A chi si lamenta delle tasse e della crisi finanziaria, e s’illude che sia esistita una qualche felice “età dell’oro” senza tasse, con Governi ricchi, onesti e illuminati, e dai bilanci in pareggio, bisogna proprio far leggere i sonetti del Belli sulle “gabelle” (tasse sui consumi di merci e scambi) e sulle finanze dissestate dello Stato Pontificio. Ma anche qualche saggio di storici dell’economia sembra voler dire agli scontenti di oggi, fatti i debiti confronti: “Macché, piuttosto ringraziate Iddio!”
Monumento a Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) a Trastevere, Roma |
A proposito, non c’era cosa più odiosa, dice il Belli, che vedersi rubare i soldi in nome di Dio, come facevano alcuni preti intraprendenti (La penale, 1832):
Li preti, ggià sse sa, ffanno la caccia
a ’ggni sorte de spesce de cuadrini.
Mo er mi’ curato ha mmesso du’ carlini
de murta a cchi vvò ddí ’na parolaccia.
[I preti, si sa, vanno a caccia di quattrini con ogni pretesto. Ora il mio parroco si è inventata una multa di due carlini a chi dice una parolaccia.]
Ma le finanze del Governo Pontificio versavano in una situazione ben peggiore di quella degli altri Stati. Le cause sono note: le ruberie di funzionari, monsignori, cardinali e degli stessi Papi, la corruzione generalizzata, gli sprechi dell’amministrazione centrale e locale, le pensioni e le donazioni elargite come elemosine ai tanti raccomandati o poveri questuanti, le truffe di artigiani e impresari, ma anche le spese per mantenere il capillare apparato di controllo politico, di delazione (le spie erano numerose) e di consenso sociale in tutto lo Stato della Chiesa.
Ecco perché l’amministrazione pontificia, dal ministero delle finanze (la Reverenda Camera Apostolica), fino all’ultimo camerlengo di paese (una sorta di segretario comunale addetto alle finanze e ai conti), trovavano più conveniente spillare soldi ai più poveri con gabelle sui generi di prima necessità che, almeno, assicuravano un largo e sicuro gettito.
Fatto sta che lo Stato della Chiesa era sempre in deficit, tanto che la Repubblica Romana napoleonica che ne ereditò per poco le finanze (1798-1799) fu costretta ad emettere anche a Roma gli assegnati francesi o “cedole”. Una carta moneta tendente a deprezzarsi, pezzi di carta buoni per soffiarsi il naso, ironizza il conservatore Belli in un sonetto “preventivo”, cioè nel timore che per i traumi politici e finanziari del 1831 anche Papa Gregorio XVI volesse reintrodurla nello Stato Pontificio:
CIAMANCHEREBBE QUEST’ANTRA
Semo fritti, o rreggina: er zor Grigorio
vò arimette le scedole de carta:
eppoi nun lo mannate a ffasse squarta
co ttutto er zu’ piviale e ’r fardistorio!
Si ha bbisoggno de noi, pisscia risorio
e cce fa ttutti cavajjer de Marta;
ma un po’ c’aridà ssú, vviè e cciaribbarta
pe ffijji de Pasquino e de Marforio.
Eh a sta maggnèra cqui ttutti sò bboni
a ppagà cchi ha d’avé, ssenza ch’aspetti:
che bbella forza de li mi’ cojjoni!
Una risma de carta a scaccoletti,
e ecco le mijjara e li mijjoni
pe sserví da quadrini e ffazzoletti.
16 ottobre 1833
Versione.Ci mancherebbe anche questa! Siamo spacciati, o regina [il Belli rifà il verso al “Siam traditi, o Regina” dell’opera “Didone abbandonata” del Metastasio, come fa notare il Vigolo che era anche grande musicologo], il signor Gregorio [papa Gregorio XVI] vuole rimettere in circolazione le cedole di cartamoneta: e poi non lo mandate a farsi squartare con tutto il suo piviale e il faldistorio? Se ha bisogno di noi, piscia rosolio e ci fa tutti cavalieri di Malta; ma per poco che si riprenda, viene e ci rinnega come figli di Pasquino e di Marforio [note statue di personaggi irriverenti]. Eh, a questo modo tutti sono buoni a pagare i creditori, senza che aspettino: che bella forza dei miei coglioni! Una risma di carta tagliata a quadratini, ed ecco le migliaia e i milioni per fare da quattrini e fazzoletti [per pulirsi il naso].
Tutto si risolse, invece, col solito prestito su prestito che rimandava alle calende greche la restituzione del debito pubblico. Soldi e interessi altissimi, oltretutto, buttati in un vuoto assistenzialismo – nota D.Felisini (Le finanze pontificie e i Rothschild, ESI 1991) – senza nessun investimento o tentativo di modernizzare lo Stato stimolando la nascita di una moderna borghesia, come si faceva al Nord. Anzi, le poche fabbriche erano al livello del Medioevo, povere di macchine, e per lo più arcaiche, e ricche di manodopera a bassissima produttività.
Fatto sta che nel 1870 il Tesoro della Chiesa – rivela Felisini – stava proprio per andare in “default”, si direbbe oggi, cioè sull’orlo della dichiarazione d’insolvenza, o impossibilità di restituire il Debito Pubblico ai sottoscrittori, se i bersaglieri e l’Italia liberale non avessero “per fortuna” anche della Chiesa conquistato Roma il 20 settembre, togliendo ad un papa così ottuso e testardo come Pio IX le castagne dal fuoco. Ma oggi, per le nuove crisi finanziarie, non possiamo più sperare nei bersaglieri, conclude con ironia D.Velo (Sole 24 Ore, 8 dic.1991) presentando il saggio.
È poi davvero curioso che i papi, che umiliavano gli ebrei richiudendoli nel ghetto, vietando loro studi e professioni, e condannandoli a fare gli stracciaroli, poi dovevano ricorrere ai prestiti della banca parigina dell’ebreo Rothschild (cfr. il sonetto Er Giubbileo III, del 1832, col solito tono anti-giudaico). Nèmesi dell’economia!
Eppure, lo Stato Pontificio non mancava di ingegni: sarebbe bastato ascoltarli. Fu proprio un suddito del Papa, il liberale bolognese Marco Minghetti, a portare le finanze del nuovo Regno d’Italia al bel traguardo del pareggio del bilancio (1875), grazie ai tagli delle spese statali inutili e ad una politica di severa tassazione, compresa l’impopolare “tassa sul macinato”. In precedenza, nel 1847, illudendosi sulla personalità di Pio IX, Minghetti aveva accettato la carica di ministro laico dei Lavori Pubblici nella Consulta romana, lasciandola però quando si accorse che a contare in realtà era solo la reazionaria componente ecclesiastica, contraria anche alle timide aperture papali.
Così, Porta Pia salvò il Papato tre volte: ridandogli un minimo di quella credibilità religiosa e morale persa col potere temporale (cfr. famosa dichiarazione di Paolo VI papa Montini), scaricando l’enorme disavanzo pontificio, compreso i buoni del Tesoro, sul nuovo Regno dell’Italia unita, e infine giù, giù, “per li rami” della Storia, donandogli sulla carta oltre 3 milioni di lire (13 milioni di euro al 2009) con la legge, non accettata, delle Guarentigie del 1871, e poi gli accettatissimi milioni e poi miliardi con i Concordati concessi per cinico calcolo politico dai due socialisti e atei Mussolini e Craxi. Che fortuna, nella sfortuna! Basti pensare che di solo “8 per mille”, una tassa abusiva esistente solo in Italia, pagata anche dai non cattolici e da chi non vuole destinare proprio nulla alla Chiesa, la Chiesa cattolica oggi riceve dallo Stato italiano, cioè dai cittadini, circa 1 miliardo di euro all’anno (2010). Diciamo la verità: a qualunque staterello sarebbe piaciuto “perdere” così la guerricciola simbolica del 20 settembre 1870!
Ma torniamo alle tasse. Ai tempi del Papa-re gravavano sui beni di lusso (cavalli, botteghe, carrozze, case, terreni ecc) o che si volevano moralisticamente scoraggiare (sigari, carte da gioco, calendari da barbieria, riviste straniere ecc), ma soprattutto sui beni di prima necessità, più importanti nel bilancio della povera gente che se le ritrovava comprese nel prezzo (grano, farina, pane, vino, olio, sale, carni conservate ecc), perché davano un gettito totale più alto. Così le tasse le pagavano soprattutto i poveri, lamenta un Belli travestito da moderno sindacalista:
LE GABBELLE
Ah, ddunque, perché nnoi nun negozziamo
e nnun avémo manco un vaso ar zole,
lei vorebbe cunchiude in du’ parole
che le gabbelle noi nu le pagamo?
Le pagamo sur pane che mmaggnamo,
sur panno de le nostre camisciole,
sur vino che bbevémo, su le sòle
de le scarpe, e sull’ojjo che llogramo.
Le pagamo, per dio, su la piggione,
sur letto da sdrajacce, e su li stijji
che ssèrveno a la nostra professione.
Le pagamo (e sta vergna è la ppiú ddura)
pe ppijjà mmojje e bbattezzà li fijji
e pper èsse bbuttati in zepportura.
5 aprile 1836
Versione. Le tasse. Ah, dunque, perché noi non facciamo contratti e non abbiamo neanche un vaso al sole, lei vorrebbe concludere in due parole che le gabelle noi non le paghiamo? Le paghiamo sul pane che mangiamo, sul panno delle nostre camicie, sul vino che beviamo, sulle suole delle scarpe e sull’olio che consumiamo. Le paghiamo, per Dio, sulla pigione, sul letto sul quale ci sdraiamo, e sugli stigli (mobili e arredi) che servino alla nostra professione. Le paghiamo (e questa iattura è la piú dura) per prendere moglie e battezzare i figli e per essere gettati in sepoltura.
Tasse indirette, quindi, non esistendo allora la dichiarazione personale dei redditi (introdotta in Italia solo nel 1974), che finanziavano gli stipendi degli impiegati statali, i servizi, le opere pubbliche, ma anche le spese pazze, le ruberie, e per fortuna anche le bellissime opere d’arte commissionate dalla Casta politica pontificia. Per esempio, la fontana dei Fiumi, inaugurata nel 1651 in piazza Navona, era stata finanziata con nuove imposte sui proprietari delle case prospicienti e con impopolarissime nuove tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.
Ma non era finito: essendo vietata la libera circolazione delle merci, su una grande quantità di beni, alimentari e no, gravavano i dazi, somme che una speciale polizia esigeva all’ingresso delle città a chiunque passava, fosse pure in carrozza. Quasi sempre bauli e valigie venivano aperti e spesso le persone perquisite. I dazi, dunque, non corrispondevano alle Dogane, ma erano anche interni ad uno stesso Stato e perfino alla stessa provincia. Tutte le città italiane hanno ancora le caratteristiche pedane a bilancia.
Narrano i cronisti dell’epoca che nell’800 pre-liberale viaggiando o spedendo merci da Roma a Milano bisognava sottostare ad oltre una ventina di stazioni di dazio. Era dunque una pessima idea portare in regalo un salame ai parenti abitanti in una città lontana: con quello che avreste speso in dazi plurimi, i parenti avrebbero potuto acquistare magari cinque salami locali. E al dazio i dazieri si permettevano di mettere le mani addosso, frugando tra le vesti anche delle donne, con la scusa di cercare un salame di sanguinaccio. A proposito, qui il dazio col daziere ladro che si impossessa del salume senza stendere verbale, simbolo perfetto della corrotta Roma papalina, era sulla via Nomentana, proprio davanti a quella Porta Pia che avrebbe ridato libertà e dignità a Roma:
LA GABBELLA DE CUNZUMO
Fu inzomma che ar partí da Stazzanello
la sora Pasqua la commare mia
me diede un zanguinaccio, e Nnastasia
se lo vòrze agguattà ssotto ar guarnello.
Ce ne venímio bberbello bberbello,
quanno propio a l’entrà de Porta Pia,
fussi caso o cc’avessimo la spia,
ce vedemo affermà dda un cacarello.
Lui, visto er bozzo, schiaffò ssotto un braccio
e ll’aggnéde a ttastà ddove capite
co la scusa de prenne er zanguinaccio.
Come finí? ffiní sta bbuggiarata
ch’io perze tutto, e ppe nnun fà una lite
me portai via mi’ fijja sdoganata.
1° dicembre 1834
Versione. La gabella sul consumo. Accadde insomma che al partire da Stazzanello [località nei pressi di Palombara Sabina] la signora Pasqua, mia madrina, mi regalò un sanguinaccio [salume di sangue di maiale], e Anastasia volle nasconderselo sotto il guarnello [semplice abito-grembiule bianco da lavoro o da casa tipico delle popolane]. Ce ne andavamo bel belli [sulla via Nomentana] quando proprio all’entrata di Porta Pia, che fosse il caso o colpa d’una spia, ci vediamo fermare da un ometto. Lui, visto il rigonfiamento, infilò sotto il braccio e andò a tastare dove potete immaginare, con la scusa di prendere il sanguinaccio. Come finí? Finì questa buggeratura che io persi tutto, e per non fare una lite mi portai via mia figlia sdoganata [doppio senso umoristico: sta anche per “sverginata”].
E, con la corruzione che c’era, spinti dalle tasse esose, sai quanti preferivano far scivolare qualche moneta nelle tasche del daziere, per passare di contrabbando, nonostante le gabelle sulle stoffe e le lane, l’intero guardaroba di “Giuseppe ebreo”, che più che un famoso ricco mercante di abiti, sembra un personaggio proverbiale messo lì solo per fare rima:
ER FRUTTO DE LE GABBELLE GROSSE
Capite voi? Pe ccressce la gabbella
fanno cressce li fraudi e ’r contrabbanno.
Capite voi che ppo’ de bbagattella
tre scudi a ccanna de laumento ar panno?
È un affare de venti in ventun anno
ch’io sò ccapo-facchino in doganella;
e ’r fatto sta, ccapite voi?, che cquanno
cressce un dazzio, oggni ggiorno una quarella.
Dico pe cquello che sse scopre: eppoi
sc’è ttutto quanto er resto che ddich’io,
ch’è ccento vorte ppiú: capite voi?
Tre o cquattro piastre in faccia a un proposèo,
e vve fanno passà mmagaraddio
tutti li panni de Ggiusepp’ebbreo.
6 settembre 1835
Versione. Il frutto delle gabelle grosse. Capite? Per aumentare la tassa fanno aumentare le frodi e il contrabbando. Capite che bagattella siano 3 scudi a canna [unità di misura dei tessili pari a m.2,23] di aumento sul panno? È dall’epoca dei miei 20-21 anni che io sono capo-facchino alla Doganella [prob. l’ufficio doganale di porto di Ripetta]; e il fatto è – capìte? – che quando aumenta un dazio, ogni giorno c’è una denuncia. Dico solo per quello che si scopre; e poi c’è tutto il resto, che è cento volte di più, capite? [Voi date] tre o quattro monete in faccia a un soldato di dogana, e vi fanno passare magari tutti i panni di Giuseppe ebreo.
Sul vino, a parte che si era reso necessario, vista la disonestà diffusa degli osti, creare appositamente la misura standard in vetro trasparente, la mitica foglietta con la linea del bordo obbligatorio (fojetta), poi comunque vanificata dal trucco dell’aggiunta di acqua già nei barili, gravava un’altra odiosa gabella, argomento di malcontento e ironia nelle osterie degli sfaccendati, che il Belli affronta però in modo laterale e imprevedibile facendo straparlare a ruota libera un popolano davanti alla sua fojetta, un po’ come certi discorsi che oggi ascoltiamo al bar:
LA GABBELLA DER VINO
L’entrata c’hanno messo a le cupelle
ve lo dich’io ch’edè: ttutto un ripicco
der Tesoriere, perché nun c’è er micco
che jje dà aggratis da rempí la pelle.
Ma ssi sto grillo in testa io me lo ficco,
lui da mé nun ce pijja bbaiocchelle:
ché a la fine er Governo è ttanto ricco
da fregasse de tutte le gabbelle.
Se sa, vvanno a pportà ste grazzianate
a li piedi der Papa, e ’r Papa appizza,
perché li strozzi nun zò mmai sassate.
Er Papa è un cane avanti de ’na pizza:
si sse la maggna, con chi la pijjate?
O ccor cane, o cco cquello che l’attizza.
24 dicembre 1832
Versione. La tassa sul vino. Il dazio di entrata che hanno messo a le coppelle [misura del vino, frazione del barile di legno] ve lo dico io che cosa è: è tutta una vendetta del ministro delle Finanze, perché non c’è lo stupido che gli dà qualcosa gratis tanto da riempirsi la pancia. Ma se mi ficco questo grillo in testa, lui da me non prende più un baiocco, perché in fin dei conti il Governo è tanto ricco da poter fare a meno di tutte le gabelle. Si sa, vanno a portare ai piedi del Papa questi gesti per ingraziarselo, e il Papa accetta, perché gli strozzi [denaro per corrompere] non sono mai sassate. Il Papa è come un cane davanti ad una pizza: se se la mangia, con chi ve la prendete? O col cane o con chi lo provoca.
Un prosciutto paga ben 3 giuli di dazio? Non è meglio, allora, dice il popolano belliano, che il ministero delle Finanze, cioè la Reverenda Camera Apostolica, si mangi tutto il grasso? Ma in tal caso sarebbe stata una… Camera Dietetica. Perché il grasso, a quei tempi, a differenza di oggi, era non solo considerata parte prelibata, ma anche completamento calorico essenziale in una dieta popolare spesso poverissima e carente. Insomma, la “Reverenda Cammera Apoplettica” [gioco di parole satirico per Apostolica] non può andare avanti un’altra settimana. Fa troppe angherie: è troppo prepotente e poco cristiana:
LA GABBELLA DE LA CARNE SALATA
Cqua er Governo nun vò mmette ggiudizzio,
perché de noi nun je ne preme un’acca.
Cqua er male nostro nun è mmal de bbiacca,
e sse va de galoppo ar priscipizzio.
Un vizzio suo è cche ar pijjà ss’attacca
a li ferri infocati: e un antro vizzio,
che fforzi fa ppiú ppeggio preggiudizzio,
è cche nun paga, o vvò ppagà a la stracca.
Un presciutto tre ggiuli de dogana!
E nun era un’idea meno bbisbetica
de maggnasse la grasscia sana sana?
La Reverenna Cammera Apopretica
nun pò annà avanti un’antra sittimana.
Fa ttroppe tirannezze: è ttroppa eretica.
18 gennaio 1835
Versione. La gabella della carne salata. Qua il Governo non vuole mettere giudizio, perché di noi non gli preme affatto. Qua la nostra malattia non è il mal di biacca [saturnismo da idrossido di piombo, colorante bianco] e si va di galoppo al precipizio. Un vizio suo è che in quanto al prendere si attacca ai ferri infuocati [cioè vuole prendere subito], mentre il secondo vizio è che in quanto al pagare fa peggior danno nel non pagare o nel pagare tardi.
In tempi di deficit di bilancio e crisi economica, per colpa anche allora della Casta dei privilegiati, in quel caso di cardinali e monsignori (“settaccia indegna”, brutta setta indegna, nel sonetto Lo stato dello Stato), il Papa è costretto a inventarsi i più diversi rimedi: leggi, aperture e chiusure di imprese, appalti, affidamenti, privatizzazioni e “cartolarizzazioni”, diremmo oggi. Ma non funziona:
LO STATO DE LO STATO
È vvero che nnoi semo sderelitti,
ma ccosa ha dda fà er Papa co sta freggna
de debbiti, de smosse e dde delitti
tutto pe vvia de sta settaccia indeggna?
Dico, cos’ha da fà? Pprova, s’ingeggna,
va ttra una goccia e ll’antra, attacca editti,
opre e sserra bbottega, impeggna e speggna,
s’ajjuta co l’apparti e cco l’affitti.
Però, ppe quanto dichi e cquanto facci,
pe cquanto s’arranchelli a ddà la leva,
la pietra nun ze move, e ssò affaracci.
Ah! ddisse bbene un omo che ddisceva
c’oggi l’editti cqua ssò ttutti stracci
che un Papa mette e un stracciarolo leva.
28 dicembre 1832
Versione. Lo stato dello Stato. È vero che noi siamo prostrati, ma che cosa deve fare il Papa con questo flagello di debiti, commozioni e crimini, tutto per colpa di questa setta indeggna? Dico, che cosa deve fare? Prova, s’ingegna, affronta la pioggia senza riparo, affigge editti, apre e chiude imprese, impegna e riscatta, si aiuta con gli appalti e gli affitti. Però, per quanto dica e faccia, per quanto si sforzi sulla leva, la pietra non si smuove, e sono problemi gravi. Ah! disse bene un uomo che sosteneva che oggi le leggi qui sono tutte stracci [senza valore] che un Papa mette e uno stracciarolo leva.
Perciò, si ricorre alla riduzione degli stipendi degli impiegati dello Stato, anche i subalterni, misura iniqua tipica delle dittature, infatti fu replicata solo dal Fascismo. E si ricorreva anche al “teatrino della politica”, cioè alla comunicazione manipolata, al far vedere, dando in pasto all’opinione pubblica, allora più sprovveduta e ingenua, i gesti simbolici virtuosi degli Alti Gradi. Proprio come oggi? No, anzi, come veniva ordinato di fare ai gerarchi fascisti. Infatti, scrive in nota lo stesso Belli: “Nell’Ordine Circolare, dato il 20 dicembre 1832 sotto il N.30571 dalla Segreteria di Stato a tutti i Capi-di-ufficio, onde avvertissero i loro impiegati subalterni della diminuzione degli stipendi, era espresso che l’alto Clero era spontaneamente andato ad offerire i suoi emolumenti ed averi pei pubblici bisogni”. Così, cardinali e monsignori avidi fanno mostra di apparire all’improvviso economi e virtuosi agli occhi del Papa e dei sudditi che li criticano. Così, è tutta una corsa a dirsi disposti a privarsi di qualche bene o a promettere di donare qualche possedimento alle finanze dello Stato. Non sappiamo poi, quanti di quei “risparmi” abbiano avuto davvero corso, ma che fosse una “favola” per i gonzi il Belli lo dice nel titolo del sonetto e poi nell’accenno satirico al giornale ufficiale equiparato agli oroscopi:
PARE UNA FAVOLA!
Appena er Papa disse chiaramente
che, ssenza arimedià ssubbito ar male,
la Santa-Sede annava a lo spedale,
cuanno nun je pijjassi un accidente;
de posta oggni prelato e ccardinale,
oggni patrasso e oggnantra bbona ggente,
cùrzeno tutti cuanti istessamente
co la lingua de fora ar Qui-orinale.
E ttutti, incomincianno dar Vicario,
disseno ar Papa: «Io do la mi’ abbazzia
pe rriempicce er vòto de l’orario».
Cuest’è una storia che nnun è bbuscía.
Sor Indovinagrillo der Diario,
dite la vostra, c’ho ddetto la mia.
28 dicembre 1832
Versione. Sembra una favola! Appena il Papa disse chiaramente che se non si fosse posto rimedio subito al male [il debito di Stato] la Santa Sede sarebbe andata all’ospedale, se non fosse addirittura morta [non avesse dichiarato bancarotta], di corsa ogni prelato, cardinale, ogni padre graduato e ogni altra buona gente, si precipitarono tutti quanti con la lingua di fuori al Quirinale [residenza del Papa]. E tutti, cominciando dal Vicario, dissero al Papa: “Io do la mia abbazia per riempire il vuoto dell’erario”. Questa è una storia vera, signor Indovinala-grillo del “Diario” [gazzetta ufficiale di Roma], dite la vostra che ho detto la mia [cioè, fine della favola].
Ma allora, tanto vale fare come i musulmani, visto che a questo Governo ormai gli manca solo il nome di turco, dice un francese di Roma che ha viaggiato: pagare con una apposita tassa addirittura il prolungamento della propria vita, ogni sei mesi. Nella speranza che l’attuale ministro delle Finanze non ami il Belli, e quindi non ci legga: non vorremmo dargli un’idea:
LE GABBELLE DE LI TURCHI
Un tar munzú Ccacò, cch’è un omo pratico
e Ddio solo lo sa cquanti n’ha spesi
pe vviaggià ddrent’ar reggno musurmatico
dove nun ce commanneno Francesi,
ricconta che in sti bbarberi paesi
’ggni sei mesi sc’è un uso sbuggenzatico
che sse paga sei mesi de testatico
pe pprologà la vita antri sei mesi.
Dunque disce er Francese che ssiccome
ar Governo der Papa indeggnamente
nun j’amanca de turco antro ch’er nome,
c’è ggran speranza che jje vienghi in testa
de mette sopra er fiato de la ggente
’na gabbella turchina uguale a cquesta.
19 novembre 1836
Versione. Le gabelle dei Turchi. Un certo monsieur Cacò [il Belli e i romani non possono soffrire i francesi, e quando possono li ridicolizzano], che è un uomo pratico e Dio solo sa quanti anni ha speso per viaggiare nel mondo musulmano, dove non comandano i francesi, racconta che in quei barbari paesi ogni sei mesi c’è un uso burgensatico [termine legale tedesco medioevale: in orig. diritto di proprietà borghese, qui suona come sproloquio] per cui si pagano sei mesi di imposta pubblica per prolungare la vita di altri sei mesi. Dunque, dice il Francese, poiché al Governo del Papa, indegnamente [intercalare di modestia, qui caricaturale], non gli manca di turco altro che il nome, si spera che gli venga in mente di mettere sulla testa della gente una gabella turca uguale a questa.
(Nico Valerio, Il mondo del Belli)