"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Dell'inizio e della fine

Come occasione era unica, il Coronavirus, per tornare a farci riflettere sulla morte, quindi sulla vita. Ma no, siamo troppo impegnati con l'happy hour. (irdr)


La morte non è quel che ha detto Cocteau: un nascere alla rovescia. È un evento molto più decisivo, perché la vita si cancella, e la morte no. Anche lo smaliziato Cocteau tenta, dunque, la sua ingenua evasione: il borghese americano adopera i giardini della memoria, il cofano dell’amato e i terapeuti del dolore, l’accademico di Francia uno stonato rimasuglio di genialità. La vita è tutta un’inutile evasione dalla morte.

I preventivi delle pompe funebri cominciano con il nome del compianto, e finiscono con la marca da bollo. Le bare con le maniglie dorate, nei cimiteri-metropoli, scendono a ritmo continuo nelle fosse lunghe decine di metri, una dietro l’altra, con la parte più stretta di una affiancata a quella più larga dell’altra per occupare meno posto. Le corone si accumulano in disparte, le vecchie e le nuove, nella grande fabbrica del disfacimento.

Il morto fa solo ribrezzo e paura: un istante dopo, la persona che suscitava amore e desiderio di comunione è il mostro più spaventoso dell’universo, anche se ci si sforza di toccarlo con le labbra. Si sente che la morte è infinitamente più potente della vita, che la vera realtà, quella definitiva, è il silenzio, l’immobilità, l’insensibilità, il nulla. Il morto è potente nella sua notte. Si sente che potrebbe fare le cose più tremende, cambiare colore, riempirsi e vuotarsi, trasformarsi, gonfiarsi, decomporsi. Potrebbe anche aprire gli occhi, per mostrarli spenti, alzarsi, per una fissità verticale, muoversi, per un incedere fatale.

Se poi si vola sopra l’isola del Giglio e sopra la Gorgona, in un azzurro tutt’intorno pieno di sole, e le scie delle navi sono punti bianchi, il buio della morte diventa immediatamente incomprensibile. Tutto è lì vivo, ovunque presente, eterno di un’eternità buona. E questa è l’ultima maledizione: mutando i punti di vista e gli istanti muta il senso delle cose, che diventano perciò sfuggenti e inafferrabili.

In certi luoghi le case antiche avevano una porta dalla quale uscivano i morti. Adesso ci manca una categoria importante per spiegarci come le cose appartenute al defunto, o entrate in contatto con lui, si carichino di un significato intenso e speciale. In qualche modo partecipano della morte, dalla quale sono state toccate: diventano uniche e magiche. Diventano sacre, ma noi non sappiamo più che cosa vuol dire.

Un’amigdala, scheggiata molte e molte migliaia di anni fa, rimane, e l’uomo che l’ha fatta è subito precipitato nel nulla; eppure la pietra non aveva nessun desiderio di durare, e nessuno si è sforzato di conservarla. Il reale è proprio il capovolgimento del logico. Si può tentare di arrampicarsi, o forse non si può non tentare. Su Jung forse, o magari su Freud, con la sua tesi della non riducibilità della psiche a coscienza; è seducente, e come tutto ciò che è seducente è ambiguo, inafferrabile, capovolgibile. Queste arrampicate non sono neanche di moda, del resto, e finché la luce è accesa e c’è rumore nella strada la speranza dell’immortalità può dormire nelle nebbie metafisiche. Ma non è neppure concepibile un morto che sia semplicemente morto. 

L’immortalità, tuttavia, è meno importante della morte. Gustata fino in fondo, la morte, che emerge dominante e incancellabile sul flutto del tempo, può essere anche una terribile immortalità. Può essere tutto. Ma poi si vola sopra l’isola del Giglio e sopra la Gorgona.

Il morto si allontana da noi velocemente. Una volta uscito dalla casa che riempie con la sua presenza gigantesca, fugge lontano. Dopo pochi giorni, dopo poche ore, la sua immagine è già irrecuperabile, la sua voce inudibile, il suo sguardo dimenticato. Ricostruiamo la nostra vita passata, che fu con lui, come se fosse stata senza di lui. Lo perdiamo e lo rifiutiamo insieme. Il dolore scompare in fretta, forse perché è troppo palesemente inadeguato: il fatto che si dimentichi partecipa molto più strettamente della natura della morte che non il fatto che si soffra. Infatti, se del dimenticare si potesse avere piena coscienza, risulterebbe doloroso quanto la morte, risulterebbe, com’è, il suo trionfo.

Amare perfettamente qualcuno comporterebbe il morire con lui: l’esistenza della morte obbliga a non essere perfetti. La società del benessere, che papi e americani e comunisti ci additano, avrà ancora becchini avidi di mance: l’esistenza della morte obbliga a non essere perfetti. Forse anche viceversa.

È più dolorosa, ma più accettabile, la morte di un giovane della morte di un vecchio, la morte di un sapiente della morte di un ignorante. Ogni potenza, troncata e abbattuta, entra nella morte e, troncata e abbattuta, resta potenza nella morte. Come diceva Tirteo: «In un giovane, anche la morte è bella». C’è qualcosa sopra la morte, allora?

Secondo la tradizione talmudica, i corpi sepolti portavano in sé il seme della loro rigenerazione: l’osso sacro è il piccolo verme destinato all’ultima e definitiva metamorfosi. Popoli remotissimi e oscuri seppellivano i corpi in otri di terracotta, nella stessa posizione raccolta in cui stavano nel ventre materno prima di nascere. Gli adoratori di Ahura Mazda esponevano i cadaveri agli uccelli del cielo sulle torri del silenzio. Altrove li innalzano ancora sui roghi perché si sublimino in odori tra le fiamme e si disperdano in cenere tra le acque. Solo noi li chiudiamo definitivamente nella morte sigillandoli in feretri squadrati di legno e di metallo. Per nostra disgrazia, non sappiamo fare altro che avvolgere una corona del rosario fra le dita rattrappite e le unghie viola. E stiamo dimenticando anche questo.

Alla madre che nell’India dei Veda invoca disperatamente la figlia Devachi, cercandola all’alba sulla piazza del villaggio dove s’innalzano i roghi funebri, una voce domanda: quale Devachi? In questo stesso luogo migliaia di fanciulle di questo nome sono state bruciate e disperse al vento. Quale di costoro era tua figlia? I cicli eterni, per i quali ogni occhio è destinato a versare più lacrime di quante gocce contengano gli oceani, danno questa immagine della morte che non è morte, del dolore che non è dolore, della vita che non è vita, e rimandano all’ideale dell’immobilità assoluta, che è forse l’oscura coscienza del superamento dell’opposizione vita-morte, racchiuse entrambe in un cerchio che le rispecchi all’infinito fino a identificarle. La suprema gustazione della morte è forse la suprema gustazione della vita, e non viceversa.

Quanto alla Grecia, solare e magnifica, la sua parola più grande la dice per bocca di Socrate: sacrificate per me un gallo a Esculapio. Le strade di Sibari ombreggiate dalla seta e percorse da cavalli danzanti al suono dei flauti, l’oro del Partenone, le splendide panatenaiche ci hanno nascosto la Grecia arsa e funebre, quella dei misteri spaventosi, quella del pitagorico divieto di cibarsi di fave – magicamente legate ai morti –, quella tragica di Socrate. La nostra civiltà attuale, scesa dal Nord e dall’Occidente, ha visto il sole e l’azzurro; non ha visto le tenebre del mare, il fango secco, i deserti di sabbia gialla, le rocce spaccate, le fiumare asciutte, il groviglio dei cespugli polverosi, la crudeltà della luce, il sale e il sudore, i gridi e il silenzio, la rapida putrefazione. In questo veder male, in questa illusione, sta la nostra cultura, che è per questo – di fronte alla morte e quindi alla vita – il ritratto dell’impotenza.

Esculapio salvatore dà la medicina giusta, e Socrate guarisce dalla vita. Il gallo dell’aurora canta per la morte.

Solo a questo punto – crollate le antiche civiltà sacre con i loro tentativi sublimi e spaventosi di affrontare la morte – ha senso l’urlo di Gesù Cristo morente: Dio Dio, perché mi hai abbandonato? Se Socrate rifiuta la vita, Gesù rifiuta anche il rimedio della morte, per lasciarci da duemila anni in questo nulla.

(Sergio Quinzio, Cristianesimo dell'inizio e della fine)