"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Il mondo là fuori

Ci risiamo. Il solito coro è tornato a intonare quella vecchia canzone della sconfitta di Trump alle prossime presidenziali americane. Come quattro anni fa, quando per mesi e mesi giornalisti, politologi e sondaggisti ci massacrarono i timpani esaltando le magnifiche sorti e progressive di Hillary Clinton. Poi, però, la realtà si è dimostrata diversa, eh già. Per dire, la nostra modesta impressione è che anche le rivolte pseudo-razziali di questi giorni lo stiano favorendo e non poco, diversamente dalla narrazione dei principali media, soprattutto in quell'America profonda dove le opinioni si tagliano con il coltello o si tiene la Bibbia in una mano e il fucile nell'altra. Ma insomma, un po' di memoria storica da un articolo del 9 novembre 2016: per una lezione (raccontare i fatti, non i propri desideri) ancora tutta da imparare.


Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Dopo mesi spesi di chiacchiere e ipotesi, questo è un fatto. Ma se per valutare il significato e le conseguenze di questo fatto sul piano politico ci vorrà tempo, sul piano giornalistico si possono cominciare a valutare già da ora, perché anche qui ci sono dei fatti: il racconto giornalistico di questa campagna elettorale, basato su sondaggi, sensazioni, opinioni, proiezioni (non statistiche, ma proiezioni del desiderio) della propria bolla, ha quasi sempre dato per scontato la vittoria di Hillary Clinton. «Chi potrebbe mai credere – anche sondaggi alla mano – in una sua sconfitta contro quello spauracchio di imbonitore con una fetta di lasagna in testa che prende le elezioni come un reality?» si leggeva già nel giugno di quest’anno su Wired, in un articolo a cui però si deve dar atto dell’uso di un punto interrogativo.

È successo dovunque, soprattutto negli States, ma lo abbiamo vissuto anche qui in Italia, dove il racconto si è costruito per ovvie ragioni sul riflesso del dibattito statunitense. In pochi credevano veramente che la lotta fosse aperta. Eppure è successo. Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti, ma non solo, Trump ha infatti ottenuto una vittoria non esattamente di misura, sovvertendo tutte le previsioni degli esperti e dei sondaggisti che lo davano spacciato fino a poche ore prima della notte elettorale.

Negli Stati Uniti è evidente la debacle del giornalismo predittivo. A partire dal più celebre e finora quasi implacabile sondaggista, Nate Silver, che su 538.com dava le probabilità di vittoria di Hillary ben oltre il 70 per cento. Ma scivoloni peggiori li hanno fatti anche i suoi colleghi, a partire dal collega Nate Cohn, che sul New York Times dava Hillary vittoriosa addirittura all’85 per cento. Oltre ai sondaggisti, a scivolare sono stati anche eminenti politologi. Michael Walzer, per esempio, professore emerito di Princeton di comprovata esperienza, in un’intervista a Repubblica datata 11 ottobre si sbilanciava su un «Oggi più che mai penso che lei vincerà le elezioni. Forse i democratici strapperanno anche il Senato». Non è andata così. Esattamente come il suo collega Jay DeSart, citato in un articolo del 18 ottobre sul Corriere della Sera: «Il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà Hillary Clinton». La probabilità, secondo il professore dello Utah, era addirittura un secco 99,97%. È stato così fino all’ultimo, tanto Robert Reich, segretario del lavoro durante la presidenza Clinton, solo poche ore prima del voto si diceva sicuro: «Don’t worry, Hillary Clinton will win the election».

E in Italia? Come già accennato, il racconto italiano di queste elezioni è stato ampiamente basato su riflessi di quello statunitense. E anche qui da noi, infatti, le previsioni sono state quasi uniformemente dirette verso Hillary. Già dalle fasi iniziali della campagna, a marzo, quando l’ex senatore e giornalista Furio Colombo a LaPresse diceva: «Vincerà Hillary Clinton, in ogni caso. Donald Trump è un personaggio dall’umore variabile, una mina vagante e gli Americani questo lo sanno». Si è visto come lo sanno.

Era marzo 2016, la campagna era ancora molto acerba e i toni, che successivamente si sono infiammati, erano più cauti. Ma le previsioni nostrane non sono cambiate di molto. «Secondo i modelli più accreditati, quelli che abbiamo usato nel corso di tutta la campagna elettorale, vincerà Hillary Clinton», titolava Panorama poche ore prima del voto; «Hillary Clinton ha già vinto le presidenziali. I 10 motivi per cui lo sappiamo», scommetteva Giornalettismo.

E ancora: «La campagna elettorale del candidato repubblicano Donald Trump è ufficialmente finita stanotte […] The Donald è tornato in scena e ha distrutto le residue, esili, chances di vittoria repubblicana.» scriveva Gianni Riotta il 20 ottobre 2016, subito dopo l’ultimo dibattito televisivo. O Massimo Molinari, direttore de La Stampa, che 16 giorni prima di oggi, saltando qualche tappa, iniziava già a pensare al duello Hillary Clinton Vladimir Putin sui cieli della Siria.

«Hillary parte da una base quasi sostanzialmente certa di 221 grandi elettori, contro i 163 di Trump», scriveva Christian Rocca in un lungo articolo di analisi su IL, dando per «improbabile che la sua coalizione di anticlintoniani e di working class bianca possa numericamente superare quella di Hillary». Certo, il direttore del mensile del Sole24ore è stato giustamente prudente e ha aggiunto: «ma questa è solo la teoria, una teoria che nelle scorse elezioni è sempre stata confermata dai fatti, eppure il conteggio reale delle schede potrebbe ancora raccontare una storia diversa». Eppure quel numero che i sondaggi davano sostanzialmente per certo, Hillary non l’ha nemmeno raggiunto.

Da ultimo, anche Matteo Bordone su Internazionale, a meno di un mese dal voto americano, non aveva alcun dubbio sull’esito finale e scriveva un articolo intitolato «Vincerà Hillary Clinton ma i giornalisti raccontano un’altra storia», mettendo sul tavolo la teoria che il testa a testa esistesse più sulle pagine dei giornali che nella realtà. Invece a quanto pare è successo esattamente l’opposto. Trump ha vinto mentre i giornalisti raccontavano un’altra storia. Nemesi elettorale.

Eppure, tutte queste parole, tutte queste statistiche, tutte queste certezze, nel giro di un paio d’ore, come le celebri memorie del replicante di Blade Runner, sono andate perdute come lacrime nella pioggia. Perché? Come è possibile che così tanti analisti, sondaggisti, professori, giornalisti si siano sbagliati così clamorosamente e non siano stati capaci di intercettare una dinamica che, almeno a giudicare dai numeri finali, è difficile pensare sia stata influenzata dalle decisioni dell’ultimo minuto.

Cosa non ha funzionato? Perché gli osservatori più esperti non si sono accorti di cosa stava succedendo? Ma soprattutto, era realmente imprevedibile? No. Qualcuno l’aveva prevista infatti. E anche nei particolari. Il suo nome è Michael Moore, e molti di voi se lo ricorderanno per un bel po’ di documentari contro l’establishment americano, da Bowling for Columbine a … .

E nella nota di Moore, che gli analisti hanno a metà irriso per la sua superficialità, a metà ignorato, ci sono anche degli indizi da seguire per capire come ci siamo finiti in questo pantano che ha affossato ancora di più la credibilità della visione degli analisti, dei sondaggi e della stampa di mezzo mondo.

«Posso immaginare cosa state facendo in questo momento», scriveva Moore dopo aver messo la bomba nel corridoio, «state scuotendo la testa e state dicendo “No, Mike, non succederà mai!”. Sfortunatamente però state vivendo in una bolla, in una una camera chiusa in cui rimbomba l’eco di voi e dei vostri amici, convinti che il popolo americano non eleggerà un idiota come presidente».

In questa frase, probabilmente, c’è la soluzione alla domanda di due paragrafi fa. Perché abbiamo sottovalutato tutti Trump? Perché viviamo in una bolla, in un mondo che si crede maggioritario ma che nella realtà è un’élite fatta di privilegi culturali, economici e sociali. E facciamo fatica, dovremmo avere il coraggio di ammetterlo ora, anche a rendercene conto.

Oggi, se ancora non ce ne eravamo accorti dopo l’ascesa del Movimento 5 Stelle in Italia degli ultimi anni, o dopo l’esito del referendum britannico di pochi mesi fa, il mondo non si divide più in Sinistra e Destra. Si divide in Alto e Basso. In Privilegiati e in Subalterni. E tra i privilegiati ci sono ovviamente anche i giornalisti, gli analisti, i politologi, quelli che negli ultimi anni hanno dato per scontato che si potesse avere la temperatura del mondo guardando i risultati di sondaggi e incrociando gelidi bigdata ottenuti da internet. Ma il mondo, la fuori, è più complesso di così. E il giornalismo, se vuole sopravvivere a questo 2016 in cui sta sbagliando ogni cosa — a cominciare da tutto ciò che è girato intorno alla Brexit per finire a questa storia elezione statunitense — deve fare un bagno di realtà.

La temperatura del mondo non si misura soltanto con un computer nel caldo della propria redazione, discutendo con amici e colleghi che vivono nella nostra stessa bolla. Il mondo è la fuori. E se qualcuno avesse fatto un giro e avesse ascoltato le persone che compongono veramente l’America, e non soltanto quelle che popolano i weekend del Village o le stanzette con i posterini dei geek della Silicon Valley, forse, allora, non avremmo deriso Michael Moore e questo risultato, che oggi ci toglie quasi il fiato, l’avremmo già previsto.

(Andrea Coccia, Linkiesta)