Accusare di frivolezza i favolisti francesi perché adornarono di qualche piuma di struzzo le loro fate, significa «possedere la vista, non la percezione». Proprio quella possedeva invece una Madame d’Aulnoy, che seppe cogliere nelle voci del popolo i misteri più delicati e lo faceva quasi senza avvedersene, quasi in sogno, come si coglie un quadrifoglio in un prato. (Non così i fratelli Grimm che esplorando metodicamente, foglia per foglia, il folklore, ne trovarono, sì, molti anche loro, ma tra una messe soffocante di erbe senza magia).
Cristina Campo (Vittoria Guerrini, Bologna 1923 - Roma 1977) |
Madame d’Aulnoy compose fiabe sublimi, Il ramo d’oro o La gatta bianca, per esempio, delle quali sembra impossibile toccare il fondo o la cima. Ma basterebbe il racconto più familiare di Perrault (o di quel suo misterioso figlio presto sparito), intendo dire il suo racconto più letto: Cenerentola. Lasciando per ora i simboli, già così tristemente deflorati, delle cattive sorelle e dello scarpino di vetro (ma il vero scarpino, squisitamente, era di vaio), quali rivelazioni in Cenerentola. Lampi che soltanto a simili narratori, dolcemente svagati come tutti i veggenti, poteva capitare di cogliere.
Ecco il preludio della grande crisi, il ballo a corte:
«Come fu così agghindata, ella salì in carrozza; ma la madrina le raccomandò sopra ogni cosa di non passar mezzanotte, avvertendola che se restasse più lungamente al ballo la sua carrozza ridiverrebbe zucca, i suoi cavalli sorci, i lacchè lucertole, e che le sue belle vesti riprenderebbero l’antica forma».
Il mistero del tempo e la legge del miracolo sono indicati in queste poche parole con leggerezza estrema e tuttavia con quale risolutezza. A che può condurre l’infrazione di un limite se non al regresso tragico nel tempo, al risveglio, il mattino, sulle ceneri fredde? Cenerentola sfiora, nella terza e più gloriosa notte di ballo, quel precipizio: e per schivarlo, fuggendo all’impazzata, non si cura di perdere il suo scarpino di vaio, di rinunciare a un lembo del gratuito, estatico presente del quale una potenza l’ha rivestita. Ma ecco: sarà proprio quel filo, lo scarpino di vaio, a ricondurla al principe. La sua perdita volontaria diverrà il suo guadagno.
«Chi getterà la sua vita la salverà». Madame Le Prince de Beaumont, in Belinda e il Mostro, conduce lo stesso tema sino a zone ancor più delicate ed occulte. Come ogni fiaba perfetta, anche questa ci mette a parte dell’amorosa rieducazione di un’anima – di una attenzione – affinché dalla vista si sollevi alla percezione. Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? L’amicizia del Mostro per Belinda è una lunga, una tenera, una crudelissima lotta contro il terrore, la superstizione, il giudizio secondo la carne, le vane nostalgie. Non diverso dall’indugiare di Cenerentola al ballo è il ritorno a casa di Belinda, che per poco non costerà la vita al Mostro. È, per l’una e l’altra fanciulla, il rischio di una ricaduta nel cerchio magico del passato che può devastare, come un gelo fuori stagione, ciò che ha così lungamente atteso di sbocciare: il presente. È l’ordalia di Belinda ma Belinda non lo sa. Infatti, essenzialmente, è l’ordalia del Mostro.
Quand’è che il Mostro si trasforma in Principe? Quando il portento è divenuto superfluo, quando la metamorfosi s’è già compiuta insensibilmente in Belinda: lavandola da ogni rimpianto adolescente, da ogni ruggine di fantasia, non lasciando di lei se non l’attenta anima nuda («non mi sembra più un Mostro e se anche lo fosse lo sposerei lo stesso perché è perfettamente buono e io non potrei amare che lui»).
La metamorfosi del Mostro è in realtà quella di Belinda ed è soltanto ragionevole che a questo punto anche il Mostro diventi Principe. Ragionevole perché non più necessario. Ora che non sono più due occhi di carne a vedere, la leggiadria del Principe è puro soprammercato, è la gioia sovrabbondante promessa a chi ricercò per prima cosa il regno dei cieli. «A chi ha sarà dato» assicura il versetto che tanto intriga i fedeli della lettera.
Per condurre a tale trionfo Belinda, il Mostro sfiorò la morte e la disperazione, lavorò con la pervicacia della perfetta follia notte dopo notte, apparendo alla fanciulla reclusa, rassegnata ed impavida nell’ora cerimoniale: l’ora della cena, della musica. Chiuso nell’egida dell’orrore e del ridicolo («oltre che brutto purtroppo sono anche stupido») rischiò l’odio e l’esecrazione di quella che gli era cara: discese agli Inferi e ve la fece discendere.
Non meno – e non meno follemente – fa Dio per noi: notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non conviene dimenticare però che fu Belinda a suscitare il suo Principe, di lontano e senza saperlo. Fu quando chiese a suo padre che infilava la staffa, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, quel suo folle regalo: «una rosa, solo una rosa», in pieno inverno.
(Cristina Campo, Una rosa. Da: Gli imperdonabili)