"Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno" (Benedetto Croce)

Il figlio dell'uomo delle tasse

Una leggenda considerata ancora più tarda, la cui fonte più antica dovrebbe essere la Massékhet Kallàh, ed è citata in vari testi medievali. Vi si racconta di Rabbì ‘Aqivà che incontra un uomo schiacciato da un carico di fascine, e gliene chiede il perché. L’uomo gli risponde che è la legna del rogo nel quale viene bruciato ogni giorno all’inferno, ad espiazione dei peccati commessi in vita; era preposto alla riscossione delle tasse, e rispettava solo i ricchi, mentre uccideva i poveri. ‘Aqivà gli chiede se conosce un modo per mettere fine alle sue sofferenze; l’uomo gli risponde che ha sentito che se avesse un figlio che in pubblico dicesse Jitgadàl, e ottenesse la risposta (Jehé shemé...) dalla comunità, sarebbe subito liberato. L’uomo ha lasciato in vita la moglie incinta, ma non sa cosa è poi successo. ‘Aqivà si reca quindi dalla vedova; per cercarla chiede notizie ai suoi concittadini, che maledicono il ricordo del morto e della sua famiglia e confessano di non avere neppure pensato a circonciderne il figlio. ‘Aqivà prende il bambino con sé, lo fa circoncidere e lo mette nella sua scuola. Ma il bambino è refrattario a qualsiasi insegnamento. ‘Aqivà allora digiuna per quaranta giorni, finché una voce lo informa che finalmente i suoi sforzi avranno successo. Il bambino inizia a studiare, impara a recitare il Qaddìsh, e si reca in Sinagoga a leggerlo; il pubblico gli risponde, e in quel momento cessano le sofferenze del padre morto.

George Chinnery, Uomo che porta fascine, ca 1799

Questa leggenda è molto importante per valutare il senso preciso del rito; c’è solo da aggiungere, per la comprensione completa dei dati, un altro principio rabbinico, non collegato con il Qaddìsh, per il quale la pietà del figlio ha influenza sulla sorte dei genitori defunti (già in Talmùd Babilonese, Sanhed. 104 a).

La sostanza del discorso è questa. La tradizione ebraica si preoccupa di creare e conservare nel tempo una società ordinata che segua un modello di comportamento ideale. Chi si discosta da questo modello turba un equilibrio sociale e culturale; ma la sua colpa è considerata tanto più grave quando si perpetua nel tempo e nella società; nel nostro caso particolare, se il cattivo esempio dei genitori si trasmette ai figli, e non c’è una limitazione nel tempo delle implicazioni negative delle azioni illecite, i reati commessi sono giudicati con la massima severità. Diverso è il caso, se i figli rifiutano l’esempio negativo ricevuto e con le loro azioni cercano di sanare e limitarne le conseguenze. D’altra parte, può succedere che la società che sente le conseguenze e i pericoli di un comportamento scorretto crei dei sistemi difensivi esagerati, ed emargini non solo il colpevole, ma anche il suo ambiente e la sua famiglia. Così quello che è in origine un meccanismo di legittima difesa sociale diventa un sistema perverso di conservazione del male, visto che non si concede più la possibilità, anche agli innocenti, di ricostruire una esistenza positiva.

La leggenda di Rabbì ‘Aqivà mostra l’opinione ebraica in merito e spiega il senso reale del concetto di ‘espiazione per i morti’ attribuito al Qaddìsh. ‘Aqivà non è qui il mago che vuole insegnare la formula magica al bambino, per liberare il padre; è il maestro che tenta di limitare nel tempo e nello spazio i danni di una vita perversa, e le reazioni ugualmente negative di una società che per difendersi irrazionalmente propaga il male. Il digiuno di ‘Aqivà rappresenta gli sforzi che ognuno, persino i maestri più preparati, devono fare, per superare le diffidenze e le prevenzioni. Il bambino che impara e recita il Qaddìsh diventa chiaramente il segno di una riparazione, di una ripresa di vita normale, di una ricomposizione dell’ordine ideale, rappresentato dal regno divino sulla terra. C’è un solo modo per la società di ‘espiare’ cose già avvenute, che evidentemente non possono ritornare come erano: impedire che si verifichino di nuovo. Anche in questo senso i morti continuano a vivere: vive il loro esempio, il prodotto delle loro azioni; ed è certo che richieda espiazione. A questa azione è chiamato in primo luogo, perché coinvolto biologicamente, il figlio del defunto; ma anche la comunità è coinvolta in questo disegno; è questo il significato della necessità di una recitazione pubblica del Qaddi’sh dell’orfano, e della risposta imposta al pubblico all’invito a benedire fatto dall’orfano. Sono tutti coinvolti nel processo di riparazione, e questo inizia nell’accettare nella comunità che prega il figlio del defunto, e continua nel rispondere alle sue parole.

Da tutto questo è ben chiaro che il senso della recitazione del Qaddìsh dell’orfano è profondamente religioso. La spiegazione proposta è la più semplice e ‘razionale’, ma ne sono possibili ulteriori approfondimenti, nell’ambito delle dottrine sulla prosecuzione della vita dopo la morte, su cui qui non ci si può dilungare. È ovvio che in questo contesto è estremamente facile scivolare verso l’automatismo dell’azione, il semplicismo dei meccanismi coinvolti, in una parola verso il magico: recita un Qaddìsh e salvi i genitori dall’inferno. È un rischio che si corre con ogni preghiera e che, nel caso particolare, svuota tutto il senso dell’azione. Dunque, il Qaddìsh va letto con particolare attenzione e comprensione dei suoi significati. Già nel dodicesimo secolo Rabbi Avrahaàm bar Chijà haNassi di Barcellona avvertiva che non aveva alcun senso sperare nell’automatica remissione dei peccati per virtù delle preghiere dei figli, e Avraham Horwitz (XVI secolo) sottolineava che era meglio comunque l’adempimento di un precetto particolare piuttosto che la recitazione del Qaddìsh fatta allo scopo di far uscire i genitori dall’inferno. Sono segni di una vigilanza costante della tradizione contro i rischi di una degenerazione, vista con molta diffidenza.

(Rav Riccardo Di SegniQaddìsh. Una preghiera antica accompagna il cammino dell'Ebreo nella storia, Archivio-Torah.it, pagg. 14-17)