Nei venticinque anni trascorsi dalla pubblicazione di Dopo la virtù (1981), ho avuto modo di considerare più volte le ricerche iniziate in quel volume e di sviluppare le mie tesi in Giustizia e razionalità (1988), Enciclopedia, genealogia e tradizione (1990) e Animali razionali dipendenti (1999), come conseguenza di una discussione critica e costruttiva che si è sviluppata in aree linguistiche assai diverse – non solo in inglese, danese, polacco, spagnolo, portoghese, francese, tedesco e italiano, ma anche in turco, cinese e giapponese – e ha coinvolto numerosi interlocutori, di diverse tradizioni di pensiero. Sono convinto perciò che qualora vi fossero state buone ragioni per confutare il nucleo dell’impianto argomentativo di Dopo la virtù, avrei avuto tutto il tempo per individuarle con certezza. Fino a questo momento però, non ho trovato motivi sufficienti per abbandonare le tesi principali di Dopo la virtù; qualcuno mi taccerà per questo motivo di una testardaggine invincibile; quale che sia il giudizio sul mio conto, rimane il fatto che ho imparato molto nel frattempo, integrando e modificando di conseguenza le mie tesi e argomentazioni precedenti.
Il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre |
Per poter giudicare adeguatamente la cultura morale dominante della modernità avanzata, questo era e rimane il nucleo centrale del volume di cui stiamo parlando, bisogna giudicarla dall’esterno. Essa appare ancora oggi lo scenario di controversie irrisolte e apparentemente irrisolvibili, di natura morale e non solo, tra fazioni avverse le cui rispettive argomentazioni valutative e normative ci pongono dinanzi al dilemma seguente: per un verso si dà per scontato il riferimento a criteri condivisi impersonali in forza dei quali si assume che una delle parti in causa alla fine otterrà ragione. D’altro canto, pare proprio che un siffatto criterio non esista nella realtà, a giudicare dalla povertà delle argomentazioni a sostegno delle diverse tesi in campo, e dal modo con cui si continua a sostenerle: le si ripete invariate nella loro sostanza in maniera meramente assertiva e alla lunga petulante. La mia spiegazione di questo fenomeno era e rimane la seguente: i cosiddetti princìpi morali erano originariamente inseriti in un contesto di credenze pratiche e di modalità consolidate di pensare, sentire e agire, che li rendevano comprensibili; tale contesto, ove i giudizi morali trovavano il loro senso in riferimento a criteri impersonali giustificati da una concezione condivisa del bene umano, è andato perduto. Venuti meno il contesto e la giustificazione, a seguito di complessi processi di trasformazione sociale e morale occorsi alla fine del Medioevo e alle soglie della modernità, bisognava individuare nuove strade per poter spiegare le regole e i precetti morali, e di conseguenza attribuire loro un nuovo statuto, autorità e giustificazione. È quanto i filosofi morali dell’Illuminismo europeo hanno tentato di realizzare a partire dal diciottesimo secolo in avanti. Tuttavia, il risultato delle loro riflessioni è stato di fatto la moltiplicazione di teorie rivali, le une incompatibili con le altre, gli utilitaristi in conflitto con i kantiani, gli uni e gli altri opposti ai contrattualisti, in modo tale che i giudizi morali, come oggi li si intende, si riducono essenzialmente a regole che esprimono il comportamento e il sentire di chi le ha formulate, e ciò nonostante si continua a presentarle assumendo che ci sia un criterio impersonale in base al quale i conflitti morali potrebbero essere risolti razionalmente. Tali disaccordi riguardavano sin dall’inizio, non solo la giustificazione, ma anche il contenuto della morale.
Questa caratteristica peculiare della cultura morale della modernità non è cambiata. E io sono rimasto dell’idea che si possa comprendere la genesi e la situazione di stallo della modernità morale soltanto a partire dal punto di vista di una tradizione differente, di cui Aristotele ha raccolto e analizzato credenze e presupposti, elaborandoli teoricamente nella sua ben nota teoria classica. Non voglio sostenere, questo è importante sottolinearlo, che la dottrina morale aristotelica sia in grado di vedere riconosciuta la propria superiorità razionale e di essere accettata dagli esponenti delle correnti più accreditate della filosofia morale, in altre parole che un aristotelico sia in grado di avere la meglio nei confronti di un kantiano, un utilitarista o un contrattualista, nelle dispute teoretiche che avvengono nei teatri della modernità. Sarei subito smentito e non potrei obiettare nulla: la situazione è evidentemente diversa; non solo: in un simile agone, l’aristotelismo è costretto a presentarsi e si presenta di fatto come una solamente tra le tante proposte morali, i cui esponenti hanno la stessa, flebile speranza di confutare i loro rivali, cosa che peraltro accade anche agli utilitaristi, ai seguaci di Kant o ai contrattualisti.
La mia convinzione di allora, che rimane immutata ancor oggi, è che l’inconsistenza del discorso morale della modernità si spiega a partire dal genere di vita che ricalca la logica e si comprende alla luce dei concetti formulati da Aristotele; da questa prospettiva si capisce anche perché la cultura della modernità morale sia priva delle risorse che possono farla progredire nelle proprie ricerche, cosicché sterilità e frustrazione sono l’inevitabile conseguenza con la quale essa è costretta a misurarsi per venir fuori dall’impasse in cui si trova. In questo momento però comprendo molto meglio di venticinque anni fa le ragioni che mi hanno portato a sposare le tesi di Aristotele, e che si devono ad almeno due tipi diversi di sollecitazione.
Quando ho scritto Dopo la virtù, ero già un pensatore aristotelico, ma non ancora un tomista: basta leggere quanto scrissi allora su San Tommaso alla fine del capitolo 13. Sono diventato tomista dopo aver scritto Dopo la virtù, in parte perché mi sono convinto che l’Aquinate era per certi versi più aristotelico di Aristotele: non soltanto era un eccellente interprete dei testi del filosofo greco, ma era stato in grado di estendere e approfondire le ricerche metafisiche e morali del proprio maestro. Ciò mi ha fatto cambiare idea in almeno tre casi.
In Dopo la virtù offrivo una spiegazione delle virtù che definirei aristotelica in senso ampio, senza far ricorso o appello a quella che allora definivo la biologia metafisica di Aristotele. Buona parte della biologia aristotelica è senza dubbio sorpassata. Tuttavia, San Tommaso mi ha fatto capire che il mio tentativo di spiegare il bene sociale ricorrendo semplicemente a una teoria della società, in termini di pratiche, tradizioni e dell’unità narrativa delle vite umane, non sarebbe stato adeguato finché non fosse stato esplicitamente fondato in una metafisica. Pratiche, tradizioni e tutto il resto possono funzionare, come di fatto funzionano, solamente in quanto gli uomini hanno un fine verso il quale muovono in ragione della loro natura specifica. Così ho capito che, senza rendermene conto, avevo dato per scontata la verità di qualcosa di molto simile alla dottrina del bene che si può leggere nella quinta quaestio della prima parte della Summa Theologica.
Un’altra cosa che ho dovuto ammettere è stata di avere bisogno di basi biologiche per attribuire virtù e vizi agli esseri umani, e che essa poteva non essere necessariamente di matrice aristotelica. È quanto ho esposto un bel po’ di tempo dopo in Animali razionali dipendenti, la cui tesi centrale è che l’animalità degli esseri umani gioca un ruolo fondamentale nell’elaborazione della teoria morale, e per capirlo appieno si deve riconoscere la nostra affinità con alcune specie animali quali ad esempio i delfini, che si trovano appena al di qua della soglia della razionalità specificamente umana.
Nello stesso libro, ho dato anche una spiegazione più accurata del contenuto delle virtù, identificandone alcune col nome di “virtù della dipendenza riconosciuta”. Seguendo questa logica, ho preso spunto dalla dottrina sulla misericordia di Tommaso d’Aquino, un punto che lo separa da Aristotele in maniera decisiva.
Sono dunque giunto a questi cambiamenti del mio pensiero in seguito alle riflessioni sui testi di Tommaso e sui commenti ai medesimi da parte di alcuni studiosi tomisti contemporanei. Il mio pensiero si è però sviluppato anche grazie alla spinta delle critiche rivolte a Dopo la virtù da parte di quanti si trovavano in radicale disaccordo con il mio libro. Prenderò spunto da una di queste, la quale più che derivare da una reale incomprensione, parrebbe provenire da una lettura non attenta del testo. Sono stato accusato di nostalgia per un passato che avrei idealizzato: questo perché la mia comprensione della tradizione delle virtù muove dall’interno della polis greca, in modo particolare da quella ateniese in cui è stata adeguatamente razionalizzata; e perché, poi, ho indicato nell’Europa del Medioevo l’ambiente nel quale per cui quella tradizione è potuta maturare. Mi pare tuttavia che non ci siano spunti sufficienti nel testo per un’accusa del genere.
Sono certamente convinto del fatto che dobbiamo rileggere il nostro passato, per comprendere la nostra identità e le nostre relazioni morali di oggi alla luce di una tradizione che ci renda capaci di superare gli ostacoli che la modernità, specialmente la modernità avanzata, impone a una simile conoscenza di sé. Allo stesso tempo, viviamo inevitabilmente nella modernità avanzata, di cui assumiamo i caratteri sociali e culturali che la contraddistinguono. Il mio modo di comprendere la tradizione delle virtù, le conseguenze per la modernità del rifiuto di considerare questa tradizione e la possibilità di rimetterla in gioco, si può capire solo se si vive nella modernità. Le continuità e le fratture della tradizione delle virtù, così come essa si è declinata secondo una varietà di forme culturali diverse, si possono comprendere infatti solo retrospettivamente, a partire della prospettiva moderna, nel momento in cui si cerca una via per venire fuori dalle secche della modernità morale.
Detto in altri termini, il genere di ricerca storica che ho svolto in Dopo la virtù è possibile solamente dopo il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Vico è stato l’antesignano di questo genere di ricerca storica, anche se personalmente devo di più a R.G. Collingwood, e a J.H. Newman, soprattutto per quanto riguarda la comprensione della natura e della complessità delle tradizioni.
La ricerca storica mostra come ogni interrogativo sia formulato all’interno di una situazione determinata; il valore dei criteri di verità e di giustificazione razionale emerge in contesti di pratica che variano nello spazio e nel tempo; se, come ho fatto io, si nega l’esistenza di qualsiasi criterio di verità e di giustificazione razionale a disposizione di qualsiasi agente razionale in maniera che si possa risolvere in maniera inoppugnabile ogni fondamentale disputa di carattere morale, scientifico o metafisico, semplicemente facendovi appello, allora l’accusa di relativismo sembra inevitabile (la parola “accusa” è probabilmente fuori luogo, dal momento che per il mio presunto relativismo ho ricevuto complimenti da quanti hanno cercato di inserirmi nella schiera dei postmodernisti – si veda Peter Watson, The Modern Mind: An Intellectual History of the Twentieth Century, HarperCollins, New York 2001, pp. 678-9). Avevo già abbozzato una risposta a quest’addebito nel poscritto alla seconda edizione in lingua inglese; ho articolato ulteriormente la mia risposta in Giustizia e razionalità; tuttavia, dal momento che c’è chi a tutt’oggi mi taccia di relativismo, mi si permetta una volta ancora di chiarire che cosa mi consente, o più precisamente, esige che io rifiuti la posizione relativistica.
La tradizione aristotelico-tomista, la tradizione delle virtù, è come alcune altre, anche se non tutte le altre tradizioni morali, una tradizione di ricerca. Le tradizioni di ricerca si contraddistinguono perché ritengono che il nucleo delle loro tesi sia vero e le loro argomentazioni di fondo siano corrette. Se fosse vero il contrario, sarebbe difficile per loro definire il fine e l’oggetto delle loro ricerche oppure dare ragione delle proprie conclusioni. Tuttavia, dal momento che esse sono e sono state in contrasto reciproco in merito ai rispettivi criteri di giustificazione razionale – anzi, la questione principale che alimenta il dibattito riguarda proprio i criteri ai quali bisogna fare riferimento – e posto che ognuna di esse contiene al proprio interno criteri specifici, sembra che le loro dispute debbano rivelarsi sistematicamente irrisolvibili, anche nel caso in cui le parti in causa condividano sia il rispetto per le esigenze della logica sia una medesima concezione di base della verità, per quanto ristretta possa essere. Esempi di simili tradizioni rivali che riproducono chiaramente tale logica di conflitto sono la tradizione aristotelica e tomistica, il buddismo che trova la migliore espressione filosofica nel nâgârjuna, e l’utilitarismo moderno europeo e nordamericano.
In che modo allora, se un modo c’è, i protagonisti di una di queste tradizioni potrebbero sperare di confutare le affermazioni dei propri avversari? Come prima cosa, dovrebbero capire che cosa vuol dire pensare secondo le modalità fissate da quella particolare tradizione rivale, imparare come si ragiona quando si è convinti sostenitori di quella particolare tradizione. Per fare questo bisogna sviluppare una certa capacità d’immaginazione filosofica, di cui spesso oggi si avverte l’assenza. Il secondo passo consiste nell’individuare le domande irrisolte e i problemi insoluti dall’interno di quella tradizione, cioè in base ai criteri propri di quella tradizione; in altre parole capire con gli occhi degli altri le difficoltà teoriche e pratiche che hanno arrestato il progresso della loro ricerca. Quando, nonostante una ricerca per quanto possibile meticolosa ed esauriente, le domande e i problemi d’importanza cruciale per quella tradizione si riveleranno irrisolti e insolubili, sarà necessario porsi alcuni quesiti, proprio perché non si vede più il modo di andare avanti nella ricerca. Forse quella tradizione è priva delle risorse necessarie per affrontare tali questioni e risolvere tali problemi ed è incapace di acquisirle fintanto che rimane fedele ai propri criteri e presupposti. Magari sono proprio i vincoli imposti dai princìpi razionali di riferimento e che derivano da simili presupposti che impediscono di formulare o riformulare domande e problemi in maniera da poterli risolvere e affrontare adeguatamente. Supponiamo che la risposta a queste due domande sia positiva: potrebbe anche darsi che le ragioni dell’impasse possano risultare evidenti a una tradizione rivale e magari proprio a partire dalla medesima tradizione rivale si potranno ricavare le risorse necessarie per superare le difficoltà.
Quando gli appartenenti a una tradizione riescono a relazionarsi con una particolare tradizione rivale avendo prima compiuto questi atti d’immaginazione e d’interrogazione, potrebbero concludere, addirittura potrebbero essere costretti a concludere, che le difficoltà di quella tradizione rivale possono essere adeguatamente comprese e superate solamente dal punto di vista della propria tradizione. In altre parole, se gli assunti di base della propria tradizione sono veri e le proprie argomentazioni corrette, una tradizione potrà ragionevolmente attendersi che a un certo punto una tradizione rivale debba incappare proprio in una ben precisa situazione di crisi, e comprendere che le risorse (concettuali, normative o di altro genere) di cui essa dispone sono insufficienti per poterne venire fuori. Questa è la via che consente a una tradizione di ricerca di rivelarsi più adeguata di un’altra in relazione alle proprie pretese di verità e di giustificazione razionale, senza per questo ammettere che esistano dei criteri neutrali in riferimento ai quali qualsiasi agente razionale potrebbe determinare la superiorità di una tradizione nei riguardi di un’altra.
Tuttavia, proprio perché non esistono criteri neutrali in questo senso, i protagonisti di una tradizione votata alla sconfitta possono non riconoscere, possono non essere in grado di riconoscere che si è caduti in errore.
Possono benissimo ritenere di essere alle prese con problemi che riguardano la propria tradizione, ai quali non è stata ancora data nessuna soluzione pienamente soddisfacente al momento presente, senza per questo avvertire l’esigenza di andare oltre questa semplice presa di coscienza. Potrebbero ancora ritenere di avere ottimi motivi per rifiutare qualsivoglia invito ad adottare il punto di vista di un’altra tradizione rivale e incompabibile, anche al semplice livello d’immaginazione, perché se i princìpi ai quali danno il loro assenso sono veri e razionalmente giustificati, come essi ritengono che siano, allora tali asserzioni avanzate dagli appartenenti a tradizioni rivali che risultano incompatibili con la loro dovranno essere false e prive di giustificazione razionale. Così essi continueranno – forse indefinitamente – a difendere le loro stesse posizioni e a continuare con le loro ricerche, incapaci di riconoscere che sono di fatto condannate alla sterilità e alla frustrazione.
È ovvio che tradizioni rivali di ricerca morale possono coesistere per lunghi periodi di tempo; questo è importante: l’aristotelismo-tomista, il buddismo madhyamaka e l’utilitarismo europeo e nordamericano hanno vissuto insieme, senza che mai nessuno di essi avesse l’occasione di prendere in considerazione le critiche dei propri rivali; a maggior ragione, non hanno sentito l’esigenza di intraprendere il genere di ricerca che potrebbe portare una di queste tradizioni ad essere razionalmente sconfitta da un’altra. Ed è pure vero che questa ricerca può non condurre di fatto a nessuna conclusione definitiva, di modo che le questioni che dividono tali tradizioni rivali potrebbero restare in sospeso. Tuttavia è più importante avere individuato la via per cui problemi di questo tipo possono essere risolti in alcune situazioni e che per questa via appare evidente che le pretese di queste tradizioni rivali presuppongono sin dall’inizio la falsità del relativismo. Questo è il mio modo di fare ricerca e dovrebbe essere quello di ogni ricercatore che si rispetti.
Mi si consenta adesso di passare a una critica molto diversa, quella di chi vuole difendere la modernità liberale ed individualista e formula le proprie critiche muovendo dal dibattito tra liberali e comunitaristi (dando per scontato che io sia uno di questi ultimi, cosa che non è mai stata vera). Personalmente, non riconosco alcun valore alle comunità di cui si parla in questo dibattito; molte di queste sono brutalmente oppressive; inoltre, i valori della comunità, come sono intesi dagli esponenti americani del comunitarismo, gente come Amitai Etzioni, sono perfettamente compatibili con i valori del liberalismo che io rifiuto, anzi contribuiscono a sostenerli. La critica che muovo al liberalismo deriva dalla convinzione argomentata che la vita migliore per l’uomo, quella in cui la tradizione delle virtù si esprime nel modo migliore, è vissuta da quanti sono impegnati a costruire e sostenere forme di comunità volte a ottenere insieme i beni condivisi che rendono possibile ottenere il bene ultimo per l’uomo. Le società politiche liberali s’impegnano per definizione a negare qualsiasi spazio per una concezione sostantiva del bene nel dibattito pubblico, e ancor meno possono accettare che la loro vita comune possa essere fondata su una concezione determinata del bene. Secondo la visione liberale dominante, il governo rimane essere neutrale riguardo alle concezioni rivali del bene umano, anche se il liberalismo promuove un ordine istituzionale sostantivo che è ostile alla costruzione e al sostentamento delle relazioni solidali richieste per vivere la vita migliore dell’uomo.
Questa critica del liberalismo non deve essere assolutamente interpretata come indice di una mia personale simpatia nei confronti di qualsiasi genere di conservatorismo contemporaneo. Il conservatorismo è per molti versi l’immagine speculare del liberalismo cui professa di opporsi. Il proprio impegno a sostegno di uno stile di vita strutturato dall’economia del libero mercato genera un individualismo distruttivo al pari di quello del liberalismo. Dove il liberalismo ha tentato di usare il potere di trasformare le relazioni sociali caratteristiche dello stato moderno, favorendo leggi permissive, il conservatorismo si serve del medesimo potere per attuare i propri propositi di coercizione, promulgando leggi proibitive. Conservatorismo e liberalismo sono ugualmente in opposizione alla visione di Dopo la virtù. Così la categoria dei moralisti conservatori contemporanei, con la loro tronfia retorica priva d’ironia e spesso di fondamento, dovrebbe essere aggiunta ai personaggi descritti nel capitolo 3 di Dopo la virtù, tra i protagonisti che caratterizzano i drammi culturali della modernità, il terapeuta, che negli ultimi vent’anni si è lasciato ammaliare dalle scoperte della biochimica, quella del manager, che continua a ripetere le formule che ha imparato in un corso di business ethics, mentre sta ancora cercando la giustificazione delle proprie pretese di competenza, e quella dell’esteta, che sta oggi emergendo dalla propria venerazione per l’arte concettuale. Così il conservatore moralista è diventato anch’egli un personaggio ricorrente, nelle trame intessute dalle élites che governano la moralità avanzata. In ogni caso, a queste élites non spetta mai l’ultima parola.
La tradizione delle virtù riaffiora infatti periodicamente all’interno della vita quotidiana, nella vita di persone comuni che si impegnano all’interno di una varietà di pratiche, compresa quella di mettere su e sostenere relazioni familiari e di vicinato, scuole, cliniche, e forme locali di comunità politiche. Questa rigenerazione rende capace la gente comune di mettere in discussione i modelli dominanti del dibattito morale e sociale e le istituzioni che trovano la loro espressione in modelli simili. Mentre scrivevo Dopo la virtù, immaginavo persone di questo tipo, e ancor oggi scopro con piacere che proprio loro ne sono i lettori più adatti, quelli più capaci di riconoscere nelle tesi centrali del libro, l’articolazione filosofica di idee che loro avevano già elaborato in maniera spontanea a partire dalla loro vita quotidiana, l’espressione delle motivazioni che in qualche modo già spiegavano la loro condotta.
Nel capitolo introduttivo alludo a Un cantico per Leibowitz, lo straordinario romanzo di Walter M. Miller Jr., e nelle battute conclusive del capitolo finale richiamo il raffinato poema di Constantine Kavafis, Aspettando i barbari. Probabilmente, in un eccesso d’ottimismo, ho pensato che quasi tutti i lettori avrebbero riconosciuto entrambe le citazioni. Visto che generalmente questo non è accaduto, vorrei esplicitare in questa circostanza tali debiti d’immaginazione, che sono tanto importanti quanto quelli intellettuali riconosciuti nel testo. E dovrei anche chiarire che, benché Dopo la virtù sia stato scritto in parte per portare alla luce e motivare le inadeguatezza morali del marxismo che la storia del ventesimo secolo ha reso evidenti, ero e rimango profondamente debitore della critica marxiana dell’ordine economico, sociale e culturale del capitalismo e dello sviluppo di tale critica da parte di appartenenti alla medesima tradizione.
Nell’ultima frase di Dopo la virtù affermo che stiamo aspettando un nuovo San Benedetto. La grandezza di Benedetto sta nell’aver reso possibile l’istituzione del monastero centrato sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di oscurità sociale e culturale. Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro ricaduta istituzionale grazie a quanti in modi diversi hanno seguito la sua regola erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Quando scrissi quella frase conclusiva nel 1980, era mia intenzione di suggerire che anche la nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo, è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nella misura del possibile, nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella modernità avanzata. Questa era la situazione ventisei anni fa, e tale ancora oggi rimane.
(Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, prefazione alla seconda edizione italiana, traduzione di Marco D’Avenia. Impaginazione nostra)