano dai sedentari. Eremi, monasteri, accademie, sono spazi per il ritiro, per avvicinarsi al cielo. “Tremila anni fa, in molte civiltà avanzate prese vita un moto di separatisti”. Ed ha ragione ancora Sloterdijk quando sostiene che “la sociologia non può spiegare come si sia giunti a questo”. Nasce così la nozione di uomo interiore per il quale l’appropriazione di sè comporta l’abbandono del mondo. Allora lo scoprire se stessi diventa un compito infinito. Ma, come osserva Jaspers stesso, “il problema del senso del periodo assiale è completamente diverso da quello della sua causa” (39).
Il concetto di trascendenza e la capacità di autoriflessione individuale e collettiva sono alcune delle eredità dell’Età Assiale, questo concetto si pone come fondamentale per la comprensione di una storia universale o dei cambiamenti storici che tendono alla globalizzazione assieme a termini quali modernizzazione, evoluzione cognitiva, memoria collettiva e universalizzazione.
Come è emerso nel famoso convegno di Erfurt tenuto nel 2008, i cui risultati hanno dato vita alla pubblicazione curata da R. Bellah e H. Joas, The Axial Age and Its Consequences (2012) e non a caso dedicata alla memoria di Karl Jaspers, sia che si intenda l’Età Assiale come una fondamentale acquisizione sul piano storico riguardante le società antiche, sia che la si intenda invece come un progetto non ancora concluso che dal passato alimenta ancora le vene profonde delle società contemporanee, in entrambe i casi indica che la vita sociale, culturale e politica può essere adeguatamente compresa solo quando è messa in relazione con le idee guida della vita spirituale, con le visioni del mondo e i valori ultimi in cui le comunità umane trovano un orientamento sulla faccia della terra e affrontano i propri sentimenti di vulnerabilità, finitezza e fallibilità di fronte alle potenze cosmiche.
Il libro di Jaspers ha imposto così la nozione di Civiltà Assiale come un punto di riferimento storico, sociologico e filosofico a cui molti autori hanno poi fatto riferimento in seguito, un concetto vivo nel più aggiornato dibattito contemporaneo.
Un’altra eredità duratura dell’Età Assiale legata alla frattura che essa ha provocato all’interno delle società e delle culture coinvolte tra i sedentari e chi si è messo in cammino animato da una nuova profezia, è la diffusione della critica sociale. “Sarebbe troppo semplice interpretare le transizioni assiali come forme di lotta di classe, ma non si può negare che siano state tutte caratterizzate dalla critica sociale e da giudizi severi sulle condizioni politiche e sociali esistenti” (R. Bellah). Questa crisi e questa critica sono tipiche della tensione creata dalla trasfigurazione assiale della storia che, una volta messa in moto, si ripeterà tante volte nella storia successiva fino a quella attuale. Nell’Età Assiale avviene anche una rottura che provoca la nascita di una coscienza teoretica. Nell’opera di R. Bellah, Religion in Human Evolution (2011), definita da J. Alexander “un Bildundsroman della specie umana”, la rottura assiale è la dimostrazione di quanto l’uomo possa cambiare destino e quanto possa sottrarsi quindi al destino stesso, anche se poi esiste quello che può essere definito il path dependance ovvero, dopo che si è intrapresa una via evolutiva è più difficile cambiare strada.
Come si è domandato Bellah, la rottura assiale ha reso possibile una vita morale, ma saremo mai in grado di sistemare le nostre società al punto che, circondati da tutta la nostra ricchezza, potere e consapevolezza critica, sapremo vivere in modo sostanzialmente morale? La coscienza morale, la capacità di giudizio critico, la capacità teoretica di accedere all’universale, per certi versi, la cultura post-assiale è irriducibile agli interessi dei poteri dominanti e alle condizioni materiali. La cultura che è stata generata ad Oriente e ad Occidente consente lo sradicamento dalle appartenenze locali, permette la trascendenza morale e l’indipendenza intellettuale. La rottura assiale, la conoscenza distaccata che è stata generata, è la fonte di produzione di ogni utopia e di ogni ideologia, di ogni visione idealizzata dell’ordine sociale ma anche della stessa pedagogia.
La grande pedagogia delle civiltà e l’invenzione dell’educazione
L’educazione è qualcosa di innato per un essere che, soprattutto nella sua infanzia, si distingue per la sua plasticità e per la sua incompletezza. Noi nasciamo incompetenti e dobbiamo apprendere quasi tutto. Per cui l’uomo è colui che deve essere educato e la sua formazione culturale costituisce un fatto naturale, è destinato dalla natura all’apprendimento culturale. Ma, l’educazione intesa come lo sforzo cosciente di formare e riformare sia gli esseri umani che la società, l’educazione come tensione cognitiva ed etica al perfezionamento, l’educazione come formazione e viaggio interiore, è una delle conseguenze, delle eredità lasciate dalla svolta dell’Età Assiale alla società globale di oggi. Come ha sostenuto uno dei collaboratori di R. Bellah, William M. Sullivan, possiamo considerare l’educazione come una creazione dell’Età Assiale. Così l’educazione può essere concepita come l’insieme delle pratiche che in ogni tempo e in ogni società si sono occupate dello sviluppo umano e della ‘coltivazione’ dell’umanità e allo stesso modo la pedagogia, come sapere delle potenzialità, ne ha rappresentato la riflessività e la teorizzazione. Eppure possiamo parlare di una grande pedagogia che coincide con l’azione delle civiltà stesse. L’approccio alle civiltà porta a pensarle come una forma di grande pedagogia offerta dalle religioni, dall’economia, dal paesaggio, dalla politica, dalla tecnologia, dall’etica. Le civiltà appaiono allora come giganteschi processi educativi che modellano la società, la cultura e la personalità, lasciando segni profondi attraverso i secoli. Su questi si innestano oggi le modernizzazioni e le razionalizzazioni, ma gli stessi cambiamenti vengono a loro volta modificati da queste eredità.
La grande creatività culturale del periodo assiale della storia ha prodotto ed è stata poi alimentata dall’autonomizzarsi di un ceto di chierici, intellettuali e pedagoghi che hanno prodotto tutte le visioni tese alla ricostruzione dell’uomo e della società su nuove basi. Venne creata quella tensione interna di cui ancora vive l’educazione e la pedagogia. Tensione che si va esaurendo da una parte e, forse, ricaricando dall’altra con il bisogno di una educazione nuova all’altezza di una civiltà nuova, comprensiva dell’eredità del meglio di tutte le civiltà del mondo.
È evidente che questo approccio ha molte difficoltà, come direbbe M. Foucault, “qualcosa che è più di una ipotesi ma meno di una tesi”. Esso si basa sulla comparazione e “la comparazione tra civiltà è un rompicapo” (F. Ravaglioli). E la comparazione ha bisogno di una grande erudizione, di una specie di storia globale, soprattutto oggi che si muove sullo sfondo del gigantesco complesso di cambiamenti epocali che vanno sotto il nome di globalizzazione e, come ha scritto Appadurai, uno dei massimi studiosi del fenomeno, ogni discorso che abbia per oggetto la globalizzazione “è un esercizio di megalomania”.
Ma che cos’è una civiltà? Le civiltà nascono con le città, nell’età del bronzo. Come ha osservato J. Goody, la rivoluzione dell’età del bronzo ha prodotto la cultura delle città. È infatti dal latino civitas, la città, che deriva la stessa parola “civiltà”. La cultura della città, nata in Mesopotamia e in Egitto intorno al 3000 a. C. e poi diffusasi anche in altre parti dell’Eurasia, ha prodotto l’alta cultura con tutte le sue manifestazioni come la scrittura, la pittura, l’alta cucina, la cultura dei fiori, una musica e persino un’erotica. I lavori di Goody seguono una linea che conferma Jaspers perché l’unità geoculturale che lui prende in considerazione è l’Eurasia e ciò esclude l’Africa che, anche secondo lui, non ha mai sperimentato una civiltà in questo senso. Per Eisenstadt, di cui vedremo più avanti il dialogo con l’opera di Jaspers, le civiltà sono una realtà costituita da un programma culturale, un immaginario distinto dalle altre, una radicale forma di intuizione ontologica, un insieme di nuove forme istituzionali. Per le società assiali, le civiltà si distinguevano poi tra loro per le diverse prospettive religiose.
Ma dietro il concetto di civiltà rimane sempre l’affascinante affresco di Spengler. Ogni civiltà è l’unione di paesaggio e destino. Le civiltà sono organismi che scaturiscono come forme indipendenti da un particolare paesaggio e clima. Otto civiltà unitarie, che nascono e declinano in una durata di mille anni, incomunicabili fra loro e quando ci sono dei trasferimenti si hanno delle pseudomorfosi e perturbamenti. L’alta cultura è l’esito di paesaggio e anima collettiva, un amalgama di clima e trauma. “La civiltà è il fenomeno originario di ogni storia mondiale passata, presente e futura… Fenomeno originario è quello in cui l’idea del divenire si presenta pura al nostro sguardo… Io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza elementare dal grembo di un loro paesaggio materno…civiltà, che imprimono ciascuna una propria idea e delle proprie passioni, una propria vita, un proprio volere e sentire, una propria morte… Ogni civiltà ha proprie, originali possibilità di espressione che germinano, si maturano, declinano e poi irrimediabilmente scompaiono”.
Per Toynbee le ventuno civiltà che si sono succedute sulla terra hanno una durata indeterminata, alcune possono sussistere senza tramontare, secondo il modello sfida (challeng) – risposta (answer). Per il già citato Alfred Weber, uno degli interlocutori di Jaspers, massimo rappresentante della Kultursoziologie di Heidelberg, la sua concezione universale della storia e la sua sociologia delle civiltà distingue le alte civiltà primarie, le civiltà secondarie di primo e secondo grado.
E poi c’è la ripresa del concetto di civiltà nella scuola delle “Annales” con F. Braudel. Per il grande storico francese “essere stati è una condizione per essere”. Quegli “animali possenti”, che sono le civiltà, sono realtà di lunga e lunghissima durata e sono saldamente aggrappate al loro spazio geografico. Nel Mediterraneo da lui studiato si articolano quella cristiana-romana, quella islamica e quella greco-ortodossa, che sono più antiche delle rispettive storie, perché continuano storie precedenti. Una civiltà plasma nel lungo periodo la mentalità. E questa, pur rappresentando una realtà sfuggente ed ambigua, ha una sua dinamica ed anche una sua inerzia, sia di moto che di quiete, che la distingue dalla struttura sociale e dai sistemi di produzione.
E Jaspers si inserisce in questo dibattito e contribuisce con il suo concetto di Civiltà Assiali, con la frattura che queste provocarono nella storia e con la successiva tensione che ne scaturì. Anzi, possiamo dire che quelle precedenti non erano propriamente civiltà, per cui civiltà e assialità sembrano quasi sinonimi. Ma il concetto stesso di civiltà è tutt’altro che semplice e rimane da definire ulteriormente, portandosi poi dietro l’interrogativo decisivo se la modernità sia oppure no una nuova Età Assiale. Nel futuro ci aspetta un nuovo periodo assiale? Si deve vedere nell’età moderna che va dal 1500 al 1800 un nuovo periodo assiale con la sua scienza e la sua tecnologia? Secondo Jaspers sembrerebbe di no. Si tratta piuttosto di uno sviluppo materiale, un nuovo prometeismo della tecnica che può portare ad una unificazione. “Il presente è un’epoca di reale rimodellamento tecnico e politico, non un’epoca di creazioni spirituali eterne. Possiamo paragonarci, con le nostre grandiose scoperte scientifiche e invenzioni tecniche, all’epoca dell’invenzione degli utensili e delle armi, del primo impiego degli animali domestici e dei cavalli, più che a quella di Confucio, Lao-tse, Buddha e Socrate” (182).
Civiltà assiali e modernità multiple: la modernità è una nuova civiltà assiale?
Uno degli sviluppi più interessanti del pensiero di Jaspers sulla storia e sulle conseguenze che il passato ha sul presente e sul futuro è stato quello di modernità multiple elaborato da S. Eisenstadt. Intanto si tratta di una prospettiva comparata e macrosociale che cerca di intercettare i fenomeni della modernizzazione e dello sviluppo dalle società tradizionali alle società moderne. Correggendo Weber e quindi avvicinandosi più a Jaspers, Eisenstadt sostiene che la modernizzazione europea non è il modello di una modernizzazione universale e convergente. La parabola della modernizzazione, della razionalizzazione del mondo, del disincanto ad opera della scienza e del dominio ad opera della tecnica, non costituisce un’unica parabola. La maggiore capacità di adattamento agli orizzonti sociali che si ampliano, lo sviluppo di una certa flessibilità dell’ego, un crescente apprezzamento dell’autoaffermazione e della mobilità, un’enfatizzazione sempre più marcata del presente, ovvero una estensione della razionalità e della libertà individuale, ovvero tutti i portati della modernità non hanno gli stessi esiti ovunque. O, meglio, non c’è una convergenza in un unico modo di diventare moderni. Non c’è un solo sistema, ma più sistemi pressoché mondiali non diretti da un centro, ma pluralistici e pluricentrici, ciascuno dei quali ha dato vita a dinamiche proprie.
Questa modernità multipla è la conseguenza delle diverse civiltà, di quei balzi in avanti determinatesi nell’Età Assiale che costituiscono ancora le linee di frattura fra i diversi modi di rispondere alla sfida occidentale della modernizzazione che, a questo punto, ha investito il mondo intero. E questa non è la sola eredità dell’Età Assiale. La politica ideologica, la stessa violenza rivoluzionaria legata all’ideologia è una conseguenza della frattura assiale. La tensione che si creò allora tra l’ordine trascendente e quello mondano e la istituzionalizzazione di questa stessa tensione, fornirono la possibilità di una critica radicale all’esistente. Le società pre-assiali vedevano il potere politico come incarnazione di un ordine cosmico che coincideva con quello sociale e viceversa. Questo faceva apparire quasi come naturali le istituzioni. La rottura di questo ordine cosmico inizia con l’avvento delle religioni assiali e per la politica si apre la possibilità di colmare lo iato che c’è tra l’essere e il dover essere, tra la realtà e la salvezza, tra l’ordine mondano e quello trascendente. Allora, anche la promessa può diventare una terra, la terra promessa delle rivoluzioni sociali.
Come ha sostenuto Eisenstadt, i processi rivoluzionari moderni e contemporanei assomigliano alla istituzionalizzazione delle grandi religioni e delle grandi civiltà assiali. Le rivoluzioni hanno infatti approfondito gli elementi escatologici e utopistici di società che si sono sviluppate allora. La critica è portata da un ceto di intellettuali e chierici molto differenti fra loro come i profeti o i sacerdoti ebraici, i filosofi greci, i letterati cinesi, i bramini indù, i shanga buddisti o gli ulema islamici. Su questa stessa struttura di base si aprono però le differenze anche tra le civiltà. La tradizione cinese, ad esempio, in cui confluivano Confucianesimo, Taoismo, Buddismo e legalismo, a differenza delle religioni monoteiste, rese la tensione tra l’ordine immanente e quello trascendente meno forte, per cui si affermò la prevalenza di una concezione ciclica del tempo e di armonia del cosmo.
Le società assiali posero il problema della salvezza in un modo completamente nuovo: la coscienza della morte, l’immortalità dell’anima e il bisogno di uniformare la vita ad esigenze etiche superiori crearono tensioni interne che hanno rappresentato la molla più profonda della stessa educazione e dello strutturarsi della personalità. Si diffuse una tensione infinita che nasceva dalla consapevolezza della parzialità o incompletezza di qualsiasi istituzionalizzazione dei valori trascendenti. E si diffuse anche una riflessività rispetto all’incertezza delle vie da seguire per raggiungere la salvezza. Per Eisenstadt, se da un lato tutte queste civiltà ebbero in comune la tendenza a una ricostruzione del mondo, dall’altra è da notare che non sia emersa affatto una storia universale omogenea e come i differenti tipi di civiltà non risultassero né simili né convergenti. Ad emergere è stata una molteplicità di differenti civiltà universali, divergenti eppure in continua interferenza reciproca. E questo sia nei periodi “storici” quanto nella fase di transizione alla modernità e nei differenti tipi di modernità sviluppatesi al loro interno.
(Raniero Regni, Arcaico futuro. La grande pedagogia delle civiltà. Introduzione a Origine e senso della storia di Karl Jaspers)